(In un terribile ritardo)
Day
Two. Interviews? For what?
♪ You
will learn. ♪
Johnny
Depp mi salutò così quella mattina quando entrai
in casa con le
chiavi che mi aveva dato il giorno precedente. "Il contratto
dice alle 9, quindi sei autorizzata a venire a quell'ora. Al massimo
sarai costretta a svegliarmi, fai un po' tu", aveva borbottato
lanciandomene una copia. Quella mattina erano le nove e un quarto
quando arrivai, e lui non stava decisamente dormendo.
Feci un
primo passo sulla scalinata che portava al secondo piano, poi un
altro, fino a raggiungere il pianerottolo.
♪
There's a hole in the world like a great black pit
and the vermin
of the world inhabit it
and its morals aren't worth what a pig can
spit
and it goes by the name of London... ♪
Fantastico,
stava cantando. Per di più, dallo scroscio dell'acqua avrei
giurato
che stesse cantando sotto la doccia. Visto il sogno che avevo fatto
quella notte – e che non voleva proprio abbandonare la mia
mente
per lasciarla libera – non posso dire di essere stata
assolutamente
a mio agio in quel momento. Ripetei a ritroso il movimento che avevo
fatto salendo, il quale mi fece quasi cadere dal terzultimo scalino.
Recuperato l'equilibrio e le facoltà mentali, corsi via come
un'adolescente sui miei stivaletti vellutati.
Mi allontanai
fino a raggiungere la prima caffetteria, quindi, ordinato un
cappuccino, mi sedetti all'esterno e decisi di fare qualche
telefonata.
«Sai che sei una stronza e che ho passato le ultime
ore a razionalizzare ciò che ho fatto ieri a Johnny Depp? HO
ANNUSATO JOHNNY DEPP! Ti rendi conto o no?» esordì
Claire dopo il
primo squillo.
Allontanai il telefono dall'orecchio per
recuperare l'udito, di conseguenza risposi solo dopo un paio di
secondi. «Non ho avuto tempo di avver-»
«TEMPO UN CORNO!»
Sembrava furiosa e non potevo darle tutte i torti. Beh, in effetti
sì, ma...
«Non avevo idea che tu fossi a casa mia, ma
soprattutto non mi aspettavo di dovergli far vedere il mio
appartamento, scema!»
Un minuto di silenzio prima di risentire la
sua voce. «Okay, ma voglio incontrarlo di nuovo.»
Ora suonava più
determinata che mai, la finta rabbia si era dissolta e la voce
emanava gioia al solo pensiero di rivedere il suo attore
preferito.
Accennai una risata. «Promesso!» Dissi prima di
riattaccare.
La chiamata peggiore mi aspettava ancora, però.
Dovevo informare Jack, il mio capo, dei "progressi"
dell'intervista. Non avevo molto, in realtà non avevo nulla,
ma non
potevo scomparire all'improvviso dal radar della redazione come se
niente fosse. Il telefono squillo una, due, tre volte, e lui non
sembrava voler rispondere.
«Avanti...» mormorai come a spingere
un immaginario Jack verso la cornetta del telefono con le parole.
Miracolosamente funzionò.
«Pronto?» Rispose annoiato. In
sottofondo sentivo il rumore di vari fogli spostati, il che mi fece
tornare in mente una serie di ricordi di lui che vagliava distrutto i
conti del giornale, relegando continuamente tutto al notaio. Erano
rarissimi i giorni di congedo che avevo preso, infatti in quel
momento il mio cubicolo, la mia scrivania e le urla dei colleghi mi
mancarono immensamente.
«Jack, sono Helen.»
«Oh-oh! Come
procede l'articolo?» Un estivo Babbo Natale, ecco cos'era.
Mi
limitai abbozzando un sorriso. « Procede. Lui sta facendo un
po' il
duro, ma sono sicura che col tempo...» "... la sua morte
sarà
un mistero perfino per me". Okay, cosa diavolo mi stava
succedendo? Citavo anche a mente i suoi film? «... che con il
tempo
si scioglierà e mi racconterà qualche
segreto.» Conclusi incerta.
«Beh, ma è perfetto!» Sentii una porta
aprirsi e richiudersi,
il rumore di tacchi, Jack salutò a bassa voce la donna.
«Ti devo
lasciare, ma ci sentiamo presto!» e chiuse la conversazione.
Era
tempo di affrontare il mio nemico. Tutto quello che dovevo fare era
eliminare quel sogno insensato dalla mia memoria. Il problema non
erano i sentimenti che provavo per lui perché erano nulli,
ma
l'insicurezza che mi aveva causato quel momento di fronte alla scena
di The Libertine. Insomma, la mia mente mi aveva tradito! Entrai
spavalda in casa, e quella bastarda mi distrusse di nuovo facendomi
inciampare nel minuscolo scalino. Due braccia mi recuperarono e mi
aiutarono a rialzarmi. «E' ricercato da tutto il mondo, non
sei
imbranata tu, non preoccuparti.»
Sul momento non capii. Mi misi
in piedi, controllai eventuali ossa rotte e poi alzai gli occhi verso
il mio salvatore. «Ricercato? Non...» Ah, assassino
ricercato!
«Giusto.» Commentai passandomi una mano tra i
capelli.
Johnny
era vestito di tutto punto: camicia, panciotto, giacca –
cravatta
assente, ovviamente – e jeans. Mi squadrò per
controllare che
fossi tutta intera, prese la matita dal bancone ricoperto di lettere
e chiavi varie, quindi si lanciò sul divanetto di fianco a
una
chitarra classica; la prese, socchiuse gli occhi e iniziò a
suonare
una melodia a me sconosciuta.
Non lo stava facendo per
spettacolo, perché voleva far sapere ai fan quale gran
chitarrista
fosse. Lo stava facendo per se stesso, perchè in qualche
modo era
visibile quanto si sentiva bene mentre suonava. Apparteneva a un suo
mondo incantato, fatto di note e storie impossibili, un mondo irreale
in cui, per un lungo periodo, desiderai poter entrare a far parte.
Mi
trascinai con l'eleganza di un bradipo fino alla poltrona di fianco a
lui. Mentre prendevo il blocco appunti e la penna continuai ad
ascoltare e lui sembrò notare minimamente la mia presenza.
Scrissi
velocemente, e senza rendermene davvero conto, "Dannazione,
perché non lo fanno suonare in un film?", per poi passare a
cose più dettagliare tipo la sua posa – una gamba
a penzoloni e
l'altra appoggiata al bracciolo – e la sua espressione
serena.
Interruppi dopo un paio di minuti quel silenzio. «Non sapevo
suonassi.» Dissi con voce incerta.
«Non sai un sacco di cose, a
quanto vedo.» Rispose con gli occhi chiusi. Portò
l'altra gamba
oltre il bracciolo, poggiò la chitarra a terra e
iniziò a scrivere
ciò che aveva appena composto in una calligrafia scomposta e
disordinata. Già, un mondo tutto suo.
Ignorai il tono scorbutico
che aveva usato e continuai. «Da quando componi?»
Alzò gli
occhi su di me, poi sui fogli che reggevo in mano. Era quasi...
deluso. «Da sempre.»
Ero pronta a fare altre domande per
iniziare davvero l'intervista, ma m'interruppe il telefono.
Dannatissimo telefono. Rimisi tutto in borsa mentre lo prendevo e mi
allontanai. Guardai lo schermo. Era Logan. Sbuffai prima di
rispondere. «Pronto, Logan? Ti ho già detto di
smetterla di
chiamarmi, sto lav-» Perché continuavano ad
interrompermi mentre
parlavo?
«Hey, tranquilla, ti ho solo chiamato per sapere come
stai!» Stava sorridendo, riuscivo a sentirlo dal suo tono di
voce.
«Sto bene, grazie.» Un tono neutro era la migliore
opzione,
altrimenti avrebbe creduto chissà cosa, e l'unica cosa di
cui avevo
bisogno in quel momento era tornare insieme a lui.
«Non sto
tentando di tornare insieme o di assillarti, assolutamente, ma mi
piacerebbe prendere un caffè con te uno di questi
giorni...»
Non
ero crudele o cattiva. Io e Logan ci eravamo conosciuti al liceo ed
eravamo amici. Passati all'università, però,
qualcosa era cambiato.
Iniziai a notare alcune attenzioni che mi riservava e che, nonostante
tutto, non mi davano affatto fastidio. Dopo il primo periodo di
"assestamento", quindi, diventammo il prototipo delle
coppie perfette: litigavamo solo per le cose più stupide ma
subito
riuscivamo a fare pace, ci vedevamo ogni giorno ma passavamo anche
del tempo con amici che non erano comuni... Insomma, eravamo felici.
All'ultimo anno mi resi conto che però le feste di sera
erano
diventate troppo numerose e la mattina a malapena riuscivo ad
assistere alle varie lezioni. Lo amavo davvero, per questo lo lasciai
appena ebbi il lavoro alla redazione di Rolling Stone. Non potevo
sacrificare in quel modo la mia vita, ma lui non sembrava averla
presa molto bene. Tuttavia non ci eravamo lasciati prendere dalle
droghe o cose varie, per cui avevo ancora molti ricordi felici del
mio periodo con lui. «Un caffè dici? E vada per il
caffè.»
«Okay,
perfetto... uhm... domani mattina va bene? Verso le 9, visto che
sicuramente devi lavorare dopo.» In certi momenti era anche
adorabile, lo ammetto.
«Perfetto. Al solito posto.» Visto che
non eravamo mai andati a vivere insieme – almeno non
ufficialmente
– la mattina prima di andare a lezione ci incontravamo in un
piccolo café vicino il mio appartamento, visto che lui era
l'unico
con la macchina.
«Okay, allora... ehm... a domani!» Quasi mi
pentii di aver accettato.
Quando chiuse la conversazione squillò
il telefono di Johnny, ma lui non parlò affatto.
Inizialmente pensai
fosse Vanessa, ma la sua espressione non si scompose più di
tanto e
uscì facendomi un cenno. Lo seguii dopo aver recuperato la
borsa e
vidi che una macchina coi vetri oscurati, con dentro Tracey (la
malefica agente), ci aspettava... o perlomeno aspettava la star Depp.
Mi sedetti di fianco a lui sul sedile posteriore e partimmo verso una
meta sconosciuta.
«Hai, anzi, avete intenzione di dirmi dove
stiamo andando?» Domandai dopo qualche minuto di viaggio.
Johnny
aveva chiesto di accendere l'aria condizionata, quindi io mi
allontanai il più possibile dal centro del sedile, dove
l'aria
arrivava diretta. In questo modo ci trovavamo uno dai lati opposti
della macchina mentre la sua agente occupava il sedile anteriore di
fianco all'autista. Fu lei a rispondere per prima, con un tono
arrogante. «Sei qui per le interviste, sul contratto non
c'è
scritto nulla riguardo farti sapere dove stiamo andando.»
«Smettila
di fare la stronza, Tracey.» Johnny accennò una
risata mormorando
questa frase. «Sta solo facendo il suo lavoro, no?
Lasciaglielo
fare!» Nonostante mi avesse in un certo senso protetto, non
mi degnò
di uno sguardo. Non riusciva a nascondere il disprezzo che provava
verso la mia professione, sebbene quanto insensato e infantile.
«Johnny, Johnny!»
«Johnny, è la tua nuova
ragazza?»
«Hai ancora contatti con Vanessa?»
«E' vero che
ha intenzione di toglierti la custodia dei bambini?»
«Johnny, a
quando la prossima distruzione?»
Queste erano solo alcune delle
cose che si sentivano urlare quando uscimmo dalla macchina dai vetri
oscurati verso la folla di fotografi. I flash ci accecavano, eppure
Johnny ne sembrava immune dietro quei suoi occhiali dalle lenti blu.
Tracey Jacobs mi afferrò per un braccio e ci avviammo verso
l'entrata nello studio di Letterman mentre l'attore veniva fermato
per alcune foto.
Era pazzesco.
C'era gente che correva, altri
camminavano per non far cadere la moltitudine di caffé per
lo staff,
il pubblico aveva già iniziato ad affluire in sala insieme
alla
strana orchestra ai lati del palco. Johnny ci raggiunse subito dopo e
si diresse verso la sala per il trucco, dove gli fecero davvero pochi
ritocchi per farlo apparire perfetto davanti alla telecamera e, odio
dirlo, ma lo era davvero. Ancora non riuscivo a capire come facesse a
sopportare i flash delle fotocamere, le urla, le richieste, eppure
continuare ad essere gentile con i fan. Quella vita era un inferno,
io mi ci ero fiondata a capofitto.
Durante l'intervista
parlarono del più e del meno, dei suoi film che sarebbero
usciti a
breve, dei figli, però un argomento fu accuratamente evitato
dal
presentatore: la moglie o, per meglio dire, ex-moglie. Molto
probabilmente, dall'aria soddisfatta che aveva l'agente alla fine dei
20 minuti di ripresa, era stato chiaramente specificato nel
contratto.
Dannata la Jacobs e i suoi odiosi contratti.
Erano
circa a metà intervista, io stavo osservando dal backstage
uno
schermo su cui veniva trasmesso ciò che stavano registrando,
quando
uscì un argomento a dir poco divertente per me.
«Quindi... ho
saputo che stai facendo una strana intervista con Rolling Stone. E'
vero?» Domandò Letterman.
«Beh, sì, sono trenta giorni della
mia vita.» Sembrò volersi limitare a quello e
girò un attimo lo
sguardo di lato per incrociare gli occhi della sua agente.
«Ti
sembra una bella idea? Insomma, cosa ne pensi?»
Cosa stava per
rispondere? Era un attore, quindi sapeva ben nascondere le sue
emozioni, e in quel momento lo fece perfettamente facendo comparire
sul suo volto un sorriso e sfiorandosi il mento coperto dal pizzetto.
«Non mi piace molto che la mia vita privata sia messa sotto i
riflettori, ma sono un attore, ci sono abituato. Inoltre credo che
sia un'opportunità per le persone per vedere cosa succede
nel mondo
del cinema.» Ti eri salvato in calcio d'angolo, caro Depp.
Non ho
idea di cosa significhi, ma l'avevi fatto.
Tracey sembrò
piuttosto orgogliosa di quella sua risposta, come se fosse suo
figlio. Che gli avesse insegnato lei come aggirare i problemi? Come
cavarsela in questo modo? Che le avesse detto lei di evitare
paparazzi e giornali intrusivi? Che l'avesse condizionato
così
tanto?
Ci riaccompagnarono a casa di Johnny che era ormai
pomeriggio. Dopo Letterman eravamo passati anche da Jimmy Kimmel e
all'uscita ci eravamo fermati per strada, come prima, per gli
autografi. La cosa iniziava a diventare snervante per me, figuriamoci
per lui che doveva viverci ogni giorno. Entrai anche se me ne sarei
andata entro una mezzoretta: dopo quei giri e le interviste,
sicuramente non avrebbe giovato alla sua salute mentale avermi
intorno.
«Hai intenzione di rimanere per molto? Vorrei andare a
dormire.» Già, volevo andarmene, ma se me lo
diceva in questo modo
mi sentivo costretta a rimanere. Mi lanciai sul divano e lo osservai
da lì. Già, la compassione era scomparsa.
Sbuffò.
«Per molto,
finché non mi dirai cosa diavolo ti ho fatto. Ho ventisette
anni e
sto ancora facendo gavetta in un giornale che potrebbe portarmi in
alto. Questo articolo, il tuo, potrebbe essere il lavoro che mi
porterà a quei livello. Sto lavorando, lo capisci? Mi hanno
dato un
foglio in mano dicendomi:"Ecco ciò che devi fare,
và a fare il
tuo dovere. E' un pezzo grosso". Quindi mi ritrovo con un
foglio, una penna e un blocco appunti a segnare ogni particolare di
un attore di cui non sapevo e non m'interessava assolutamente nulla
fino a due giorni fa. Due giorni. Ora sono qui, tra paparazzi e pezzi
di carta per cui ogni tuo fan pagherebbe milioni. Quindi smettila di
imitare lo stereotipo dell'attore hollywoodiano con me,
perché non
attacca e perché mi rendi solo in lavoro più
difficile.» Mi alzai
dal divano, caricai la tracolla sulla spalla e mi avviai verso
l'uscita, ma mi fermai prima di fianco a Johnny. «Smettila di
rendermi il lavoro dannatamente difficile e sono sicura che questi
ventotto giorni passeranno molto più velocemente.»
Uscii sbattendo
la porta.
Lo sguardo che vidi apparire sul suo volto firmò un
tacito accordo tra noi due, l'inizio di tutto.