Possessione
Siamo
tutti esuli del nostro passato.
Fëdore Dostoevskij
Dopo quella luce accecante, ogni cosa
era stata avvolta dall’oscurità: di nuovo.
Solo una macchia di colori e luce era
visibile in lontananza, quasi irraggiungibile per chi avesse perso le speranze
di ritrovare un’uscita da quell’oscuro corridoio. E lei ancora non aveva perso.
Si diresse, nuotando nelle tenebre, fino a quel punto di luce e vide se stessa.
Era un’immagine talmente irreale che non poteva essere frutto di un suo ricordo,
poiché da quando aveva memoria non ricordava di aver dormito così beatamente
riscaldata dai raggi del sole: vedeva che il suo falso riflesso si trovava in
un bosco, almeno così sembrava all’apparenza, appoggiata a un albero, con le
mani giunte sul petto, come in atto di preghiera. Per chi pregava? Per un Dio
che l’aveva fatta cadere in quella orribile situazione?
Eppure, su quel volto non c’erano
tracce di preoccupazione, di ansia o di tristezza: sembrava serena, in pace con
il mondo e con se stessa. Anche lei avrebbe voluto essere così: la invidiava
per questo.
Sorrise dentro di sé, perché trovava
buffo invidiare il proprio io. Ma avrebbe dato veramente qualsiasi cosa per
fare cambio con il riflesso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per sentire quel
tiepido calore benefico.
Eppure, perfino lei adesso sentiva
ardere dentro di sé un fuoco, ma non era come quello del sole: sembrava più
violento, come se avesse voluto prendere possesso di tutto il suo corpo. Ma lei
non volle reprimerlo, perché sentiva che era da tempo che divampava dentro di
lei, ma non aveva mai potuto ribellarsi completamente. Ma adesso era il momento
di risvegliarsi.
Decise così di lasciare a malincuore
quella macchia di luce e quell’immagine così falsa che la rifletteva in un
passato lontano, o forse in un futuro prossimo. Si immerse ancora di più
nell’oscurità, lasciando che quel fuoco misterioso cominciasse ad ardere e
ricoprire quel corpo freddo, così diverso da quello della sua se stessa nel
bosco. Vide delle tenui fiamme blu che fuoriuscivano con timidezza dal suo
corpo, per poi divampare con forza intorno a lei. Lentamente, si ritrovò
circondata da fuochi fatui blu.
Ma non era preoccupata, o spaventata,
perché sapeva che quelle fiamme non le avrebbero mai fatto del male: dopotutto,
erano una parte di lei. Anzi, si lasciò andare a questo calore che non
bruciava, ma appariva piacevole e quasi soporifero. Una parte di sé, quella più
razionale, avrebbe voluto ribellarsi al giogo demoniaco; ma quell’altra, quella
appunto che deriva dalla sua vera natura che non era mai perita, la intimava a
rilassarsi e a seguire l’esempio del suo riflesso. E così lei fece.
Pensò solo, con tristezza, che non
avrebbe mai raggiunto la pace della sua se stessa dell’immagine, poiché si era
addossata un fardello forse troppo pesante per lei; ma finché quelle fiamme non
l’avessero abbandonata, era sicura che ce l’avrebbe fatta.
Che fosse speranza, o che fosse
disperazione quella che la guidava, non ne era sicura nemmeno lei: ma sapeva
più di chiunque altro che non sarebbe comunque rimasta da sola. Fino all’ultimo
alito di vita, avrebbe combattuto per riportare le cose alla normalità, avrebbe
combattuto per lei.
E chissà, forse riuscirà a raggiungere
quel frammento di anima nel bosco, al momento profondamente addormentato per
lasciare spazio al demone che c’era sempre stato in lei. Era sicura che la sua
anima l’avrebbe attesa fino alla fine, con pazienza.
Era sicura che un giorno l’avrebbe
ritrovata lì e che finalmente si sarebbero potute addormentare insieme. Con la
pace agognata nel cuore.
Non appena riaprì gli occhi, Faust si
ritrovò in mezzo alla strada, di fronte a un incrocio: la destra portava in
piazza, con la forma storta del campanile che si piegava su se stesso; la
sinistra invece conduceva verso un viale circondato da case che un tempo
appartenevano alle persone ricche, mentre adesso erano solo il triste residuo
di una città di cartone dove la mano capricciosa di un Dio infantile era
passata su di essa, distruggendola.
E non era da sola. Demoni di qualunque
forma, di qualsiasi incrocio la osservavano digrignando le zanne, con occhi
spiritati e l’istinto animalesco nello sguardo. Ma alcuni di loro apparivano
anche titubanti ad attaccarla, quasi fossero spaventati. Non capendone il
motivo, Faust si guardò le mani, ora inguantate di un lilla acceso, e fece un
passo indietro, sorpresa: non ricordava di essersi cambiata d’abito.
Cercò una superficie riflettente, per
vedere cosa diavolo era successo dopo quella luce accecante. Inoltre, Mephisto era sparito, lasciandola sola in balia dei demoni.
Trovò una finestra rotta di una casa e
vide finalmente il proprio riflesso. Ciò che le si dipinse sul volto, era una
smorfia di disgusto e di disappunto: odiava il rosa. La sua giacca di pelle
nera era sparita, così come i suoi jeans e la sua amata sciarpa viola; al loro
posto, uno stile a dir poco “medievale” la rifletteva sulla superficie liscia e
rotta della finestra: stivali bianchi che non arrivavano nemmeno al ginocchio,
accompagnati da calze azzurre a pois bianchi – calze a pois?! – che, nonostante il gelo della notte, la riscaldavano
abbastanza; pantaloncini corti, bombati e di un fucsia molto acceso, così come
il sopra; una cintura di cuoio, alla quale era legato un piccolo sacchetto di
stoffa, le circondava la vita divenuta incredibilmente sottile; una giaccia del
medesimo colore dei pantaloncini la stringeva ai fianchi, con ricamate ai lati
sottili strisce dorate che formavano piccoli ovali; dietro, un lungo mantello
bianco, con l’interno viola scuro, legato al collo e con i risvolti alzati in
aria, la ricopriva completamente; infine, un singolare cappellino bianco che le
circondava a mala pena la testa era ornato da due lunghe piume rosa piegate
indietro, in modo da non ostruirle la visuale. Il tutto, però, dovette
ammettere che era ben coordinato, soprattutto per le tonalità di colori, e
forse si trattava anche di un abito abbastanza elegante per la moda di altri
tempi.
Ma la sua reazione non cambiò
ugualmente. Era indecisa se vomitare o infamare colui che le aveva rovinato la
propria immagine solo per il gusto di fare.
“Mephisto,
dannato demonio! Dove sei?” urlò in preda alla rabbia e al disgusto.
Notò che la sua voce si era fatta più
acuta e, ispezionando la bocca con la lingua, si accorse che aveva dei canini
più appuntiti rispetto alla norma: delle zanne, poté appurare in seguito.
Una voce maliziosa e piuttosto
divertita le rimbombò in testa.
“Qui, mia cara. Proprio dentro di te!
Come dite, voi umani? Più vicino di così si muore!” disse prorompendo in una
nuova risata.
Faust si tappò le orecchie, gettando
sguardi persi intorno a lei: dov’era quel demonio?
“Maledetto, cosa hai fatto al mio
corpo? Questa non sono io!”
“Infatti, questa forma è frutto della
nostra unione, anche se non è il termine adatto per indicarla: possessione,
direi. Ho preso in prestito il tuo corpo e questo è ciò che ne è uscito: non è
fantastico?” esultò il demone, piuttosto euforico.
Faust avrebbe voluto staccargli la
testa a morsi, adesso che possedeva perfino delle zanne; ma nella situazione in
cui si trovava, la scelta giusta da fare era quella di stare al suo gioco: se
questo pagliaccio aveva il potere di aiutarla, si sarebbe piegata a qualsiasi
decisione. Ma c’era una cosa che non poteva accettare.
“Allora spiegami perché sono vestita
di rosa!” urlò al vento, sentendo una
furia cieca risalire in superficie. Insieme però a qualcos’altro.
“Questione personale di gusti. Devi
sapere che, quando incontrai per la prima volta il Dottor Faust, ero vestito
esattamente così: adoro questi abiti, ma non ho più avuto occasione di
indossarli… Inoltre, mi sento stranamente a mio agio in questo corpo e, come
forma di ringraziamento, ho voluto donarti questa forma decisamente più
attraente e potente…” disse, continuando a elencare altri motivi che l’avevano
spinto a prendere questa decisione.
Ma Faust non ci vide più. Così,
abbandonandosi a quella rabbia, mista al disappunto e a una buona dose di
vergogna, liberò tutti i suoi poteri demoniaci da tempo assopiti, prorompendo
in un grido quasi animalesco. Fiamme blu circondarono il suo corpo e vennero
aizzate contro quegli sfortunati demoni che si erano ritrovati a passare di lì,
attratti da tale confusione: ogni cosa venne bruciata, come voleva la natura
distruttiva del fuoco demoniaco.
Faust, vedendo ciò che aveva fatto,
tentò di imporsi la calma, senza però riuscirci: le fiamme continuavano a
prorompere dal suo corpo, con la stessa violenza di un vulcano in eruzione.
Pensò a Greta, ma la situazione non mutò; Mephisto,
resosi conto della difficoltà della ragazza, trattenne una risata e pronunciò
una formula in una lingua sconosciuta. A quelle parole arcane, le fiamme blu si
acquietarono, riducendosi a lievi scintille sulla testa della ragazza, simili a
corna. Intanto, Faust si accorse con orrore che una cosa nera spuntava da
dietro il mantello, muovendosi sinuosa e con una scintilla blu posta sulla
punta.
“Cos’è questa cosa?!” urlò rivolta a
se stessa, o più precisamente a Mephisto, prendendosi
la coda.
“La tua coda” rispose semplicemente il
demone.
“Questo lo vedo anche da me, ma perché
ho una coda?”
“Perché adesso sei un demone, proprio
come me! E se vuoi un consiglio disinteressato, faresti meglio a nasconderla: è
un punto debole per noi”
“Ma io sono umana…” gemette Faust,
prendendosi il viso fra le mani.
“Ogni essere umano ha una parte
demoniaca dentro di sé, che cela i suoi desideri più oscuri. Anche le persone
di questa città la possiedono, e imparerai presto a conoscerla” disse, bisbigliando
queste ultime parole.
Nonostante lo sconvolgimento, Faust
tirò un sospiro di sollievo nel sentire che non aveva ereditato nessun pizzetto
con la possessione: almeno per quello, manteneva la sua femminilità. Però,
osservandosi meglio al vetro, si accorse dei suoi occhi: non erano mutati in
sé, ma riconobbe una piccola punta di scarlatto, proprio al centro della
pupilla, che riluceva sinistra. Per il resto, ad eccezione delle orecchie a
punta, dei canini e della coda, non era cambiata più di tanto.
“Alla fin fine, non importa quale
aspetto assuma se la mia anima resta inalterata”
“Se riesci a mantenere vivo questo
pensiero, non perderai mai te stessa…” sentì sospirare Mephisto.
Faust sorrise e distolse lo sguardo
dal suo nuovo aspetto, decisa a ignorarlo per un po’. Si concentrò invece sul
bivio che aveva di fronte, sinceramente indecisa su quale strada scegliere; per
un attimo, si sentì come il povero Don Abbondio, posto anche lui dinanzi a un
bivio simbolico dove solo una delle due strade poteva concedergli la salvezza,
mentre quell’altra l’avrebbe portato inevitabilmente fra le braccia del Male.
Ma per lei stavolta non c’era scelta: entrambe l’avrebbero comunque portata in
grembo agli incubi.
“Allora, quale strada sceglierai?” la
destò Mephisto, avendo intuito i suoi pensieri.
Faust preferì evitare la piazza dove
di sicuro c’era un accumulo maggiore di demoni; inoltre il profilo ora sinistro
del campanile della chiesa le mise i brividi. Optò quindi per la strada che
conduceva alle residenze, incuriosita da quello che avrebbe potuto trovare
nelle case di cartone e decisa a fare un po’ di pratica con i suoi nuovi
poteri.
Camminando nella via silenziosa,
illuminata debolmente da qualche lampione storto, poté osservare meglio i
cambiamenti avvenuti nel giro di poche ore: un paesaggio da incubo le si apriva
davanti agli occhi, dove la vivacità e i colori che predominavano in precedenza
sui muri delle case, adesso erano solo spettri di un lontano splendore. Gli
orrori dell’animo umano si mostravano in tutta la loro violenta e cruda realtà.
Fra i giardini, un tempo di un verde
lussureggiante, strisciavano enormi vermi simili a quello che aveva tentato di
divorarla, mentre sui tetti spigolosi erano appollaiati gargoyle,
inquietanti cherubini dalle ali nere e gli occhi insanguinati, arpie invasate e
con le zanne ben in vista, pronte a gettarsi sulla loro prossima preda. Faust
li guardò uno ad uno, imponendosi un freddo autocontrollo e chiedendosi
cos’altro avrebbe potuto trovare in quella notte.
Poi si fermò d’improvviso di fronte a
una casa che non si distingueva in nulla dalle altre, ma che ai suoi occhi
aveva un aspetto ben diverso. Prima di questa notte, lei e Greta la chiamavano
la casa rosa e il nome scelto non era
certo casuale: la vernice rosa ricopriva quell’abitazione, rendendola
riconoscibile da lontano perfino di notte; il cancello era bianco, così come i
tavoli e le sedie esposte fuori, abbellite da qualche enorme fiocco di raso
bianco e rosa confetto legato qua e là, a rendere quella visione ancora più
dolce; Biancaneve e i sette nani si ergevano sul terreno, come antiche
sentinelle di quella casa; un cartellino appeso al cancello riportava questa
amichevole scritta: Ti auguro tutto ciò
che pensi di me. L’interno, inoltre, non si distingueva dall’esterno:
pareti fucsia, con affissi dei piattini bianchi con disegnati sopra gatti e
cani; peluche posti ordinatamente sulle mensole; mobilia di tutte le tonalità
di quel fausto colore…
Un enorme confetto, ecco cos’era. Se
non ricordava male, ci abitava una vecchia conoscente di suo padre, anch’essa
altrettanto singolare come la sua abitazione, ma di cuore gentile e mente
acuta.
“Entriamo” disse Faust, dirigendosi
verso il cancellino ora nero, arrugginito e piegato all’interno.
“Perché proprio qui?” domandò
incuriosito Mephisto.
“Perché questa casa, nella realtà,
rispecchierebbe i tuoi gusti”
Ignorando le bestie che la fissavano
malamente, Faust mise la mano sul pomello della porta squadrata e il dubbio di
trovarla chiusa la assalì. Quando però la serratura scattò e la porta si aprì
con un lento cigolio, un sentimento di sollievo misto a terrore la fece
fremere. Ma l’eco della risata di Mephisto, la
riportò violentemente alla calma: non voleva mostrarsi debole di fronte a quel
demone.
La porta si apriva sul vuoto, dove
l’oscurità aveva inghiottito ogni cosa: nero totale in quella casa dai gioiosi
colori. Ora come non mai avrebbe desiderato vedere quel rosa acceso.
Chissà
cosa troverò dentro…
“Prepara la tua mente, perché ciò che
vedrai sono le immagini partorite dalla mente umana, i desideri più nascosti
dall’animo, le brame oppresse dal proprio cuore: non lasciarti tentare da
nessuna di queste!” la raccomandò Mephisto.
Faust strinse gli occhi per riuscire a
scorgere qualcosa in quel buio perenne, ma null’altro che oscurità le si parava
dinanzi: perfino il suo futuro, da lì in poi, era incerto e oscuro come questo
corridoio.
Liberando così la mente da ogni futile
pensiero, di modo che qualunque cosa trovasse non potesse farle perdere la
ragione, sospirò rassegnata e si gettò nelle tenebre, abbracciandole come se
fossero vecchie amiche. Non si sarebbe mai immaginata che fossero così
inconsistenti e fredde…
La porta dietro di lei si richiuse
seccamente, privandola di ogni debole luce in quel mare nero. Continuò solo a
cadere, sperando solo che finisse quella lenta e lunga agonia che ritrovava
perfino nei suoi incubi.
Sperò solo che tutto ciò finisse il
prima possibile.
SPAZIO DELL’AUTRICE:
buonasera! – Perché come al solito i capitoli li pubblico di notte…
La storia sta andando per le lunghe, me ne accorgo perfino io: un
po’ perché è difficile amministrare il tempo e i capitoli, un po’ perché mi
servono fonti per i prossimi demoni che Faust dovrà sterminare. Anche se un’idea
cominciò già ad averla….
Capitolo abbastanza noiosetto e forse inutile, ma ci tenevo a farlo
soprattutto per parlare della possessione: quando ho visto per la prima volta
gli abiti di Mephisto quando incontra Faust, la mia
prima reazione è stata lo shock per quelle calze, poi ho pensato: “Quell’abito
lo devo mettere addosso a un mio personaggio!”. Ed ecco come è partorita l’idea
della possessione. Detto questo, vi saluto!
Eins, Zwei,
Drei! *puff