Qualcosa di più
We’re just fumbling through the gray
Trying to
find a heart that’s not walking away
Freddo.
Tirava vento quel
giorno.
Il
cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente.
Non
gli importava del freddo, non gli interessava il vento. Niente. Il vuoto.
Si
sentiva svuotato, senza emozioni. Era come se non fosse capace di avvertire più
nulla.
Qualcosa
di tanto in tanto lo toccava, pizzicandolo, urtandolo con precisione: nel punto
più giusto, lì dove avrebbe sortito un qualche effetto. Anche minimo, purché ci
riuscisse.
E in
quelle rare occasioni la sentiva: la solitudine.
Non
credeva avrebbe mai saputo cosa significasse essere soli. Sperava di non
scoprirlo mai.
Era
come essere sul ciglio di un dirupo, dondolati da un vento che non ti è amico
ma si finge tale.
Sei
lì, sul confine ultimo, e osservi l’immensità sotto di te: sai che un
passo falso, anche solo un minimo movimento, può bastare a farti piombare nel
vuoto. Cerchi con tutto te stesso di non farlo, di non muoverti: eppure è
difficile. E’ doloroso. Una lama cocente che ti stuzzica, infastidendoti.
Una
sofferenza continua, duratura. Insopportabile.
Al
punto che, guardando il vuoto, cominci a chiederti se non sia meglio lasciarti
cadere.
Tirava
vento quel giorno.
Il
cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente. Come sempre.
La
scopa fra le mani, le dita immobili e pallide: congelate dal freddo, screpolate
dal vento. Stanche.
Quante
altre ore doveva alla comunità? Quanto ancora mancava
alla fine di quella sofferenza?
Storse
la bocca, un sorriso amaro che gli increspava le labbra: non era il lavoro
forzato la fonte del dolore e lo sapeva perfettamente. Non sarebbe bastato
semplicemente lasciar cadere la scopa per porre finalmente fine al pizzicore.
Ci voleva qualcosa di più affinché il coltello smettesse di bruciare.
L’unico problema è che neanche lui sapeva cosa fosse quel qualcosa di
più.
Continuò
a raccogliere le foglie, ammucchiandole a bordo strada.
Con
metodo, ordine e pochissima voglia di portare a termine il lavoro.
Smetterò,
te lo prometto.
Sentiva
quelle parole riecheggiargli nella mente, sbiadite, sempre più lontane.
All’inizio
temeva di dimenticarle, ora sperava solamente che smettessero di ripetersi.
Si affievolivano, smorzate, lasciando spazio unicamente al
dolore. Strinse le dita attorno alla scopa, fermo, la vista che si appannava: i
colori delle foglie si mischiavano, finendo per amalgamarsi.
Abbassò
le palpebre, cercando di riprendere il controllo: non era il momento.
Assolutamente no.
Ignorò
il pizzicore insistente, quel leggero ma tenace bruciore: non poteva lasciarsi
andare. Mai.
Tirava
vento quel giorno.
Il
cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente. Come sempre.
Si
appoggiò al manico della scopa, cercando di reggersi in piedi con tutte le
forze che gli restavano.
Socchiuse
le palpebre, osservando il mare di foglie da dietro un velo sottilissimo di
lacrime.
E fu
in quel mare di foglie dal colore indefinito che vide qualcosa che stonava: un
foglio bianco.
Si
piegò piano, stringendolo con due dita e sollevandolo all’altezza degli
occhi: la scrittura non era precisa. Disordinata, sbilenca: trasmetteva una
sensazione di fretta e… frizzantezza?
Storse
il naso, chiedendosi se esistesse la frizzantezza. Probabilmente no.
Fece
per lasciar andare il foglio quando con la coda dell’occhio si accorse di
un movimento: voltò appena il capo, un sopracciglio che si sollevava mostrando
una di quelle sensazioni che in realtà non lo avevano ancora abbandonato. Una
serie di fogli ruzzolava nella sua direzione, sorpassandosi e scavalcandosi a
vicenda: guidati e spinti da quella leggera raffica di vento.
Li
osservò, incapace di fare alcuna cosa: si avvicinavano sempre più, i primi che
già gli sbattevano contro le gambe. Due, cinque, dieci. Afferrò al volo quelli
che riuscì, stringendoli convulsamente fra le dita congelate. Qualcuno gli
sfuggì, fermandosi poi nel prato alle sue spalle.
La
scrittura era sempre la stessa: disordinata, sbilenca e frizzante.
Si
guardò pigramente attorno, cercando una spiegazione per quanto era appena
accaduto.
Stava
per gettare la spugna, il solito senso di malessere che tornava a farsi
sentire, quando notò due puntini voltare affannati l’angolo della strada:
aguzzò la vista, cercando di inquadrarli meglio.
I due
puntini andavano ingrandendosi: sembravano correre anche loro verso di lui.
Bianchi,
ecco cosa sembravano: due indefinite sagome bianche.
Continuò
a stare appoggiato alla scopa, incapace di distogliere lo sguardo.
Sentiva
qualcosa: risatine, forse. O qualcosa di molto simile a gridolini divertiti.
Avevano un che di strano, quasi indefinibile. Non era abituato alle risate. Per
troppo tempo si era lasciato avvolgere e seppellire da un silenzio irreale, un
mutismo suo e di tutto ciò che lo circondava.
Attese,
immobile, senza sapere cosa fare.
Aspettava
senza saperne il reale motivo: forse, semplicemente, non gli andava di
muoversi.
E
quei puntini assunsero lentamente la forma di due persone, di ragazze. Correvano
verso di lui, veloci, i movimenti scomposti e resi impacciati dalla fretta di
raggiungerlo.
Alzò
leggermente il capo, osservandole meglio: le forme diventavano sempre più
distinte, man mano che si avvicinavano. La prima ad arrivare e a fermarsi ansante
davanti a lui era bionda.
I
capelli lunghi erano arruffati e scompigliati dal vento: la mano sinistra a
mantenere al suo posto un cappello bianco con un pompon azzurro sulla punta, la
destra che stringeva due libri e qualche quaderno al petto. Sorrideva,
gli occhi blu lucidi per la corsa:
-
Sono miei – sfiatò, piegandosi appena sulle ginocchia per riprendere
fiato.
Non
reagì, le parole della ragazza che gli passavano dentro senza minimamente
toccarlo: come se non potessero raggiungerlo. Si era perso, forse. In un posto
lontano da cui non sarebbe più riuscito a riemergere. Che fosse il burrone di
prima?
- Li
ha presi tutti? -
Anche
l’altra ragazza li aveva raggiunti: i capelli erano neri, corti. Gli
occhi scuri squadravano attenti la zona, come per avere rapidamente la
possibilità di prendere in mano la situazione.
Indossava
un cappello: bianco, con un pompon rosso sulla punta.
E i
due puntini bianchi erano spiegati.
-
Credo di no – rispose la biondina, indicando con un cenno del capo quei
pochi che erano finiti nel prato – Li prendi tu, Cicì? –
Tirava
vento quel giorno.
Il
cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente. Come sempre.
Non
poteva fare altrimenti.
Allungò
verso la ragazza la mano che stringeva i fogli, aspettando che li prendesse e
si allontanasse.
Passò
qualche secondo, poi un minuto, due e il braccio era ancora teso in direzione
della biondina.
-
Credo di averli raccolti tutti – tornò sospirando l’altra –
Andiamo? -
Scosse
appena il braccio, sollevando al contempo lo sguardo per capire come mai quegli
stupidi fogli fossero ancora in mano sua. Incontrò gli occhi blu della ragazza
e serrò le labbra, teso.
- Non
li vuoi? – borbottò, la voce più rauca di quanto
non si aspettasse.
Era
molto che non parlava? Non credeva di avere un tono tanto grave, così duro.
Così non suo.
-
Certo – sussurrò la ragazza, afferrando i fogli con un gesto veloce.
Lui
annuì appena, impercettibilmente, dando loro le spalle e allontanandosi di un
passo.
Aveva
ripreso a spazzare la strada, raggruppando le foglie che il vento prontamente
portava via di nuovo: un gioco che non riusciva in alcun modo a trovare
divertente.
-
Grazie -
Non
era sicuro di aver sentito bene: forse l’aveva soltanto immaginato.
Esisteva
davvero quella parola?
Si
girò, non potendone fare a meno: erano ancora ferme lì, poco distanti. Le mani
cariche di libri e fogli. Lo fissavano, i sorrisi
presenti e appena un po’ smorzati. Sorridevano a lui?
-
Grazie, davvero – ripeté la ragazza – Non so cosa avrei fatto senza
questa sottospecie di appunti -
- Non
ho fatto niente – si strinse nelle spalle lui, burbero come non credeva
di diventare fino agli ottant’anni. Il cappuccio gli tagliava la visuale,
eppure non si sentiva minimamente di toglierlo.
Le
due sorrisero un’ultima volta, cominciando a incamminarsi.
Solo
mentre si allontanavano sentì il senso di malessere che tornava a invaderlo: il
respiro che si spezzava, sospirò, dandosi dello stupido. Non se ne sarebbe
andato, inutile sperarlo.
Ci
voleva qualcosa di più, per liberarlo. Qualcosa di più.
- Ti
possiamo aiutare in qualche modo? -
Sussultò,
alzando di scatto la testa. Il cappuccio scivolò all’indietro, lasciando
il volto esangue esposto al vento. Tirava vento quel giorno.
Non
erano così lontane: la brunetta camminava piano, a marcia indietro, fissandolo.
Era
stata lei a parlare?
-
Allora, ragazzino? – fece quella, fermandosi e bloccando anche
l’amica.
- Non
ho bisogno di aiuto – rispose lui, il mento alto.
Sentiva
gli occhi delle due percorrergli il viso e rimpianse la protezione del
cappuccio.
Non
si mosse, però. Non abbassò lo sguardo né tantomeno diede il minimo segno di
cedimento.
-
Tutti ne hanno bisogno – sussurrò la biondina, a malapena udibile.
- Non
io – ribatté ancora il ragazzo, la mascella serrata.
Le
guance scavate, due occhiaie scure sotto gli occhi scavati. Un morto in piedi
per miracolo?
- Ti
sei perso qualche foglia – ghignò la brunetta, provocandolo.
E lui
non capì il giochetto, cascandoci in pieno.
-
Vaffanculo – ringhiò, risollevando con uno scatto il cappuccio e
allontanandosi veloce.
- Ma
vacci tu – ridacchiò una delle due, alle sue spalle.
Le
ignorò, cercando di richiudersi in quel suo spazio personale dominato da un
silenzio irreale.
Lo
preferiva, non era così? Le ignorò. E cercò con tutto se stesso di ignorare
anche l’impressione che il malessere, mentre c’erano loro, andasse
scemando. Non era vero. Ci voleva qualcosa di più.
Non
riusciva a ricreare il silenzio assoluto di prima, c’erano dei passi che
lo distraevano.
Passi
che si avvicinavano.
- Ti
aiutiamo – decise una delle due, costringendolo a voltarsi di colpo.
- Ho
detto di no! – sbraitò, la voce che inaspettatamente tornava sua, il tono
alto, acuto.
Le guardò, gli occhi scuri e indecifrabili. L’espressione
tesa, scosse la testa, esasperato: - No –
- Ti
aiutiamo – ripeté la brunetta, le braccia incrociate sul petto,
perentoria.
E
Michele sospirò, le forze che lo abbandonavano senza preavviso: sentì le gambe
cedergli, stanche.
Qualcosa
o qualcuno aveva fermato la caduta, afferrandolo prima che cadesse a peso morto
sulla strada: prese diversi respiri, l’impressione che tutto tranne lui
stesse girando vorticosamente.
- Ehi
– mormorava qualcuno, forse lo stesso qualcuno che lo aveva preso –
Ehi, ehi, ehi -
Socchiuse
gli occhi, il fiato corto, cercando di nuovo un contatto con la realtà.
Era
seduto, a bordo strada. La scopa abbandonata poco più in là, le foglie che
roteavano nell’aria.
- Sei
con noi? – chiese una voce, accorata, mentre due occhi scuri cercavano i
suoi.
Cercò
di annuire, un senso di nausea che lo assaliva prepotente costringendolo a
reprimere un conato improvviso. Si lasciò andare all’indietro, gli occhi
che si chiudevano.
- Ce
la fai ad alzarti? -
Scosse
il capo, le labbra dischiuse per cercare di immagazzinare quanta più aria
possibile.
- Ci
sediamo noi, allora -
Aggrottò
le sopracciglia, non riuscendo a capire il significato di quella frase.
Sentì
uno spostamento d’aria alla sua destra e poi uno alla sua sinistra: si
erano sedute davvero?
Cercò
la forza di aprire gli occhi, inutilmente.
- Ci
sarà ancora della cioccolata a casa, Cicì? -
- Una
tavoletta, mi sembra – rispose la ragazza, il tono pacato.
- No,
no – fece l’altra – Intendevo la cioccolata calda: ho una
voglia pazzesca di cioccolata calda –
- Ah,
sì allora, ce ne dovrebbe essere in abbondanza –
Provava
a seguire il discorso, il vento che rumoreggiava in sottofondo. Stava sognando?
Sentì
una mano tiepida che gli si poggiava sulla fronte, passando poi alla guancia.
Non
si scostò. Avrebbe dovuto, forse, eppure non lo fece.
-
Come ti senti? -
-
Meglio – mormorò, la voce bassa, il timore di
star parlando da solo.
Che
avesse perso totalmente il senno?
Il
mondo aveva smesso di girare, la nausea sembrava essersela battuta in ritirata.
E anche il solito senso di malessere apparentemente mancava all’appello.
Possibile?
Socchiuse
gli occhi e guardò, pronto a scontrarsi brutalmente con il vuoto.
-
Sicuro? – chiese la biondina, un sorriso caldo a piegarle le labbra.
Tirava
vento quel giorno. E loro erano lì, sedute sull’erba, a bordo strada: i
libri abbandonati per terra, i fogli lasciati al loro destino. Trascinati dal
vento era come se giocassero con le foglie, vorticando spensierati, ormai
lontani.
-
Ragazzino… -
-
Michele – sussurrò, istintivamente, passandosi le mani sul viso più
volte.
-
Michele – sorrise la ragazza – Ce la fai ad alzarti? –
Non
fece in tempo a rispondere che si sentì tirare in piedi, scombussolato,
sorretto dalle due.
-
Andiamo, su -
Puntò
i piedi per quello che le forze gli permettevano, scuotendo il capo
impercettibilmente.
-
Michele – ruotò gli occhi la brunetta, spazientita – Non fare
storie -
Lui
scosse ancora la testa, sicuro. Non poteva.
- Una
tazza di cioccolata calda – sussurrò la biondina, fissandolo
candidamente.
Scosse
la testa, con meno vigore.
-
Niente storie, ragazzino – borbottò l’altra, serrando la presa
attorno al suo braccio.
Scosse
la testa, di pochi millimetri, le forze che minacciavano di abbandonarlo di
nuovo.
- E
se aggiungessi all’offerta anche dei popcorn? - sorrise la biondina.
E la
testa rimase ferma al suo posto.
Tirava
vento quel giorno.
Il
cappuccio abbandonato sulle spalle, non riusciva a fare finta di niente.
Possibile
che avesse trovato il suo qualcosa di più?
§