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I want to reconcile the violence in your heart
I want to recognize your beauty’s not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart
Undisclosed Desires – Muse
******************
“E tu che diavolo ci fai qui?”
A quella frase acida Kai non poté far altro che fulminarla con lo sguardo e prendere con una manata la sigaretta di lei, che andò a finire tra le sue mani, uscendone irrimediabilmente spezzata. “Questa merda ti fa male.” Arrabbiato come mai lo aveva visto, entrò nell’appartamento senza che gli avesse detto niente. “Da sola? Finito con Chris?”
Hilary si sentì ribollire il sangue per la troppa rabbia: che diamine ci faceva lì? Era entrato nel suo appartamento come una furia, le aveva spezzato la sigaretta e ora stava insinuando cose per le quali: era arrivato a cercare rogne?
“Sì.” cinguettò, tentando di restare calma. “Tu hai finito di ringhiare, abbaiare ed essere nervoso?”
“Questo tuo atteggiamento mi rende nervoso.”
“Ho capito, Balto, ma ora stai un po’ esagerando. Renditi conto che la vita è mia e me la gestisco io, pensieri inclusi.”
“Non ne dubito affatto.” sibilò. “Ma non credevo che tu potessi diventare-”
Lo bloccò in quel frangente, posando i suoi occhi in quelli di lui e facendoli divenire due lame affilate. “Calibra. Le. Tue. Parole. Attentamente.” ringhiò. “Potrebbero essere le ultime.”
“Ti diverti a passare da un ragazzo all’altro senza preoccuparti di cosa potrebbe sentire la gente attorno a te?”
Hilary inarcò le sopracciglia ed emise una risata gutturale. “Per esempio? Tu?”
“Sei una stronza.”
“Touché. Ma non vedo cosa possa interessarti.” ribatté. “Tanto siamo solo amici, no?”
Kai serrò le mascelle, annullando, in due falcate, la distanza tra loro. Attirarla a sé e baciarla in maniera famelica fu qualcosa di assolutamente naturale: era come se le loro labbra si conoscessero da sempre e fossero fatte per stare le une sulle altre, per incastrarsi, coincidere; era qualcosa di anormale e spaventoso insieme, ma… Bello.
Maledetto lui e la sua ignoranza in fatto di sentimenti; maledetta lei e l’aura di sensualità che sprigionava, quella coltre di charme ed eleganza che l’avevano attratto da quando si erano rincontrati. Avrebbero portato solo guai, nient’altro.
“Gli amici non si baciano.” obbiettò la ragazza in un rantolo, respirando a ritmi convulsi. Però gli pose una mano sulla guancia, carezzandogliela lentamente e scendendo oltre il collo fino ad arrivare al petto.
“Non fanno nemmeno questo.” replicò Kai, riprendendo a baciarla per poi spostarsi dalle sue labbra al collo. Hilary alzò gli occhi al cielo, sentendosi persa. Non pensò alle regole, alle sue amiche, o a qualsiasi altra cosa: semplicemente, lo sbatté contro il muro vicino e scosse la testa, facendo uscire dalla sua testa tutti i pensieri che non riguardassero lei, o il ragazzo che aveva davanti.
“Tutto bene, tesoro?” Julia sorrise quando Mao le porse la cioccolata
calda probabilmente presa alla macchinetta; prima era uscita in fretta e in
furia sulla terrazza, dove la fredda aria di Febbraio le aveva pizzicato le
guancie e scompigliato i capelli, facendoglieli andare un po’ dappertutto. Si
strinse nel cappotto e sorrise grata quando l’amica le si avvicinò,
stringendola a sé per farle sentire meno freddo. “Bevi quella cioccolata; ti
scalderà un poco.”
Julia annuì, cominciando a sorseggiarla più che altro per far contenta
l’amica, visto che aveva lo stomaco completamente chiuso. “Non è tanto buona.” Gettò
il bicchiere nel cestino poco distante e scosse la testa.
“E’ tutto quello che c’era. Non ci sono bar o fast food
in zona.” Disse l’altra, con tono di scuse.
“No te preoccupe.
Non ho fame.”
Vedere Julia con un umore così basso non era cosa di tutti i giorni: la
cinese la fissò, stralunata, chiedendosi cosa fare e cosa dire ma, soprattutto,
come iniziare il discorso. “Sei uscita parecchio nervosa dalla stanza di Yuri.”
L’interpellata si morse le labbra, e i suoi occhi verde prato arsero per
la rabbia. “Sì, ¡eso
hijo de…!” mordendosi le labbra e facendo
inarcare le sopracciglia all’amica, Julia ripartì con una sequela di
imprecazioni nella sua lingua madre e lei, capendo che doveva sfogarsi, la
lasciò fare. Quando la spagnola tacque, rossa in viso, capì che poteva fare
cautamente qualche domanda.
“Da quant’è che va avanti?”
Spalancò gli occhi, capendo a cosa alludeva. “No, no, nosotros… Siamo amici.”
“L’avevo capito che tipo di amici siete. Mi chiedevo soltanto quand’era
che fosse iniziato tra di voi, e come.”
“No son preguntas
que se fanno ad una coppia nascente? Dovrei farlo
io a te, con el
tu Kurt.”
“Ma se proprio vuoi saperlo ho visto parecchio interesse da parte tua
nei suoi confronti.” Ammiccò la cinese, cambiando discorso e lanciando la
frecciatina che andò a segno, visto che quella arrossì.
“Tu alucinas.”*
Borbottò. “Io e lui scopiamo. Anzi, mi ha talmente fatto incazzare che non
credo lo vedrò mai più.”
Mao incrociò le braccia al petto. “Sbaglio o era la stessa cosa che
avevi detto del misterioso ragazzo tipo qualche giorno fa? E chi sarà mai questo misterioso ragazzo?”
“Vete a la mierda.”*¹
Borbottò l’imputata, facendola scoppiare a ridere di gusto; scese un silenzio
che durò giusto qualche istante, prima che la spagnola si voltasse verso
l’amica. “Todo bien con Kurt?”
Si morse le labbra. “Sì, direi di sì. È che oggi è successa una cosa un
po’ strana, ma mi sa che io e lui ne parleremo domani.” Allo sguardo curioso
dell’amica scosse la testa. “Niente, semplicemente atteggiamenti che vanno
chiariti.”
“Chiariscili allora, querida. Non stare mai con i dubbi.”
Mao sospirò a lungo, e un silenzio pieno di pensieri scese tra le
ragazze, che preferirono contemplare il panorama offerto da quello spicchio di
New York e far finta di essere illese da loro stesse. Si avvicinarono senza
dirsi niente, appoggiando l’una la testa sulla spalla dell’altra: non c’era
bisogno di parole per dirsi che in quel momento di grande confusione e
spaesamento il fatto di aversi vicine contasse molto reciprocamente.
* “Hai le allucinazioni.”
*¹ “Vai a cagare.”
“Ehi, sei di nuovo qui?”
Incredibile come nel corso della serata la presenza di Mitch non si sentisse affatto: non era il classico capo che
stava addosso ai suoi dipendenti, ma li lasciava liberi di agire come meglio
credeva. Eppure, se vi era qualcosa di nuovo o una parvenza di stortura, eccolo
apparire dal nulla.
Mariam lo fissò, chiedendosi da dove si fosse materializzato, ma rinunciandovi
in partenza: durante quelle settimane di lavoro al pub era stata abituata a
scene simili; non poteva fare altro che annuire e rispondere. “Julia stava
bene, abbiamo risolto in poco tempo e ho pensato di tornare direttamente.”
“Sono contento che non sia niente di grave.” Fece, sorridendo. “Salutami
Julia.”
L’irlandese annuì, riprendendo il suo posto al bancone e visualizzando
la situazione: essendo un giorno feriale non vi erano troppe persone, ma nemmeno
poche. L’Avalon era sempre semipieno. Immediatamente
una delle cameriere le portò due post-it con le ordinazioni. “Ehi, sta bene
Julia?”
La ragazza preparò la grappa e i due martini in trenta secondi, porgendole
il vassoio subito dopo. “Sì, non era lei a stare male.” Fece, telegrafica ma
lieta che in quel luogo tutti si preoccupassero per lei e per la sua amica.
Passò immediatamente a shakerare gli ingredienti per le ordinazioni del secondo
post-it, che richiese più tempo, e nel frattempo arrivarono altre tre
ordinazioni: essendo l’una di notte, il locale era nel punto del suo massimo
fermento.
Preparò all’istante tre vassoi, che consegnò a due sue colleghe diverse,
per poi sobbalzare quando si ritrovò dinnanzi due ragazzi che la fissavano come
se si aspettassero qualcosa.
“Desiderate?” chiese, disponendo due bicchieri davanti a lei.
Uno dei due le sorrise, ammiccante. “La tua specialità.”
“Non ho specialità.”
“Ooooh, una come te deve saper fare tutto,
vero bambola?” la battuta fece scoppiare a ridere entrambi e roteare gli occhi
a lei.
“Sì, anche mandarti affanculo.” Chiarì con un’occhiata di fuoco. I due
sghignazzarono per poi andarsene, ridendo come se si trattasse della battuta
più divertente di tutti i tempi.
Mariam scosse la testa, spazientita: ne aveva incontrati anche troppe di
persone così, e provava solo pena. Gente come quei due ragazzi erano solo
personcine immature che non sarebbero mai cresciute, ed era inutile anche solo
incavolarsi per dar loro soddisfazione.
“Hai tenuto loro testa.” Non si era nemmeno accorta di un ragazzo che si
era seduto al bancone con la birra in mano; era molto carino, e non sembrava
affatto il classico americano palestrato.
Scosse la testa. “Ci sono abituata.” Scrollò le spalle, continuando a
preparare due drink che le erano stati richiesti per poi porli su un vassoio.
“Ho visto, non ti sei minimamente scomposta.” Fece, avvicinandosi. “Io
sono Drew.”
Fece per parlare, per dirgli il suo nome – in fondo non costava mica
nulla – quando nella sua testa risuonò un campanellino d’allarme: cosa stava
facendo? Lui era Drew, okay. Ma c’era
un’altra persona nella sua vita. O… No?
Il ragazzo, e vedendo il suo sguardo turbato inarcò un sopracciglio con
un sorriso. “Ce l’hai un nome, ragazza misteriosa?”
Furono quelle due parole a scatenare una miriade di ricordi, che erano
insiti in tutto ciò che la circondava, che la riguardava. Perché lui era
dappertutto. Loro erano dappertutto.
Approdata a Washington da
pochi giorni, Mariam non capiva proprio perché lei e
la sua squadra dovessero collaborare con la sede della PPB All
Starz. Si erano ridotti a passare lì ore ed ore, ad
analizzare dati e a parlare con la dottoressa Mizuhara,
parte cooperante per le loro ricerche. Lei era un punto distante dal gruppo, ma
era sempre così, e per suo volere; detestava stare in mezzo alla folla,
preferiva guardare cosa stesse accadendo da una sua ben precisa visuale, non
stare in mezzo alla massa – che le dava ansia, quasi angoscia.
Eppure questo la faceva sentire
osservata: osservata dalla squadra americana dei PPB All
Starz, osservata soprattutto dal figlio della Mizuhara, che la fissava come se con i suoi occhi blu
cercasse di scavarle dentro, e questa cosa la sconvolgeva.
Che poi potevano degli occhi
essere blu? Non azzurri, non celesti. Blu.
Era noioso, quel ragazzo:
aveva più volte tentato di attaccare bottone, ma lei lo aveva sempre stoppato, sbuffando;
non sopportava quelli che tentavano di rimorchiarla solo per via del mix ‘bellezza+altezza’ che la distingueva dalle altre.
Quel giorno Jesse non era
potuto venire con lei perché doveva andare con Dunga
nell’altra sede nella città attigua, quindi erano solo lei e Ozuma.
Il leader degli Scudi Sacri
stava parlando con la dottoressa di dati di computer che solo tra loro
capivano, e Mariam ne approfittò per fare un giro intorno:
quell’edificio era immenso e pieno di tecnologie, assurdo pensare di potersi
allenare così a beyblade.
Loro usavano solo la natura e
la loro forza di volontà. Incredibile quanto, da nazione a nazione, i punti di
vista differissero.
“Quello è un caricatore: lo
prendi in mano, inserisci il beyblade, premi il
pulsante e te lo spara a razzo con traiettoria di lancio precisa al
centimetro.”
Si voltò di scatto verso la
voce che aveva parlato: Max era in piedi di fronte a
lei e la fissava sorridendo – con quel sorriso dolce e cordiale che le dava sui
nervi.
“Non te l’ho mica chiesto.”
Il biondo non si fece
scoraggiare. “Stasera io e i ragazzi andiamo al cinema, vuoi venire?”
“No.” Non capiva perché si
ostinasse ad essere sempre così gentile e cordiale nei suoi confronti: più lui
lo era, più lei si sentiva in dovere di essere una stronza quando rispondeva.
“Peccato, il film è veramente
bello, ma poi lo possiamo vedere in dvd se vuoi.”
Mise una mano sul fianco,
sentendo la pazienza venir meno. “Non mi interessa.”
Anziché rispondere per le rime
o ritirarsi con la coda tra le gambe, lo sguardo di lui si fece
inaspettatamente attento. “E cos’è che ti interessa?”
Fu presa in contropiede per
l’ennesima volta, e il fatto che fosse sempre quel dannato americano a farlo
non era un buon segno. “… Fatti miei.”
“Come vuoi, ragazza
misteriosa.” Fece, schiacciandole un occhiolino ed andando via. Con quelle
parole apparentemente innocue, un muro era stato abbattuto.
Mariam si riscosse brevemente, scuotendo leggermente la testa, dopodiché fissò
il ragazzo. “Non sono interessata, scusa.” Il tono che le uscì fu incerto e
balbettante, ma un sorriso si dipinse sulle sue labbra. Un sorriso che sapeva
di scoperta.
“Eccotelo qui il pupetto: tutta la notte non ha fatto altro che giocare
e mangiare, non ha chiuso occhio.” Sbadigliò Hannah,
la dog-sitter, quando venne a riportare Freddie ad
una Mariam che la fissò con occhi stralunati.
“Perché lo riporti a me? Hilary non è in casa?”
La trentenne scrollò le spalle, ravviandosi il caschetto rosso. “Non
saprei: alle due ha lasciato un messaggio in segreteria chiedendo di passare da
qui e portartelo.”
Qui gatta ci cova… Mariam osservò il cucciolo che, come se le avesse
letto nel pensiero, si rivolse a lei, offeso. Scusa, è un modo di dire.
“Io però posso pagarti con venti dollari perché è tutto quello che ho.”
Si scusò. “Il mio salario è settimanale, e oggi non è certo Domenica.”
La donna fece un gesto di noncuranza. “Figurati, tieniti i soldi; con
Hilary aggiusto il conto dopo.” L’irlandese annuì: visto che le quattro ragazze
stavano spesso via e che a volte non tornavano nemmeno a dormire, una
dog-sitter era d’obbligo.
Mariam si ritrovò, qualche secondo dopo, alle sette e dieci di mattina, a
camminare per le strade di Manhattan da sola, in compagnia di un cucciolo di quasi
cinque mesi che trotterellava felice. Era incredibile quanto riuscisse ad
essere contento per ogni cosa che vedeva: un fiorellino sul prato vicino, una
colombina che atterrava, un pezzo di carta che volava da chissà dove… Doveva
annusare ogni cosa e scoprire cosa fosse.
Lo portò al parco, e mentre lui annusava la panchina sul quale si era
seduta, lei accavallò le gambe, pensando a quanto le era successo quella notte.
Com’è strana la vita, con
tutte le sue sorprese…
Quando sentì uno sbuffo si voltò verso la fonte del rumore per poi
sorridere quando scoprì che si trattava di Freddie:
si era messo a saltellare verso la panchina, voleva indubbiamente salire, ma
era troppo piccolo per riuscirci.
Lo prese in braccio, ponendolo accanto a lei e sorridendo quando le si
accoccolò accanto.
“Lo sai” sussurrò a voce bassissima. “Ci saranno persone che ti diranno
di non innamorarti mai, che tutte le cagnoline sono uguali: hanno torto.” Bisbigliò,
accarezzandolo. “Hanno torto perché non basta nascondersi dietro questa verità
parziale per vivere; bisogna soltanto aspettare che venga fuori quella che ti
faccia cambiare idea, quella per cui ne valga la pena, quella di cui tu ti
senta fiero… E allora sì che l’amore ti stordisce. Stordisce tutti, sai?”
Quando lui sbadigliò, lei rise. “Mi ricordi qualcuno…”
Si svegliò di scatto, avvertendo improvvisamente le palpebre farsi
pesanti e una sveglia che non era la sua segnare le otto e venti del mattino;
sgranò gli occhi, pensando che lui era solito svegliarsi non più tardi delle
sei. Generalmente con l’alba ancora in procinto di nascere, allenarsi con Dranzer o pensare per i fatti suoi erano le cose migliori
da fare in solitudine. Molto meglio che poltrire.
Ma allora perché aveva dormito fino a quell’ora?
E la risposta era accanto a lui, ed ebbe il potere di fargli arrestare
il respiro per una frazione di secondo: con i capelli morbidamente sparsi sul
cuscino e la bocca lievemente dischiusa, Hilary dormiva, l’aria beata di chi fa
sogni tranquilli.
Non poté fare a meno di notare quanto da addormentata avesse
definitivamente abbandonato la maschera di donna
di ghiaccio e autonoma, e fosse invece rilassata, con i lineamenti dolci e
tranquilli, non tesi come durante il giorno.
In quel momento la sveglia passò dalle otto e ventinove alle otto e
mezza, e suonò squillante facendo spalancare gli occhi bruni di Hilary sul
mondo.
La fissò mentre si stiracchiava e sbadigliava, insonnolita: quando si girò,
vederla saltare in aria fu qualcosa di quasi comico – avrebbe anche riso se non
si fosse trovato nello stato in cui versava.
“Buongiorno.” Gli disse, con tono che andava dall’incredulo allo
sbalordito. “Sei qui.”
Inarcare le sopracciglia gli venne automatico. “Dove volevi che fossi?”
La ragazza arrossì. “Non pensavo che… Fosse successo realmente, ecco.”
Borbottò, alzandosi dal letto e raccogliendo velocemente i suoi indumenti.
La osservò vestirsi per il giorno e mettere a posto la stanza – ad
esclusione del letto – in tempo record: era nervosa, si vedeva; si notava dal
rossore sulle gote, dal suo non guardarlo negli occhi, dall’essere impegnata a
far qualcosa per non parlare con lui. Ma, tempo dieci minuti, ne ebbe
abbastanza: scese dal letto, e quando lei gli tirò i suoi indumenti, li indossò
fissandola male.
“Se era un avvertimento per farmi capire che me ne devo andare, l’ho
colto in pieno.”
Lei sbuffò pesantemente, non sapendo che dire. Ma in fondo, che doveva
dire? Quella situazione era diversa dalle altre in cui si era trovata, non era
mai andata a letto con un suo amico!
Stava per dire che avevano fatto uno sbaglio, che si erano lasciati
guidare dall’attrazione che vi era tra loro, innegabile, ma chiuse la bocca di
scatto. Quanto era vero tutto ciò?
“Non lo so.” Esalò, infine, mordendosi le labbra.
Kai la fissò, ostentando all’apparenza quella sicurezza e quella freddezza
per le quali era famoso, ma dentro… Dentro si sentiva come rimescolato,
frastornato, rivoltato come un calzino. “E’ meglio che io me ne vada.”
Lei si voltò a fissarlo, quasi attonita. “Sì, ma… Non lo so.”
“Visto che sembra essere la tua frase del giorno, ne riparliamo un’altra
volta.”
Hilary annuì, credendo fosse la soluzione migliore, e lui si diresse
verso la porta; entrambi si fissarono, spaesati e confusi, senza sapere che
fare o che dire.
“Allora ciao.” Un cenno di saluto da parte sua e la bruna si chiuse la
porta alle spalle, imponendosi di non pensare ad altro che alla colazione.
Mariam dirottò il guinzaglio di Freddie verso il
portone del condominio e non fu sorpresa di sentire inchiodare una macchina
dietro di sé. Anche se erano le nove del mattino e la gente era al lavoro, New
York non riposava mai: ventiquattr’ore al giorno era sempre in fermento, sempre
in pieno ingorgo.
“Ehi, querida!”
Freddie abbaiò riconoscendo la voce della madrilena
che, non appena scese dal taxi, venne subito assaltata dalle coccole del
cucciolotto, così come Mao che la seguì l’istante successivo.
“Dove-” bloccò la domanda sul nascere, notando che indossavano ancora i
vestiti della sera prima, e tacque: entrambe avevano l’aria stanca e provata;
Julia, poi, aveva i capelli gonfi e scarmigliati e le occhiaie erano ben
visibili sotto il fondotinta accuratamente steso sulla pelle. “Come sta Ivanov?”
La spagnola distolse lo sguardo, decidendo di dare una risposta consona
ma telegrafica, cosa per lei inusuale. “Non è in pericolo.” Replicò, aprendo il
portone ed entrando.
Mariam e Mao si scambiarono uno sguardo eloquente. Quando salirono e si ritrovarono
al loro piano, Hilary stava già uscendo dall’appartamento: con i capelli
raccolti in una coda sommaria e vestita con un’anonima tuta, pareva pronta a
fare jogging, e se non fosse stato per il fatto che a lei non piaceva affatto
correre, una persona poteva pure cadere nell’inganno.
Le amiche la fissarono non sapendo che dire: non era da lei uscire
conciata in quel modo, per di più con un’aria palesemente spaesata ed
allucinata.
Fu Julia ad inchiodarla con lo sguardo, fissandola attentamente come
volesse leggerle il pensiero o entrarle nella testa. “Stanotte hai fatto sesso!”
alla sua esclamazione Mao e Mariam sobbalzarono, Freddie abbaiò e Hilary impallidì.
“Julia.” La rimbeccò l’orientale. “Smettila di infastidirla.”
“Es verdad.”
Protestò la spagnola. “Guarda che occhiaie; e guarda che succhiotti. Da vero
maestro. Sono quasi invidiosa.”
“Quasi?” Mariam aveva le sopracciglia
inarcate.
Julia le lanciò un’occhiata maliziosa, tirando giù la vita bassa dei
pantaloni. “Oh, sì. Propio aquì ne tengo-”
“JULIA!!” il suo nome pronunciato con la J aspirata da tutte e tre bastò
a farla ricomporre, arrossire e porre le braccia conserte come una bambina
piccola.
“Non c’era mica bisogno di fare così.” Borbottò, contrariata; sembrò in
ogni modo dimenticare ogni cosa, perché si rivolse a Hilary come se nulla fosse
avvenuto. “Perché quell’aria da zombie?”
La giapponese scosse la testa e, per tutta risposta spalancò la porta
del suo appartamento, entrandovi e andando di filato a sedersi sulla poltrona.
Le ragazze la seguirono immediatamente, e Freddie si
accoccolò ai piedi della sua padroncina prendendo a dormire, beato.
Le altre tre si sedettero in fila sul divanetto accanto alla poltrona
dove si era seduta Hilary, pronte ad ascoltarla, tutt’orecchie e, per quanto
potevano, pimpanti.
La bruna accavallò le gambe, cercando un punto dove iniziare: solo dopo
si accorse che era il caso di far scoppiare la bomba e basta. “Sono andata a
letto con Kai.”
All’annuncio vi furono differenti ed uguali reazioni: Mariam non fece apparentemente una piega, Mao annuì
lentamente, Julia sospirò, accavallando le gambe con un sorrisetto trionfante,
ma scelse di non dire alcunché. Il silenzio calò quindi per un paio di minuti,
fino a quando non fu la giapponese stessa a spazientirsi. “Non avete niente da
dire?”
Mao si scambiò un’occhiata con le altre due, ed ottenne il lasciapassare
per parlare liberamente. “Sinceramente, tesoro? Non ti offendere, ma… Ce lo
aspettavamo.”
“Che cosa?”
Julia sbuffò, assumendo un’aria sardonica. “Vaya, quando sei venuta qui con Freddie la primera vez e lui era
tutto preoccupato, mi sono detta: Hiwatari che
soccorre una ragazza in ambulatorio, le fa compagnia per ore e la riporta a
casa? Ma quando mai?!”
Mariam annuì lentamente. “Ne abbiamo parlato tra noi e pensavamo fosse
questione di tempo. È che vi piaceste talmente tanto che fosse ovvio…” alla
faccia palesemente sconvolta e assolutamente spaurita della bruna, l’irlandese
non poté che arrestarsi. “Qual è il problema?”
“Avete torto! Avete torto marcio! Kai non mi
piace! Lui è…” si bloccò, non sapendo che aggettivo porre in seguito ed
arrossendo. La sola remota possibilità che le amiche avessero ragione non
doveva minimamente esistere.
“Non lo so, va bene? Non lo so cos’è!” sbottò. “Ma ci conosciamo da sei
anni, non possiamo mandare tutto a puttane per una scopata!”
L’irlandese annuì, calmissima, per niente sconvolta. “Ed è per questo
che ci rifletterai su e capirai bene cosa rappresenta per te la sua persona.
Nessuno ti mette fretta né i cappi al collo. Puoi decidere di affrontare la
situazione o ignorarla; una cosa è certa: non andrà via se non la prendi di
petto.”
Hilary balzò in piedi, afferrando la cartelletta dell’università e
schizzando via, senza chiedersi altro; Julia fissò prima le ragazze, poi
l’amica che aveva già chiuso la porta per poi urlarle dietro: “Tutto questo
giusto in tiempo
por San Valentino!”
Un Vaffanculo urlato per il
corridoio le arrivò come risposta circa due nanosecondi dopo.
Mao e Julia entrarono nel loro appartamento, chiudendosi la porta alle
spalle: avendo i prossimi incontri fissati per l’indomani, l’unica cosa che
volevano era riposarsi per bene e tentare di dimenticare tutto il marasma di
quelle ore che minacciava di sopraffarle, anche se non era per niente semplice:
i pensieri parevano girare nei meandri della loro mente vorticosi come tornadi, per non lasciarle mai in pace, ed era senza dubbio
motivo di spensieratezza perduta.
“Vuoi mangiare qualcosa ora o preferisci fare un pisolino, prima?” Mao
appese il soprabito all’attaccapanni, per poi tastarsi i capelli che avevano
senza dubbio bisogno di un bello shampoo.
“No, vado a buttarmi dritta sul letto, sono stanchissima.” Sbadigliò
Julia, stiracchiandosi come un gatto e facendo sorridere l’altra.
“Anche tu a volte hai bisogno di ricaricare le pile.”
La spagnola si stava già togliendo i tacchi, buttandoli alla rinfusa sul
pavimento. “Direi.”
L’orientale la imitò, ponendo le sue plateau nere nella scarpiera e
prendendo il paio dell’amica e mettendo a posto con un sospiro rassegnato. “Oh,
sai cos’ho notato?” Julia si voltò a fissarla. “In queste settimane sei
migliorata parecchio con l’inglese. Ma proprio tanto.”
L’osservazione anziché farla contenta la fece rabbuiare. “Cos’ho detto?”
“Nada.” Sospirò, andando verso
il salotto. “E’ che all’inizio Yuri me diceva siempre de hablar en ingles,
che era maleducato… Litigavamo, ci punzecchiavamo. Nemmeno mi ero accorta che
avevo iniziato a seguire le sue direttive.”
Mao le sorrise dolcemente. “Tesoro, quando-”
Julia mise le mani avanti, fissandola torva. “Non dire niente.” Alla sua
frase scontrosa all’inizio la cinese sgranò gli occhi, poi comprese ed annuì,
decidendo di cambiare discorso.
“Ti dispiace mettere il vivavoce per la segreteria? Ci sono due
messaggi.” Chiese, indicando l’apparecchio poco distante da loro che spiccava
con un bel due rosso a tutto tondo.
L’altra annuì, andando verso il tavolino piccolo e tondo in legno dove
stava il cordless e premette il tasto per azionare il vivavoce e fece il codice
della loro segreteria.
“Ieri sera ti sarò sembrato pazzo,
ma… C’è una spiegazione al mio comportamento.” La voce di Kurt fece
sgranare gli occhi a Mao, che non si aspettava minimamente quelle parole. “Vediamoci.”
La segreteria annunciò la fine del primo messaggio, e l’orientale si
ravviò i capelli per riprendere il controllo di se stessa, ma fu in quel
momento che partì il secondo messaggio, anticipato da più secondi di silenzio.
“…Sono io, Fernandéz.” Il cuore di Julia saltò, e Mao vide i
suoi lineamenti irrigidirsi, notando anche come la voce di lui, suonasse quasi
incerta per poi riprendersi subito dopo. “Mi
trovo al Plaza, magari puoi raggiungermi.”
Il messaggio finì lì, lasciando le due rigide e stupite fino a quando
non fu la stessa spagnola ad attraversare la stanza e, con due gesti decisi, a
cancellare entrambi i messaggi in segreteria.
“Forse voleva parlarti.” Suggerì Mao. “Non ha specificato…”
“No, ha specificato.” Sbottò la
madrilena. “Como credi che organizzassimo
i nostri appuntamenti, prima? Era tutto un ‘Sono
qui, vieni se puoi’. Lui non vuole parlare perché non sa farlo. Pensa de
poter passare sopra il modo in cui mi ha trattato e sai una cosa? Pensa male.”
Detto questo l’unica cosa che fece fu andarsi a barricare nella stanza
ed andare a dormire, alla faccia di uno stupido russo idiota.
Approfittando del fatto che vi fossero degli autobus che lasciassero
direttamente dinnanzi al Plaza, ne sfruttò uno che
passava proprio davanti la facoltà e la lasciò a pochi isolati dall’hotel. Non
vedeva il suo migliore amico da giorni, voleva uscire un po’ con lui,
parlargli, sfogarsi, ridere, scherzare… E poi poteva farlo solo ora, l’indomani
Takao sarebbe stato impegnato con il torneo.
Scese dall’autobus entrando di filata nell’albergo a cinque stelle;
salutò velocemente le signorine alla reception e volò verso l’ascensore che la
lasciò al piano dove alloggiavano i Blade Breakers. Era mezzogiorno, di solito Takao
finiva di allenarsi a quell’ora e pranzava all’una, quindi avrebbero anche
potuto fare una piccola passeggiata e andare a mangiare qualcosina da qualche
parte insieme. Sospirò e l’idea la rilassò all’istante.
Quando si ritrovò davanti la camera in cui stava appeso il cartello ‘Do not Disturb’, restò spiazzata:
non poteva star dormendo fino a quell’ora, non se l’indomani vi erano le gare e
lui si doveva allenare. C’era qualcosa che non andava.
Decise di bussare lo stesso, in modo che lo sentisse. “Takao, sono Hilary!” esclamò, attendendo una reazione. Che
avvenne: all’interno della suite vi fu un frastuono atroce – talmente da farla
sobbalzare bruscamente – e fu solo parecchi secondi dopo che lui venne ad
aprire. Sembrava il solito Takao di sempre, ma con un
velo di sudore in più.
“Tutto bene?” glielo chiese, cauta, come per accertarsi che nulla fosse
successo.
Il ragazzo scrollò le spalle. “Figurati, mi è caduta la valigia
addosso.” Rise, e i dubbi di Hilary si dissolsero. “Sono tornato due minuti fa
dall’allenamento, che ci fai tu qui?”
Lei sorrise. “Pensavo di invitarti a pranzo: la pappa per un consiglio
enorme.”
Lui finse di valutare attentamente la proposta. “Mi tenti, ma ci devo
pensare…. Se poi il mio consiglio non vale il pranzo?”
Hilary assunse un’aria sibillina. “Ti dico che il pranzo te lo offro
dove vuoi… E che devi darmi un consiglio su Kai.” Il
giapponese si voltò a guardarla di scatto. “Abbiamo fatto sesso.”
“Che cosa?!”
“M-Ma tu… M-Ma come..?” Mao non si accorse nemmeno di avere gli occhi
fuori dalle orbite. Sentiva solo i battiti furiosi del suo cuore e quella
notizia che continuava a rimbombarle in testa.
“Già.” Il fatto che Kurt fosse tranquillo era un qualcosa di pressoché paradossale.
Di certo le parole dette minuti prima ‘Mi
drogo’,
avevano avuto un effetto bomba sulla cinese, che lo stava fissando con tanto d’occhi.
“Perché?”
“Non lo so.”
“Ma cosa vuol dire?” accorata, si passò una mano tra i capelli, non
sapendo nemmeno che fare, ma cercando una parvenza di autocontrollo. “Perché
hai deciso di dirmelo?”
“Perché speravo che insieme a te potessi cavarmela.”
La risposta sincera di lui la spiazzò. Non seppe cosa fare né dire, si
limitò a fissarlo con tanto d’occhi. “Cavartela? Cavartela come?”
Il ragazzo scrollò le spalle. “Tu mi fai stare bene. E io voglio solo
questo.”
Lo fissò intensamente per qualche secondo, dopodiché scosse la testa.
“Devi farti aiutare, devi dirlo ai tuoi.”
“No.”
La sua risposta dura non la fece affatto vacillare. Sapeva che quando si
toccava l’argomento genitori Kurt diveniva spinoso come un riccio, ma era
determinata a farlo capitolare. “Devi. Questa volta non c’è in ballo uno
stupido pacco di sigarette o l’ennesima auto da distruggere. C’è la tua vita.”
Ciò che disse parve colpirlo molto, perché dapprima il suo volto si fece
dubbioso e confuso, dopodiché si rabbuiò. “Te l’ho detto perché pensavo potessi
capirmi. Se non si fa a modo mio non si fa niente, cazzo.”
Trattenendo a stento le lacrime, Mao si alzò e girò sui tacchi, il
dispiacere che la pervadeva.
Una bella notizia in quel periodo era stata, indubbiamente, il sapere
suo fratello e Mathilda insieme. Insieme erano una
coppia che avrebbero fatto sospirare chiunque: belli, giovani, palesemente
innamorati, dolcissimi, erano praticamente perfetti.
Certo, c’era quando Mathilda faceva stancare suo
fratello perché troppo dedita allo shopping ed affini, o quando lei si stancava
dell’imbranataggine del suo fidanzato, sbuffando ed alzando gli occhi al cielo,
ma le liti e gli screzi non duravano più di qualche minuto. Bastava un sorriso
o anche solo un’occhiata per farli tornare l’uno tra le braccia dell’altra, e
beccarli in quei momenti era quanto di più dolce vi potesse essere.
Julia era appena sopraggiunta al Plaza in quel
frangente: sapeva che Romeo aveva preso per loro la palestra per farli
esercitare, e una volta tanto era arrivata in anticipo. Aveva fatto una dormita
di una cinquina d’ore che era servita soltanto ad acuire le sue occhiaie e ad
irritarla ulteriormente, per non parlare del fondotinta che non era per nulla
riuscito a coprire alcunché dello stress.
Percorse il corridoio dell’hotel, avendo come meta soltanto la palestra,
e stava quasi per arrivare a destinazione ma alla vista di una chioma rosso
accesa che sarebbe spiccata anche con il buio si irrigidì. Lo stomaco le si
strizzò in una morsa piacevole che preferì ignorare per quanto possibile, ma notò
che lui le lanciò un’occhiata… Diversa.
Non era uno di quegli sguardi freddi, ma nemmeno sarcastici o ironici. Erano
più volti a sondare il campo, come a vedere lei, il suo umore, i suoi pensieri…
Tutto tramite un’occhiata.
Julia lo freddò con uno sguardo gelido, il peggiore che avesse mai
lanciato a chiunque sulla faccia della terra, dopodiché continuò per la sua
strada, nemmeno lui si fosse improvvisamente dissolto.
Quando aprì la porta della palestra era in anticipo di dieci minuti, e
le venne da sorridere per la scena che le si parò davanti: suo fratello era
seduto per terra, sul parquet, e stava visionando qualcosa del suo beyblade mentre Mathilda era
accoccolata sulla sua spalla; parlottavano piano e a tratti ridevano insieme,
dicendo qualcosa inerente al bey di Raùl.
Non seppe per quanto tempo rimase sulla porta a guardarla mentre il
cuore le si stringeva sia per la felicità e al contempo per la tristezza, ma ad
un certo punto entrambi alzarono lo sguardo, sorpresi di vederla lì. “Ehi, sei
in anticipo!” il fratello sbatté gli occhi. “Non è da te, l’appuntamento era per
le tre del pomeriggio.” Fece, prendendola in giro.
“Lo so.” Julia gli rivolse una linguaccia, chiudendosi la porta alle
spalle. “Ciao a tutti e due. ¿Romeo donde
està?”
Raùl si alzò da terra, porgendo poi la mano a Mathilda
che la accettò con un sorriso. “E’ andato a prendere gli schemi
dell’allenamento per domani. Quindi mi dispiace, tu non puoi vedere.” Fece,
rivolgendosi alla sua ragazza.
“Credo andrò a morire fuori di qui allora, come le api.” Tutti
ridacchiarono alla sua battuta, e la ragazza prese il suo zaino, preparandosi
ad andare; bacio brevemente Raùl sulle labbra e
salutò Julia, per poi chiudersi la porta alle spalle.
Romeo arrivò due secondi dopo, e fece vedere loro gli schemi della
partita dell’indomani, facendoli esercitare tramite gli ostacoli più complessi
e arguti che lui stesso aveva ideato. Julia e Raùl
dovettero dare il massimo in quelle due ore, faticando e sudando a mai finire,
sapendo che l’indomani avrebbero affrontato delle squadre altrettanto forti che
volevano la vittoria esattamente quanto la volevano loro.
Quando due ore dopo l’allenamento finì, Julia salutò Raùl
e l’allenatore per andare di filato a prendere un caffè: ne aveva bisogno come
l’aria. L’allenamento non era andato male, ma aveva troppo sonno, e stava per
stramazzare al suolo.
Al bar del Plaza, con la tazzina in mano, fu
per miracolo che non sputò la bevanda addosso al cameriere quando le sue narici
avvertirono vicino a lei un profumo che conosceva bene.
“Non dovevamo vederci?” la sua voce era neutra, calibrata, e Julia
decise di giocare al suo stesso gioco: continuò a bere il caffè con noncuranza,
come se nessuno avesse parlato. Era una cosa che mai aveva fatto, ma avrebbe
dovuto essere abituata anche al fatto che quel russo dei suoi stivali la
spingeva a comportamenti che non le erano soliti.
“Fernandéz, sto parlando con te.” Ora il tono
si era fatto seccato; di nuovo come se nulla fosse scese dallo sgabello,
lasciando sul bancone una banconota che pagava tutto e lasciava la mancia. Fece
per andare via, mirando soltanto all’uscita del bar, ma non aveva calcolato la
testardaggine del suo presunto interlocutore, che le si parò davanti, con
cipiglio arrabbiato.
“Sto parlando con te.”
“Ho notato.” Borbottò, facendo
per sorpassarlo ed andar via, ma lui la afferrò per un avambraccio, portandola
vicino a sé e facendole saltare il cuore.
“Non mi piace essere ignorato.” Sbottò, fissandola duramente negli
occhi.
“Non so che farci.” Ribatté,
incrociando le braccia al petto. “A me no
me gusta preoccuparme
inutilmente por le persone e scoprire
che questi sono…Zitelli acidi con problemi di vita sociale!” esclamò, nervosa,
facendogli inarcare le sopracciglia. “E, per la cronaca, lo zitello acido
saresti tu!”
Indeciso se sbattere la testa al muro o scoppiare a ridere, decise di
ammutolire, per poi parlare lentamente. “Sì, l’avevo capito…”
Non seppe cosa fare: lei lo sconvolgeva, lo rivoltava come un calzino,
per poi-
“No, tu no entiendes!
Non hai capito che io ti ho invitato a casa mia per farti passare una bella
serata e che mi sono ritrovata a dover chiamare l’ambulanza!” esclamò, rossa in
viso e fuori di sé. “E per tutta risposta mi hai dato addosso per essermi
preoccupata, ma sai che cosa, Ivanov? ¡Vete a la mierda!”
…Per poi dargli la mazzata finale.
Incredibilmente quando lo mandò a cagare Yuri non si arrabbiò affatto,
anzi, si ritrovò a sorridere di fronte a quella furia che gliene diceva di
tutti i colori, e un istinto assolutamente primitivo mai provato prima verso
nessuno di attirarla a sé e baciarla si fece largo in lui talmente potente e
forte da spaventarlo.
“Hai ragione.” Fu solo in grado di dire, stordito da quelle emozioni a
lui del tutto estranee.
Julia smise di parlare e lo fissò, sbattendo gli occhi. “Che cosa hai
detto?”
Dirlo non era semplice, eppure non vedeva altra scelta, altra soluzione:
lei si era comportata spinta da puro altruismo e lui per tutta risposta le
aveva rimbrottato contro. Fosse stata un’altra non gli sarebbe importato di
mandarla a quel paese… Ma era lei.
“Mi dispiace.” Ammise, parlando velocemente. Era la prima volta che
diceva quelle parole, non era abituato, e il fatto che lo stesse dicendo ad una
persona del tutto diversa da lui che non sapeva come classificare lo confondeva
maggiormente.
Julia rimase senza fiato, incapace di dire alcunché; e se fu in grado
soltanto di ostentare una parvenza di contegno, dentro di lei si fece largo una
nuova consapevolezza che ormai non poteva più tenere a bada.
Le sue amiche, aveva bisogno delle sue amiche. Di una spalla su cui
piangere, di una persona con la quale sfogarsi. Passandosi nervosamente le mani
tra i capelli e guardandosi intorno Mao non seppe che fare. C’erano solo
persone che correvano di qua e di là e le signorine alla reception. Si odiava
per essere avergli dato un ultimatum, si detestava per non essere rimasta lì ad
aiutarlo, ma sapeva anche di essere terrorizzata e di non sapere minimamente
che fare di fronte ad una cosa così assurda e decisamente troppo grande per
lei.
Per una volta in cui l’aveva cercato, Lai non c’era. E oltre suo
fratello…
Si diresse verso la palestra di bey senza sapere nemmeno il motivo,
probabilmente per poter piangere ininterrottamente senza farsi scoprire da
nessuno. Lì, abbracciatasi le ginocchia, poté dar sfogo a tutto lo stress delle
ultime settimane e a tutta la paura che aveva provato di lì a poco.
Perché mi sta succedendo tutto
questo? Non sono capace di gestire niente, niente… Niente!
Singhiozzando ancora più rumorosamente, fu troppo impegnata a rimuginare
sulle cose che le erano accadute per accorgersi della porta che si era aperta.
“Mao!” sobbalzò a quel tono di voce così accorato e, tempo un battito di
ciglia, si ritrovò accanto alla persona che mai avrebbe desiderato avere
accanto.
E, ancora una volta, sto
mentendo.
“Sto bene, sto bene.” Balbettò, asciugandosi alla bell’e meglio il viso
dalle lacrime. “Scusa, ora è meglio che-”
“Aspetta.” Quel tono di voce così dolce. Lo amava e lo odiava allo
stesso tempo. “Ti va di dirmi cosa ti è successo?”
Le parole, quelle parole si insidiarono
dapprima nelle sue orecchie, poi nel suo cuore. Come poteva essere così… “No,
scusa.”
Andare via. Doveva andare via.
Se il fato o qualcosa del genere aveva deciso che avrebbe dovuto affrontare le
sue paure più grandi tutte in un giorno solo beh, aveva sbagliato persona.
“Ehi.” La presa sul suo avambraccio era morbida e per niente aggressiva,
eppure bastava a trattenerla. “Cos’hai?”
E lì non poté più resistere. Le sue difese, sempre se c’erano mai state,
crollarono in men che non si fosse detto, e buttargli le braccia al collo e
singhiozzare fu davvero il minimo.
Sentì le sue braccia stringerla saldamente, le sue mani tracciarle dei
disegni senza alcun senso sulla schiena, come a calmarla. Lei pianse senza
ritegno, abbracciandolo forte e perdendosi in quel profumo che aveva sempre
annusato, che sapeva di lui.
Scelse di distaccarsi solo diversi minuti dopo, quando riacquistò una
parvenza di stabilità. “Grazie… Io non dovevo… Sono così-”
“Cos’è successo?”
Il suo tono di voce era dolce ma fermo allo stesso tempo, ed associato
ai suoi occhi costituì un mix letale per il suo autocontrollo. “Niente, io… E’
che Kurt mi ha detto di star male, che ha… Qualcosa. E sono andata via come una
scema.”
Rei annuì lentamente, cercando di ricostruire con gli esigui pezzi da
lei forniti il puzzle. “Spaventarsi per qualcosa è normale, è umano. Non
fartene una colpa.”
Lei scosse la testa. “Lui ha bisogno di me..! E gli ho dato un ultimatum
e sono andata via!”
Con tutto quello smanettare in toni alterati, il ragazzo non poté far
altro che prenderle le mani tra le sue e fissarla intensamente negli occhi. “Va
tutto bene.”
Mao si perse in quelle iridi color oro che aveva così tanto osservato
tempo addietro e, sentendo un calore lancinante e doloroso salirle su per la
schiena assieme ad un brivido, si accorse solo dopo di essere a poca,
pochissima distanza da lui. Troppo, troppo poca.
“Devo andare.” Il suo, più che un sussurro fu un rantolo.
Ancora una volta la fece voltare, confuso per quel cambio di espressione
e di tono. “Aspetta.”
Ma quando la avvicinò a sé, lei prese a fissarlo con occhi disperati.
Liquidi, tristi, quegli occhi. E poi fu soltanto un bacio dato dalla
disperazione stessa e dal bisogno.
Di cosa, lo sapevano benissimo, ma si sarebbero morsi la lingua entrambi
prima di ammetterlo.
Per San Valentino l’Avalon si era adeguato:
aveva organizzato una serata a tema, con decorazioni e nuovo menù, e le
coppiette si erano date tutte appuntamento lì: la maggior parte dei tavoli era
stata organizzata per essere per due persone, e agli occhi di una persona
abituata a vedere il locale negli altri giorni, quel giorno era stato addobbato
in modo glam-rock bello ed affascinante. La sola cosa
stucchevole erano le coppiette che tubavano ai tavoli, ma si poteva sempre
sorpassare.
C’era un sacco da fare, era come fosse Sabato; Mariam
sospirò, cercando di ragionare per avere un tipo di schema mentale. Per lei che
non era tanto romantica, vedere quella scena che le si parava davanti agli
occhi, era quanto di più stucchevole potesse mai essere visto: che senso aveva
San Valentino, se una coppia in teoria doveva festeggiare il proprio amore
tutti i giorni?
“Ehi, hai ben quattro post-it, qui.” Le sorrise Mitzy,
prendendo al volo i vassoi che lei le porse.
L’irlandese sbuffò, cominciando a vedere cosa doveva fare ed
organizzandosi di conseguenza: iniziò a disporre i vassoi e a mettervi sopra i
bicchieri di vetro.
“Seratina impegnata?” al sol sentire quella voce sorrise: non poté fare
altrimenti.
“Interessante, direi.” Diede due vassoi a Beth
e due a Carla, dopodiché si rivolse a lui. “Desideri?”
Max si sedette sullo sgabello e scrollò le spalle. “Una birra andrà
bene.”
Si voltò verso il frigobar e gliela porse, dopodiché attaccò con il
frullatore. “Come mai qui?”
Lui scrollò le spalle. “Pensavo alle gare di domani, allo stress avuto,
e volevo un po’ di spensieratezza.” Raccontò, con un sorriso. “Come te la passi?”
La ragazza stava accuratamente mettendo l’intruglio del frullatore nel
pentolino per poi porlo sul minifornellino che aveva a
disposizione. “Ho mille cose da fare.” Ribatté, con tono neutro. “Ma ci sono
abituata.”
Lui aggrottò le sopracciglia. “Mao non c’è? Noto che siete più
indaffarati del solito.”
Lei scosse la testa, mescolando con un cucchiaino il tutto. “No, ha
chiesto la serata libera.”
Max inarcò le sopracciglia, poi fece una smorfia. “Credo che Rei non
sappia più cosa fare. La loro è una situazione di merda.”
Spegnendo il fornellino, Mariam confermò con
un sospiro. “Sono tutte delle situazioni di merda, sta a noi la volontà di
aggiustarle.” Fece, prendendo una tazza e versandoci dentro l’intruglio.
“Tieni.”
L’americano sbatté gli occhi, trovandosi davanti della cioccolata calda
fumante. “E questa?” Vedere la ragazza arrossire e voltarsi bruscamente gli
provocò un’ondata piacevolissima di mal di pancia, che durò poco: giusto il
tempo di tuffare il cucchiaino nella bevanda. “E’ al peperoncino.”
“Già.” Borbottò l’irlandese, prendendo a shakerare gli ingredienti per
un’altra ordinazione. “Ma non ti illudere: mi andava di vedere se ero ancora
capace di prepararla e l’ho fatta, solo per questo.”
Lei distolse lo sguardo e lui nascose il sorriso dietro la tazza,
cominciando a berne il contenuto: entrambi sapevano che non era affatto vero.
Continua.
Lo so, lo so. Avevate pensato che non avrei aggiornato e invece… =D Le
cose per me si stanno facendo pesanti in questo periodo, e faccio quello che
posso.
Grazie, grazie infinite a tutti i bellissimi MP di incoraggiamento – ai
quali non ho avuto tempo di rispondere. -.-‘
Vi adoro comunque.
Beh, qui qualcosa sta cambiando, e ve ne accorgerete con “Catch me if you can”. ;)
Un bacione, alla prossima settimana. :*
Hiromi