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Autore: _Shantel    29/11/2011    13 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 12


La sensazione dell’erba sintetica del campo sotto la suola degli scarpini era paradisiaca e, Dio!, se mi era mancato giocare. Erano passate due settimane dalla squalifica e in quel lasso di tempo ero riuscito ad avvicinarmi a Celeste, ma mi era mancato il pallone.
Soltanto sul campo davo tutto me stesso, riuscivo a sentirmi realmente importante e non il semplice Ruben che agiva di nascosto e metteva su una bugia dietro l’altra. Ero nato per giocare a calcio, ogni parte del mio corpo era plasmata per inseguire gli avversari, rubare palla, marcare e soprattutto andare in rete. Mi sentivo vivo quando giocavo, come se l’unico scopo per cui ero stato creato fosse quello. Celeste non lo avrebbe mai capito. Per lei sarei stato soltanto un ignorante che correva dietro un pallone, grugnendo e sputando a terra. Forse era anche per questo motivo che non le avevo ancora detto la verità. Se fossi stato messo davanti alla scelta tra lei e il calcio, non sapevo davvero cosa sarei stato in grado di fare. Da una parte c’era Cel e tutti i ricordi delle giornate passate assieme, mentre dall’altra c’era la mia vita, fin da quando avevo mosso i primi passi.
«A’ bello, svejete! Non stai sulle nuvole.» Mi urlò Daniele, dandomi un colpetto sulla spalla e sorridendo.
Basta pensieri. Dopo l’espulsione avevo deciso di non commettere più errori e di lasciare fuori dal campo la mia vita privata. Ci saremmo stati solamente io e il pallone, i miei compagni e i tifosi. Lo dovevo a loro, perché se Celeste era arrivata soltanto l’ultimo mese nella mia vita, la Curva c’era sempre stata e mi aveva dato fiducia, aveva posto le sue speranze nel Pittore.
«Passa!» Urlai a José, mentre correva lungo la fascia sinistra del campo.
Mi guardò per un attimo, poi piantò il piede nel terreno e alzò la palla quel tanto da fare un lungo cross che attraversò l’area di rigore. L’adrenalina scorreva veloce, rallentando di molto l’azione e permettendomi di vedere chiaro il pallone che sovrastava le nostre teste. I nostri compagni d’allenamento avversari, quelli col fratino, mi stavano col fiato sul collo e sentivo chiaramente Aleandro marcarmi stretto.
Tentai di sgomitare, spingendolo indietro, ma davanti a me apparve subito Gabriel che tentò di murarmi. Dovevo fare una buona impressione o il Mister non mi avrebbe messo nella formazione titolare. Anche se ero stato fuori dai giochi per due settimane, questo non voleva dire che Leonardo Sogno si era rammollito.
«Attento!» Gli urlò Nicholas, ma fui più veloce e sgusciai dalla presa dei due difensori per poi affondare entrambi i piedi nel terreno e saltare con quanta più forza avessi nelle gambe. Anche Gabriel saltò, stringendo forte la mia maglia, ma ero partito con largo anticipo. Raggiusi il pallone proprio quado passò accanto alla mia testa e colpii con forza, tentando di indirizzarla nell’angolino in basso della porta.
Martin si allungò ma il pallone riuscì a passare e s’insaccò nella rete.
«Grande!»
«Che colpo de testa!»
«Bella, Leona’! T’ha fatto bene un po’ de vacanza…» Ridacchiò il Capitano, posando la mano sulla mia testa e spettinandomi i capelli.
Mi presi gli applausi e gli abbracci dai compagni di squadra, nonostante si trattasse di un semplice allenamento, poi puntai lo sguardo a bordocampo e vidi il Mister che sorrideva. Leonardo era tornato più in forma che mai.
Soprattutto grazie al riscaldamento di ieri sera.
Quel pensiero mi colpì improvviso, ma lo scacciai immediatamente tenendo fede al patto che avevo fatto con me stesso. Niente Celeste, durante le partite.
«Siamo felici di riaverti in squadra,» mi disse Daniele.
«Daje che je spaccamo er culo a Londra!» Esultò Simone.
Londra. Le avevo chiesto di venire con me, di seguirmi in trasferta, anche se lei aveva inteso quella mia proposta come una romantica gita tra neo-innamorati.
Non avrei mai potuto dirle che in quei cinque giorni avrei giocato la partita più importante della Champions.
Avresti dovuto tacere anche sulla presenza di Simone…
Dalle ultime notizie riportate sul Corriere dello Sport, era quasi sicuro che il giovane Sogno avrebbe giocato nella seconda parte della partita, e dopo una vita intera passata a schernirci a vicenda, ci saremmo sfidati sul campo, come avversari diretti.
«Già.» Risposi a mezza bocca, perso in quei pensieri.
Ritornammo verso il centro del campo per continuare l’allenamento.
«Proviamo lo schema del mister?» Mi chiese Marco, lanciandomi un mezzo sorriso.
Nonostante avesse fatto lo stronzo, si era rivelato un amico piuttosto prezioso. Ruben era sempre stato l’unica spalla cui appigliarmi, riversando su di lui i miei problemi. Adesso mi ritrovavo circondato da persone che, almeno apparentemente, sembravano tenere a me, e poi c’era Celeste che era entrata a far parte del mio mondo con l’irruenza tipica del suo carattere. Era stato quasi impossibile resisterle, lei che era così sfuggente. Non sapevo con quanti altri ragazzi era stata e forse non ero nemmeno tanto sicuro di volerlo conoscere quel fantomatico numero. Solo al pensiero di qualcun altro al suo fianco, sentivo le mani prudermi, e non era nemmeno passato un giorno da quando ci eravamo separati.
Figlio mio, stai proprio messo male, eh? Cos’è, hai paura di non essere stato all’altezza, ieri sera?
Fottiti.
Che c’è? Ho forse detto qualcosa che ti ha urtato, Mr Sensibilità? Oggi che farai, le cucinerai dei biscotti?
Come se lo sapessi fare… Brucio anche un uovo al tegamino.

Diedi il calcio d’inizio, passando la palla a Marco; poi cominciai a correre verso l’area. La mia mente era sgombra, pensavo unicamente alla partita, ed esultavo ancora per il gol che avevo appena segnato. Domenica ci sarebbe stata la sfida contro il Lecce e tre punti erano buoni per la posizione in classifica.
Mi fermai in prossimità dell’area di rigore, districandomi dall’abbraccio di Nicholas, quando lanciai istintivamente uno sguardo agli spalti. Per un attimo immaginai Celeste su quegli stessi spalti a fare il tifo per me, ma durò troppo poco, perché gli occhi da talpa di Ruben apparvero da sotto un folto ciuffo castano topo, e lo vidi sorridermi con la solita espressione da ebete.
Era troppo pretendere che Celeste accogliesse il mio lavoro col sorriso sulle labbra… più che altro mi avrebbe spezzato le ossa ad una ad una.
Vicino al mio manager c’erano altre due donne, una bruna e l’altra bionda che sorridevano in direzione del campo. Seguii il loro sguardo e vidi Borriello che salutava una delle due.  Fui pervaso da una sensazione inaspettata, un’invidia per quello che gli altri miei compagni potevano avere ed io invece ero vincolato ad una serie di bugie che si inseguivano l’una con l’altra, senza mai arrivare ad una fine.
«Leona’!» Mi risvegliò il Capitano, passandomi la palla e spingendo verso l’area di rigore.
C’era sempre stato soltanto un solo amore in tutta la mia vita ed era il calcio. Non avevo visto altro da quando mio padre mi aveva messo il pallone tra i piedi e a mala pena ero riuscito a prendere il diploma fra gli allenamenti supplementari e le partite della Primavera. Quelle sensazioni erano del tutto nuove per me, come il pensiero di Celeste che sempre più spesso faceva capolino nella mia mente.

Entrammo negli spogliatoi tirandoci le magliette sporche l’uno addosso all’altro e ridendo come scemi. Il Mister ci aveva fatto un discorso di fine allenamento, ricordandoci la partita contro l’Arsenal, e la tensione cominciava a salire.
C’erano troppe cose in gioco: il campionato, la Coppa Italia, la Champions. La nostra squadra era in lizza per collezionare tutti i titoli, ma c’era anche un’altra faccia della medaglia: eravamo a tre punti dalla capolista e, a meno che l’Inter non avesse fatto un passo falso, potevamo anche dire addio al campionato. La sfida contro la squadra di quel cazzone di Simone era l’andata dei quarti di finale e non potevamo permetterci di sbagliare, non quando ero così vicino dall’annuncio dei finalisti per il Pallone d’Oro 2011.
«Ehi, passami lo shampoo!»
«Piantala di fare il bambino!»
«Ohi, Sogno,» mi chiese Ale, entrando nella doccia accanto alla mia. «Ma è vero che nell’Arsenal gioca tuo cugino? Oppure è un caso di omogamia
«È omonimia,» mi ritrovai a rispondere senza pensare.
Aleandro mi fissò stupito, con due occhi che sembravano palline da golf. «Scusa, professore.»
Sconcertato mi fissai la schiuma sul petto, constatando che l’influenza di Celeste mi stava letteralmente possedendo. Che anch’io mi stessi trasformando in una specie di genietto della lingua italiana?
«Comunque, sì. Quel cretino, deficiente, misogino, cazzone, insopportabile idiota, vanitoso, lascivo, cascamorto, saccentone, egocentrico, ruba-attenzione, Pisellino, Cocco Di Nonna è mio cugino. Simone Sogno.» Sospirai, insaponandomi i capelli.
«Se aggiungessi un altro aggettivo?» Scherzò Daniele.
«Sete popo culo e camicia, eh?» S’intromise l’altro Simone.
«’Mazza!» Sghignazzai. «Fin da piccoli abbiamo sempre fatto a gara a chi riusciva meglio in qualcosa, ma l’ho sempre spuntata. Modestamente.»
«Ma è più giovane di te?» Mi chiese Gabriel.
Annuii afferrando anche il bagnoschiuma. «Sì, di quattro anni,» risposi prontamente.
Gli altri miei compagni di squadra pendevano dalle mie labbra, per quel racconto. In fondo eravamo una famiglia di piccoli talenti.
«Se vede, pare un ragazzino.» Sghignazzò Daniele.
Ripensai a mio cugino, ed effettivamente i tratti del suo viso parevano ancora quelli di un adolescente. Ovviamente anche il cervello era quello di un bamboccio. Per fortuna che i miei zii si erano trasferiti in Inghilterra quando eravamo ancora piccoli, perciò non c’era stato tempo per farci guerra tra di noi, anche se Simone non era l’unico cugino che avevo.
«Hai qualche altro parente famoso? Non si sa mai con te. Voi Sogno state dappertutto!» Ridacchiò Marco.
Sorrisi misterioso e mi lasciai invadere dal getto d’acqua, lavando via il sapone di troppo che rischiava di bruciarmi gli occhi. Era piacevole lasciarsi andare a quel calore dopo una dura giornata di allenamenti, soprattutto quando la vita mi sorrideva in quel modo. Riflettei sul mio cognome, su i pregi e i difetti di una famiglia come la mia. Mio padre e mio zio erano stati cresciuti da nonna Annunziata, dai suoi valori e dalla sua sete di successo, ma non per questo avevano rinunciato a farsi una famiglia. Anche loro erano stati calciatori, ai loro tempi. Certo, non avevano sfondato e per questo avevano riversato il loro sogno su di noi, i loro figli, riuscendo finalmente a coronare quello in cui avevano sempre sperato. Avevano tramandato il loro desiderio a noi e con quello si erano portati dietro anche la rivalità tra me e Simone.
«Non c’è anche quella cantante?» Se ne uscì Borriello, urlando dagli spogliatoi mentre si infilava i calzini.
Tutti si guardarono perplessi, cercando una qualsiasi risposta, e io cominciai a ridere di gusto. Era troppo esilarante vederli mettere insieme i neuroni per tentare di trovare una risposta. Ovviamente non volevo gettare altra benzina sul fuoco, sapendo quale altro talento si celasse nella mia famiglia.
Che ci potevo fare? I geni erano quelli.
«Quella biondina con la chitarra e quegli occhi da cerbiatta, dai!» Insistette Marco, andando lievemente sul pesante, descrivendo mia cugina.
«Ehi!» Tuonai, riemergendo da sotto l’acqua.
Tutti i miei compagni di squadra sghignazzarono, vedendomi così geloso, ma volevo vederli nei miei panni, visto che la persona di cui parlavano tanto alla leggera era la mia pulcina!
«Non ti scaldare, bello.» Sorrise Marco, facendomi l’occhiolino. Poi spostò lo sguardo al di là degli armadietti e la sua espressione cambiò radicalmente. Era come se avesse visto un fantasma, uno spettro di qualche tipo che gli aveva tolto tutta l’ilarità che fino ad adesso aveva avuto. «C’è qualcuno che ti vuole, Sogno.» Disse atono, mettendomi l’ansia.
«Chi è?» Gli chiesi in automatico, finendo di risciacquarmi.
Borriello fece spallucce e si infilò i pantaloni puliti della tuta. «Non ne ho idea, ma ha degli occhi azzurri che danno i brividi.»
Occhi azzurri? Mi sovvenne immediatamente il nome di Celeste e cominciai davvero a sudare freddo. Com’era venuta a sapere di Trigoria?
Mi diedi immediatamente del cretino perché ciò non era possibile. Soprattutto non era possibile che avessero lasciato passare tranquillamente una ragazza nello spogliatoio degli uomini. Ma allora di chi si trattava?
Legai l’asciugamano attorno alla vita e mi incamminai verso l’armadietto, asciugandomi contemporaneamente i capelli. Tirai fuori il phon e un paio di boxer puliti, ma mi sentii subito osservato.
«Ciao,» mormorò una voce familiare, con uno strano accento.
Mi voltai con l’acqua che ancora mi gocciolava dai capelli e feci scendere l’asciugamano dalla testa alle spalle, fissando lo sguardo in quello di quel fottuto mangia-lumache.
«Che cazz-…» Imprecai, vedendo Jean-Philippe Rossi immobile davanti a me, con il solito sorriso sornione arrogante e beffardo che gli avevo visto dipinto in volto quando l’avevo conosciuto.
È una mia impressione, o quel tizio sa chi sei…?
Rettificai nella mia mente. Ora ero ufficialmente fottuto.
«Sorpreso di vedermi, chèri?» Ghignò, appoggiandosi con una spalla contro l’armadietto di Marco. «Ho pensato di fare un salto, sai, per vedere dove lavoravi.»
Mi stava prendendo per un idiota? Era evidente che stava facendo quel discorso unicamente per sfottermi. Avrei dovuto aspettarmelo da quel suo sguardo la prima volta che ci eravamo visti che lui sapeva chi fossi.
«Smettila di dire cazzate,» ringhiai, fissandolo in cagnesco.
Aveva una gran faccia tosta a presentarsi lì a Trigoria, mettendomi anche in una posizione difficile con i miei compagni.
«Su, campioncino, pensavo lo avessi capito,» ridacchiò. «Di solito sono un libro aperto.»
Quel suo sguardo mi metteva soggezione, perché nascondeva molto più di quanto lasciasse trasparire. La mia pelle s’increspò al solo pensiero, e non soltanto perché ero ancora mezzo nudo e bagnato. Aveva sempre quella stessa espressione, quasi come se volesse sbranarmi. Jean era un cacciatore a dispetto del principe senza macchia e senza paura che descriveva Celeste, parlando di lui. Altro che innocenza! Quel francese mi puzzava più della robaccia che si mangiavano in quel suo cacchio di Paese.
«Che cazzo ci sei venuto a fare qui? Cosa vuoi dimostrarmi?» Lo affrontai.
«Tutto bene qui?» S’informò Daniele, squadrando da capo a piedi il francesino che gli restituì uno sguardo interessato.
Rabbrividii.
Se c’era una persona di cui non mi fidavo, quello era proprio J. Nascondeva qualcosa dietro quei suoi falsi modi gentili e quell’accento messo apposta per far apparire la sua cadenza ancora più particolare.
«Sì, me la sbrigo io.» Risposi a Capitan Futuro, aspettando che se ne andasse. Poi tornai ad occuparmi del Mangia-lumache.
«Devo parlarti, è importante.» Mi disse lui serio, senza staccare lo sguardo dal mio. Era frustrante sentirsi osservato ogni secondo, soprattutto quando percepivo ogni fibra del mio corpo che si tendeva, che mi diceva di stare attento.
Ci pensai su, ma non avevo molta scelta. Se il francese si era presentato addirittura al campo d’allenamento, voleva dire che la questione non era da prendere alla leggera.
«Posso vestirmi?» Gli chiesi irritato, visto che ero ancora rimasto con i boxer in mano e l’asciugamano legato in vita, l’unico pezzo di stoffa a coprirmi la bandana.
J. alzò pigramente un sopracciglio, poi piegò l’angolo della bocca in un sorriso divertito. «Fai pure.»
Però non si mosse.
Rimase immobile nella stessa posizione in cui si era presentato, con il dolcevita blu scuro e i jeans penosamente attillati sul cavallo dei pantaloni. Che modello era? Push-up per la bandana? Si faceva vestire direttamente da quei ricchioni di D&G, non c’era altra spiegazione.
«Intendevo da solo,» ringhiai a mezza bocca, inghiottendo un altro insulto per non dare spettacolo nello spogliatoio. Chissà i miei compagni di squadra cosa pensavano avessi in ballo, visto il modo in cui il francesino mi marcava stretto.
Gli occhi blu di J. si spalancarono soltanto per un attimo, poi tornò ad avere la stessa espressione strafottente di sempre, come se indossasse delle maschere identiche. «Ti aspetto fuori.» Mormorò solamente. Girò i tacchi e scomparve dallo spogliatoio lasciandomi completamente basito.
Fissai la porta per degli interminabili minuti, senza sapere cosa fare. Ormai l’acqua sul mio corpo si era asciugata e mi sarebbe bastato vestirmi e raggiungere J. con la borsa in spalla, però non ne avevo la forza. Sapeva di me, sapeva chi fossi, conosceva ogni cosa e quel particolare non mi piaceva per niente. Mi sforzai di darmi una mossa e di non saltare a conclusioni affrettate prima di conoscere ogni minuzia di quella faccenda.
«Bello, ma chi era quel tizio?» Mi domandò Marco, già completamente vestito.
Sbuffai slegandomi l’asciugamano dalla vita e cominciando ad infilarmi le mutande con la svogliatezza degna di un bradipo nato stanco. «Nessuno.»
«Ha a che fare con la tua ragazza?» Sghignazzò, sedendosi sulla panca e fissandomi speranzoso di pettegolezzi.
«Non ne ho idea, ma sospetto che c’entri qualcosa.» Bofonchiai, indossando maglietta e pantaloni della tuta.
«Non mi piace per niente. Sembra che voglia mangiarti…» Mormorò tornando con lo sguardo verso la porta da cui era appena sparito il francese.
«Sarà una caratteristica della sua razza,» commentai, tirando su la zip della felpa e tamponandomi meglio i capelli con l’asciugamano. Non avevo tempo di attaccare il phon, perciò calcai lo zuccotto e riposi le mie cose alla rinfusa nel borsone, sedendomi sopra di esso per riuscire a chiudere la zip.
«Stai attento,» mi mise in guardia Marco, fissandomi serio. «Quel tipo non mi piace.»
«Già,» sospirai. «Pensa a me…»
Con l’aria di chi stava percorrendo la strada per il patibolo, mi incamminai verso l’uscita degli spogliatoi, cercando di non pensare al peggio. Ruben mi aspettava fuori, in macchina, e nonostante fosse Aprile inoltrato, appena uscii dalla struttura una folata di freddo mi travolse e mi fece pentire di non essermi asciugato meglio.
«Ce ne hai messo di tempo. Hai finito di truccarti?» Mi sbeffeggiò, sorridendo.
Ogni singola parte di quel francese mi metteva i brividi, dai capelli biondo scuro, le sopracciglia folte, la mascella squadrata e quei maledetti occhi blu.
«Ah. Ah. Ah.» Risi ironico, afferrando il Mangia-lumache per la manica di quel maglioncino da checca e lo trascinai in un posto più appartato dove avremmo potuto parlare. Non sembrò molto contento delle mie maniere rudi, ma poco me ne importava.
«Vuoi parlare, oppure mi stai portando in un campo per poi disfarti del mio cadavere?» Mi chiese, pensando di essere in qualche modo simpatico.
«Qui va bene,» ringhiai, spingendolo contro il muro della struttura. «Si può sapere che cazzo vuoi?»
Jean-Philippe socchiuse gli occhi e allargò nuovamente quel sorriso che mi metteva i brividi. Sembrava un fottuto Stregatto. Altro che quello di Alice!
«Per essere uno che guadagna milioni di euro, sei piuttosto riservato.» Sghignazzò, sistemandosi meglio il dolcevita che gli avevo involontariamente spiegazzato.
«Cosa intendi?» Soffiai, affilando gli artigli. Dovevo difendermi dagli attacchi di quel Mangia-lumache e dovevo sempre guardarmi le spalle. Aveva la faccia di quelli che giocano sporco, me lo sentivo.
«Beh, non sono io che faccio finta di essere un’altra persona,» mormorò tranquillo, lisciandosi anche i jeans. «È la prima volta che sento una cosa del genere. Fa molto Vacanze Romane, non pensi?»
«Vieni al punto o chiudi il becco,» gli intimai, stufo di quei giri di parole.
J. si inumidì le labbra, poi fissò gli occhi blu nei miei riuscendo ancora una volta a mettermi in soggezione. «Sai, la prima volta che ti ho visto ho capito subito chi fossi,» sorrise. «Era impossibile non notarti. In fondo sei l’ottavo re di Roma, la nuova promessa italiana del calcio e chiunque non galleggi tra le nuvole come Celeste, avrebbe capito immediatamente la tua identità.»
«Allora perché hai fatto finta di non conoscermi?» La domanda era più che logica e io avevo bisogno di risposte da quel cazzone bianco, rosso e blu.
Il francese si prese del tempo per enfatizzare la spiegazione. «Ho creduto opportuno reggerti il gioco, in fondo sono un tuo fan sfegatato e quello era il minimo che potessi fare.»
Quella storia mi piaceva sempre meno, soprattutto per il tono di voce di J. che si era orribilmente ammorbidito, quasi volesse addolcirmi la pillola.
«E perché sei qui, allora?»
Il sorriso da Stregatto si allargò improvvisamente, facendomi salire un profondo brivido lungo la schiena. Mi si accapponò la pelle perché inconsciamente compresi di essere già in suo pugno.
Si staccò dalla parete e mosse qualche passo nella mia direzione, costringendomi ad indietreggiare. «Tra due giorni ci sarà il mio compleanno.»
«Tanti auguri,» ringhiai guardingo.
J. sbuffò ma non perse quel magnetismo con cui mi guardava. «Faccio una festa, per gli amici più stretti, e sarei felice che tu ti unissi.»
Non era solo un mangia-lumache mezza checca, no: si era anche fumato un intero campo di Marja, grosso come la Jamaica. «Cosa ti fa pensare che abbia tempo da perdere per andare alla tua stupida festa?»
Era un fottuto ragazzino, ecco cos’era, più viziato del sottoscritto.
Fu in quel momento che J. perse il controllo e cominciò a ridere di gusto. «Per quale motivo pensi abbia tenuto il segreto con Celeste tutto questo tempo? Se le avessi rivelato la tua vera identità, pensi che non sarebbe caduta tra le mie braccia? Ti ho fatto un favore tenendo il becco chiuso, come dici tu.»
«Mi stai ricattando?» Realizzai sconcertato.
J. mi posò una mano sulla spalla ed io non ebbi nemmeno la forza di evitare il suo contatto. «Pensavo fosse un invito,» ghignò. «Ti aspetto alle sette a casa mia, ti manderò l’indirizzo con un twit.»
Avevo le mani legate, mi sentivo totalmente impotente. Quel bastardo senza un briciolo di spina dorsale mi teneva per le palle e mi aveva incastrato per bene. Se non fossi andato a quella cazzo di festa avrebbe raccontato tutto a Celeste.
«Ah, Leo,» mi disse, prima di sparire dietro l’angolo. Il mio nome pronunciato da quelle labbra rosse fu l’equivalente di una stilettata al cuore. «Mi aspetto un regalo.»

Mi sentivo una deficiente, quel pomeriggio. Mi stavo guardando allo specchio, dopo essermi fatta una doccia veloce, e sorridevo come mai avevo fatto prima. Ed era da quando mi ero svegliata che mi sentivo così felice. Merito della splendida serata passata con Ruben in quel buco puzzolente di macchina. Non mi ero mai sentita così rincretinita e non mi sembrava nemmeno che l'immagine nello specchio fosse la stessa di Celeste Fiore che conoscevo da ventidue anni. Solitamente quella biondina aveva sempre il broncio, qualsiasi cosa accadesse, anche quando prendeva trenta e lode in un esame praticamente impossibile. Ruben era stato in grado anche di regalarmi il sorriso, dopo tanto tempo, quasi secoli, che lo avevo perso. Se poi lo avessi mai avuto un sorriso sincero, di quelli che scaturivano dritti dal cuore. Niente sarcasmo, niente ironia, solo pura e semplice felicità.
Ti stai rincretinendo, Celeste... un ragazzo è riuscita a mandarti KO.
Pensavo di essermi liberata del mio subconscio, ma evidentemente era solo una falsa speranza. C'era ancora il mio grillo parlante e non aveva perso il suo cipiglio. Mi sarebbe bastato non ascoltarlo, sennò sarebbe stato in grado di rovinare tutto ciò che stava nascendo tra me e Ruben.
Mi asciugai velocemente i capelli con un asciugamano che poi riposi accuratamente nella cesta dei panni sporchi, poi me li legai con una coda improvvisata e disordinata da cui uscivano scompostamente alcune ciocche. Diedi un'ultima occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio, poi uscii dal bagno e recuperai il computer portatile dalla mia camera da letto. Mi sentivo ispirata, oltre che felice. Qualunque cosa facesse Ruben era da spunto per il continuo del mio romanzo e la serata appena trascorsa con lui era perfetta da inserire nel nuovo capitolo. Ruben era diventata la mia fonte di ispirazione, la persona che aveva cambiato la mia vita in meglio, sotto tutti i punti di vista.
Mi diressi verso il salotto, ma mi fermai vicino allo stipite non appena sentii la voce sommessa di Robbeo parlare con un tono quasi triste. Aguzzai l'orecchio per origliare. Era una cosa immorale e anche poco educata, non da me. Ma non potevo irrompere in salotto, rischiando di interrompere la conversazione che stava avendo il mio migliore amico. Robbeo aveva qualcosa che non andava e questo qualcosa aveva i capelli rossi, le tette rifatte e la bocca siliconata. Si chiamava Annalisa il suo problema ed io avrei scoperto, con  le buone o le cattive, che cosa stava succedendo tra quei due. Anche perché quella sgualdrina viziata aveva osato dare uno schiaffo a Robbeo e nessuno poteva sfiorare il mio migliore amico, nemmeno con un dito. Solo io potevo permettermi di urlargli contro o prenderlo a sberle.
«Sì, d'accordo, Anna.» Disse con tono basso.
Mi sporsi dalla porta, vedendolo in piedi in mezzo al salotto con una mano sulla nuca, mentre calciava l'aria con le sue All Star consunte.
«Ti aspetto qui, allora,» continuò. Attimo di silenzio in cui parlò il suo interlocutore, o meglio interlocutrice-battona-rifatta, poi Robbeo riprese a parlare. «Ma cerca di fare in fretta, che non ho intenzione di mettere le radici nel pavimento a furia di aspettarti per ore.»
Cominciò a camminare in circolo ed io mi addossai alla parete, per non farmi vedere. Strinsi il computer a petto, stritolandolo quasi. Che cosa voleva Annalisa da Robbeo? Ero infuriata, e non perché fossi gelosa del mio migliore amico, anzi, sarei stata anche felice se si fosse trovato finalmente una ragazza, ma la Cavalli puzzava di marcio. Oltre ad essere un insopportabile paramecio parassita, era cattiva. Gliela leggevo negli occhi la cattiveria, in quelle iridi scure e verdi che scrutavano tutti come se fossero un radar e catalogando qualsiasi persona la circondasse come inferiore. Era certa che tutto le fosse dovuto e che tutti dovessero essere pronti a gettarsi ai suoi piedi, a farsi calpestare dalle sue scarpe tacco dodici laccate e rosse come i suoi capelli. E se qualcuno si rifiutava, lei sfoderava tutta la sua cattiveria. Bastava vedere come si comportava con Robbeo.
«Sì, ok, scusa! Aspetterò,» sbuffò il mio migliore amico «Lo so che se non sei perfetta non esci e blablabla…» Continuò spazientito.
La rabbia esplose dentro di me, così mi decisi ad irrompere in salotto con il passo pesante, in modo da distogliere l'attenzione do Robbeo dal parassita. Il mio migliore amico, non appena si accorse della mia presenza, si voltò repentino e chiuse velocemente la comunicazione, salutando con rapidità Annalisa. Stiracchiai le labbra in un sorriso e mi sedetti sul divano, con il computer appoggiato sulle ginocchia.
«Chi era al telefono?» Domandai, cercando di mascherare il mio disappunto, anche se mi usciva il fumo dalle orecchie e avevo gli occhi che lanciavano saette incandescenti.
«Al telefono?» Ripeté Robbeo, spaesato, indicando il suo cellulare risalente alla Rivoluzione Francese. «Ah sì, era mia madre.» Disse con un sorriso, grattandosi la nuca. E la sua menzogna mi fece arrabbiare ancora più di prima, se possibile.
Aprii il computer portatile e il file del mio romanzo, cominciando a digitare con nervosismo le lettere sulla tastiera.
«E che voleva tua madre?» Chiesi, quasi in un grugnito.
«Mah, le solite cose.» Rispose vago Robbeo, con una scrollata di spalle.
Mi accanii contro la povera ed indifesa tastiera, rischiando di romperla e rimanere senza il mio adorato Pc. Non avevo intenzione di rispolverare la macchina da scrivere della mamma di Robbeo, anche perché trovavo irritante il tintinnio di quando finiva il foglio.
«E come sta?»
Robbeo fece spallucce e sospirò rumorosamente.
«Abbastanza bene,» rispose senza entusiasmo. Accennò un sorriso prima di allontanarsi. Si fermò a pochi centimetri dalla porta e si voltò verso di me. «Io esco tra poco. Non so se tornerò per cena.»
No. Purtroppo la mia irruenza non mi permetteva di rimanere in silenzio e fare finta che nulla stesse accadendo. Tra Romeo ed Annalisa stava succedendo qualcosa, anche se non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che stava rendendo il mio migliore amico una specie di vegetale ambulante, schiavo di quella baldracca della Cavalli. Quella sanguisuga non solo perseguitava il mio ragazzo, ma adesso si era attaccata al collo anche di Romeo, succhiandogli tutto il sangue. Il problema era che non capivo perché si comportasse così la Rossa e nemmeno perché Robbeo si facesse sottomettere come se fosse uno zerbino logoro. E quel dubbio, lo sapevo bene, non mi avrebbe fatto né ragionare né dormire sonni tranquilli. Scaraventai il computer sul divano e scattai in piedi, correndo come una forsennata e riuscendo a frappormi tra Romeo e la porta. Allargai le braccia, attaccandomi agli stipiti, in modo da bloccare il passaggio al mio migliore amico.
«Dove credi di andare?» Chiesi con una voce che aveva qualcosa di demoniaco. Dovevo essere terrificante, in quel momento, con un ghigno sinistro e i capelli scompigliati sul viso in puro stile Psycho.
«In camera mia a prepararmi,» rispose tranquillamente, senza nemmeno un pizzico di entusiasmo. Che cosa ne aveva fatto del mio stupido e casinista Robbeo quella serpe di Annalisa?
«Cosa credi che mi sia bevuta la scusa della mammina al telefono?» Lo aggredii, con tono minaccioso. «So per certo che era Annalisa. Ho sentito chiaramente che dicevi il suo nome!»
«Da quando origli le mie conversazioni private?» Si stizzì il mio migliore amico.
«Da quando hai cominciato a nascondermi le cose!» Risposi, quasi sgolandomi, sfoderando il mio dito indice pungolatore anche con Robbeo. Cominciai a spingerlo indietro, picchiettando la punta del dito contro di lui, mentre lo incenerivo con lo sguardo. Lui sapeva bene quanto non sopportassi che la gente mi nascondesse qualcosa, soprattutto se si trattava di qualcuno a cui tenevo. Ero stata tradita troppe volte, pugnalata alle spalle senza ritegno e non volevo che questo succedesse di nuovo.
«Cosa ti nascondo? Che esco con Annalisa?» Incrociò le braccia al petto, impedendomi di continuare a torturagli le tettine flosce che si ritrovava. «Adesso lo sai.»
«Da quando uscire significa essere preso a sganassoni?» Domandai ironica, sfidandolo con lo sguardo.
Robbeo, però, non riuscendo ad affrontare i miei occhi sospettosi ed affilati come coltelli, abbassò i suoi verdi, affondando le mani nelle tasche dei jeans larghi che indossava. Diede un calcio a qualcosa di immaginario e di inesistente davanti a lui, come era solito fare quando era in difficoltà.
«Mi spieghi cosa vuole quella Arpia da te?» Domandai contrariata.
«Mi sembra chiaro! Con tutto questo ben di Dio, anche lei ha perso la testa per me.» Gongolò, indicandosi con entrambe le mani, ritrovando per un attimo la sua spensieratezza.
«Robbé, non cominciare a dire scemenze!» Lo rimbeccai, sull'orlo di una crisi isterica e di rabbia. «Uno.» Esclamai, indicandomi l'indice, «Annalisa non si avvicinerebbe mai ad uno come te. «Due.» E sollevai anche l'indice. «Non avrebbe bisogno di darti degli scappellotti per conquistarti, le basterebbe alzarsi la maglietta e mostrarti le sue tette rifatte. E nemmeno trattarti come uno schiavo è una buona tattica di seduzione. TRE!» mi fermai, con le tempie che mi pulsavano per la troppa esasperazione e lo fissai inebetita, con le guance paonazze e la mano protesa in avanti con pollice, indice e medio alzati. Per la troppa rabbia mi si erano offuscati i pensieri e non ero riuscita nemmeno ad articolare il terzo punto della mia arringa improvvisata. Molto probabilmente era stato integrato al punto due senza che me ne accorgessi.
«E tre…?» Mi incitò lui, con i suoi enormi occhi verdi spalancati.
«Non c'è, i punti sono solo due! E credo che siano più che sufficienti per pretendere da te una spiegazione!» Quasi urlai, e per il tono alto che stavo utilizzando la gola cominciò a bruciarmi, come se stesse venendo divorata dalle fiamme. «Perché cavolo ti fai trattare come uno schiavo?»
Robbeo si grattò l'avambraccio, con lo sguardo fisso sul pavimento.
«È una questione tra me ed Annalisa,» tagliò corto lui, visibilmente infastidito dalla discussione che stavamo avendo.
«Sono la tua coinquilina, nonché migliore amica. Ho il diritto di sapere che cosa sta succedendo tra te e quella serpe!»
«Davvero, Celeste, non mi sembra il caso che tu lo sappia.» Sbuffò scocciato, cercando di superarmi con velocità per chiudersi in camera sua, ma riuscii a bloccarlo con un braccio e spingerlo di nuovo davanti a me. Di nuovo ci ritrovammo occhi negli occhi ed io cercai di leggere negli occhi del mio migliore amico, senza però ottenere risultati. Vedevo in quegli specchi smeraldini che c'era qualcosa che lo turbava, un peso che lo stava opprimendo, rischiando di sotterrarlo, di distruggerlo in meno di qualche secondo. Ma se lui si ostinava a tenersi tutto dentro, senza coinvolgermi nei suoi problemi e turbamenti, non potevo aiutarlo.
«Sì, invece lo voglio sapere.» Mi imposi, puntellando le mani sui fianchi.
«Fidati di me, per una volta.» Quasi mi implorò con il suo tono di voce e i suoi occhi verdi da cucciolo bastonato.
«Io ti voglio bene Robbeo e non mi piace vedere che qualcuno ti tratta come se fossi un essere insulso, inferiore. C'è in gioco la tua dignità, accidenti!»
«E non solo quella, credimi.» Mormorò amaramente e, questa volta, riuscì a superarmi e a sparire nel corridoio.
Ero rimasta spiazzata dal tono di voce utilizzato da Robbeo, dal suo strano comportamento e dai suoi occhi malinconici. Ebbene, se lui non voleva dirmi cosa lo tormentava, lo avrei scoperto da sola, con le mie forze. Non potevo stare ferma a guardare mentre il mio migliore amico veniva usato come un pezzo di carta straccia. Mi sentivo in dovere di scoprire cosa c'era tra quei due, perché Annalisa lo stesse schiavizzando senza motivo ed aiutarlo ad uscire fuori da quella assurda situazione. Non avevo, però, la benché minima idea di come scoprire che cosa lo affliggesse. Avrei potuto rapirlo e legarlo ad una sedia nello scantinato per poi torturarlo senza ritegno. Ma non sarebbe stato proficuo, oltre al fatto che non sarei mai stata in grado di torcere un capello a Romeo, che era diventato una sorta di fratello minore per me. Avevamo la stessa età, ma lui era ancora un bambino, un eterno Peter Pan che non aveva voglia di crescere e vivere la sua vita come fosse un ventiduenne e non un quindicenne.
Magari avrei potuto torturare Annalisa per farmi dire che cosa stesse succedendo tra di loro, così mi sarei anche presa una specie di rivincita personale. Ma era un'idea troppo macabra per i miei gusti. Mi faceva impressione perfino fare un esame del sangue, figurarsi improvvisarmi una specie di Enigmista pazzoide.
Tornai a sedermi sul divano, prendendomi la testa tra le mani. Mi sentivo talmente inutile, in quel momento, nel non poter aiutare il mio migliore amico. Ma cosa avrei dovuto fare? Seguirlo come se fossi un investigatore privato per scoprire più cose possibili sul rapporto schiavistico che c'era tra quei due?
Vedo che Ruben non ti ha tolto tutta la tua perspicacia. C'è ancora un piccolo barlume della vecchia Celeste dalle idee geniali.
Era una soluzione perfetta! Niente spargimenti di sangue inutili, niente problemi giudiziari e sarei riuscita lo stesso a scoprire la verità. Sorrisi soddisfatta tra me e me, considerandomi un piccolo genio del male. Sarei stata una specie di investigatore privato,  una sorta di uno Sherlock Holmes con la Iolanda, anche se mancava un elemento fondamentale perché potessi paragonarmi al famoso detective di Doyle. Necessitavo del mio fido compagno, a cui ripetere “Elementare, Watson”. Avevo bisogno del mio Watson personale e sapevo anche dove l’avrei trovato.
Scattai in piedi come se sotto il sedere si fossero materializzate delle molle tutto d'un tratto e mi precipitai in camera mia. Ven era stesa a pancia in giù sul mio letto, con i capelli che le ricadevano scomposti sul cuscino, coprendole il viso. Stava dormendo profondamente e le urla mie e di Robbeo non l'avevano minimamente disturbata.
«Ven,» bisbigliai, scuotendola un poco per svegliarla dalla sua pennichella pomeridiana. «Ven.»
Rimasi qualche secondo ad osservarla, cercando di captare un piccolo movimento che mi facesse capire che era sveglia. Ma sembrava essere stato tutto inutile. La mia migliore amica era ancora saldamente attaccata ai pantaloni di Morfeo e non pareva avere intenzione di lasciar andare la presa.
«Ven!» Riprovai, alzando un po' il tono ed aumentando le scosse.
Ancora nulla, anzi respirò profondamente e si voltò su un fianco, dandomi le spalle e rannicchiandosi. In quel momento sentii Robbeo uscire dalla sua stanza, così socchiusi la porta della mia per poter distinguere i suoi movimenti. Lui andò in salotto, raccattò la sua giacca e controllò il cellulare, prima di uscire di casa. Stava andando a quel maledetto appuntamento alla quale non potevo mancare, anche se in incognito. Ma certo non potevo andare senza il mio Watson personale. Così mi decisi ad usare le maniere forti per sottrarre la mia amica dalle braccia di Morfeo. Appoggiai le mani sulla sua schiena e la spinsi, facendola rotolare sul letto mentre lei lanciava dei sommessi mugoli di dissenso. Finché quella “M” strascicata con sonnolenza non si trasformò in un urlo quando cadde dal letto.
«Che cosa ti è saltato in mente, Cel?» Disse stizzita, comparendo dal bordo del letto con la mascherina da notte ancora calata sugli occhi.
«Dobbiamo seguire Robbeo!» Le spiegai velocemente, togliendomi il vestitino grigio da pezzente e indossando qualcosa di più presentabile.
«E perché mai?» Borbottò, alzando leggermente la mascherina e salendo di nuovo sul letto goffamente, quasi lo stesse scalando.
«Sta uscendo con una ragazza,» tagliai corto, sciogliendo i capelli e strattonando ancora la mia amica per non farla riaddormentare ancora.
«E finalmente!» Sbottò, mettendosi a sedere, arrendendosi al fatto che ormai non le avrei più permesso di tornare nel mondo dei sogni. Si grattò la nuca, sistemandosi la mascherina sui capelli scompigliati. «Non gli capita spesso di avere una Iolanda che si interessi a lui.»
«Non è una Iolanda qualsiasi. È quella di Annalisa!» Le spiegai, con le mani sui fianchi.
Ven, con gli occhi a mezz'asta, fece spallucce e sbadigliò sonoramente.
«Buon per lui,» tagliò corto disinteressata. «E non credo che abbia bisogno che lo controlli. Sarà anche stupido, ma sarà pure in grado di gestire un appuntamento.» Disse, stropicciandosi gli occhi. «Oddio... mica tanto.» aggiunse, contraddicendo le sue parole. «Mi sa che non ha molta dimestichezza con il gentil sesso.»
«Non è un appuntamento qualsiasi, Ven!» Esclamai, esasperata. «Tra Robbeo ed Annalisa c'è qualcosa. E non una relazione sentimentale e nemmeno una frequentazione. Devo scoprire perché quella sanguisuga lo tratta come il suo schiavetto!»
«Ti preoccupa così tanto questa situazione, vero?»
«Beh, direi!» Esclamai, indispettita, incrociando le braccia.
«E va bene, andiamo.» Sospirò Ven, alzandosi velocemente dal letto, lanciando la mascherina per gli occhi sul letto per sistemarsi i capelli alla bell'e meglio. Afferrò alcun vestiti dall'armadio, i primi che le capitarono sotto mano, e si vestì rapidamente.
«Dobbiamo fare in fretta!» Mi allarmai, prendendo gli occhiali da sole dal cassetto. Che razza di investigatore sarei stata senza un paio di Ray-ban dietro la quale mascherare la mia identità? «Robbeo è uscito di casa più di cinque minuti fa!»
«Ormai saranno già andati chissà dove, come credi di trovarlo?» Somandò Ven, acchiappando il suo cappotto dall'appendiabiti e passandomi il mio. «Hai intenzione di girare tutta Roma nella loro disperata ricerca?»
«Se fosse necessario, sì!» Risposi senza esitazione, chiudendomi la porta alle spalle.
«Uh! Non vedo proprio l'ora di passare un bellissimo pomeriggio che avrei potuto passare a rilassarmi a girovagare per Roma, senza un mezzo di trasporto e senza una meta.» Disse ironica, schiacciando il pulsante di chiamata dell'ascensore.
La guardai di traverso e le afferrai un polso, trascinandola giù per le scale. Non avevamo tempo di aspettare quella trappola, che avrebbe impiegato un'ora solo per farci arrivare al piano terra. Rischiammo di cadere un paio di volte, ma per fortuna l'osso del collo era salvo, per il momento. Feci scattare il portone e mi fiondai fuori dalla palazzina, ma non appena vidi Romeo appostato sul marciapiede poco distante dal nostro palazzo, indietreggiai, sbattendo contro Ven che stava uscendo in quel momento.
«Ahio!» Esclamò.
«Shhhh.» Bisbigliai, abbassandomi i Ray-ban sulla punta del naso per poterla guardare nei suoi occhi blu dubbiosi. «È ancora lì,» continuai, indicando col dito fuori dall'androne.
Ci sporgemmo entrambe per poter tener d'occhio Romeo. Sembrava impaziente, controllava l'orologio ogni secondo, come se stesse cronometrando il ritardo di Annalisa. Si guardò intorno, sbuffando e affondando le mani nelle tasche della giacca, calciando un sassolino che gli era capitato tra i piedi. Qualche minuto dopo, la Porsche rossa e scintillante di Annalisa svoltò nella nostra via, accostandosi al marciapiede proprio davanti a Robbeo. Abbassò il finestrino, e sollevò i suoi occhiali da sole, sicuramente di marca, forse Chanel o Gucci, sui capelli.
«Finalmente,» borbottò il mio migliore amico.
«Che saranno mai venti minuti di ritardo,» rispose la rossa, controllandosi sullo specchio retrovisore. «Anzi, sono anche in anticipo per i miei standard. Guarda! Per fare in fretta non mi sono nemmeno messa il rossetto.»
«Che bisogno hai di conciarti come un pagliaccio?» Domandò retorico Romeo.
«Ah! Quindi mi trovi ridicola, eh?» Sbottò quella, trafiggendo con lo sguardo il mio migliore amico che sporse subito le mani in avanti, agitandole con nervosismo. «Vuoi un altro ceffone?»
Che ci provasse! Se solo avesse osato alzare di nuovo le mani su Romeo, non avrei risposto delle mie azioni. Le avrei spaccato i denti con uno dei suoi trampoli di Chanel!
«No, non fraintendermi Anna!» Si giustificò Romeo, grattandosi la nuca a disagio. «È solo che,» s'interruppe, con il viso paonazzo che s'intonava perfettamente al colore dei suoi capelli. «Vabbè, lascia perdere.» Tagliò corto, girando intorno alla sfavillante Porsche e sedendosi al posto del passeggero.
«Ti stai arrampicando sugli specchi, Rosso,» gli fece presente l'arpia, mettendo il moto il suo gioiellino. «Vorrà dire che farò il doppio di shopping per farti portare il doppio delle borse.»
Il motore della Porsche rombò, poi la macchina si allontanò velocemente dalla nostra palazzina. Finalmente uscimmo dall'androne ed io seguii con lo sguardo il rosso brillante della macchina di Annalisa.
«Bene, genio,» disse Ven, scocciata, facendo ricadere le braccia pesantemente lungo i fianchi. «Come hai intenzione di seguirli? Correndo? A meno che non hai in tasca il tappeto volante, non vedo altra alternativa.»
Rimuginai qualche secondo, mentre il vento d'Aprile mi scompigliava i capelli. Mi ero esaltata per un piano che credevo geniale, mi ero perfino messa gli occhiali da sole come una vera spia, ma la mia idea era stata demolita, era crollata come un castello di carte a causa del soffio di Ven. Dovevo ingegnarmi, oppure potevo dire addio a tutti i miei propositi di scoprire perché Robbeo si faceva schiavizzare così. Aguzzai la vista e scorsi subito una macchina bianca con una scritta sullo sportello e la speranza di riuscire a togliere dai guai Robbeo tornò ad ardere dentro di me.
«Seguimi!» Dissi rivolta a Ven, e cominciai a correre in direzione del taxi che avevo adocchiato poco prima.
Non ero mai stata una sportiva e quella era forse la prima volta che correvo seriamente. Anche durante le lezioni di educazione fisica facevo di tutto pur di camminare e non sforzarmi troppo. Ma per Robbeo avrei fatto quel sacrificio! Avrei anche guardato una partita di calcio dal primo minuto fino al novantesimo per lui. Era l'unica persona, insieme a Ven, che c'era sempre stato per me, che mi era sempre rimasto accanto, che mi aveva voluto davvero bene incondizionatamente. Anche se non glielo avevo mai detto, lui era una delle persone più importanti della mia vita, che rendeva la mia esistenza meno grigia e monotona, che aveva sempre cercato di strapparmi una risata quando ero triste, facendomi dimenticare per qualche attimo quanto fosse stata insulsa ed insignificante, oltre che deludente, la mia vita. Per cui dovevo necessariamente capire che cosa lo affliggeva, aiutarlo come lui aveva sempre fatto con me.
«Ehi!» Sbraitai, sventolando le mani, mettendomi a rincorrere il taxi. «Ehi!» Continuai, sperando che l'autista si accorgesse di una biondina pazza che correva a perdifiato per raggiungerlo. «Si fermi!» Urlai di nuovo.  
La macchina bianca si fermò e un sorriso spontaneo nacque sulle mie labbra. Lo raggiunsi insieme a Ven e ci intrufolammo dentro, sedendoci sui sedili posteriori sui quali era già accomodata una donna di mezza età.
«Questo taxi è occupato, non vede?» Mi fece presente il tassista, con cipiglio contrariato.
«Pensavo che si fosse fermato per farmi salire.» Mi giustificai, abbozzando un sorriso.
«Mi sono fermato perché c'è il semaforo rosso,» mi rimbeccò l'autista sgarbato, con un cappellino calato sui capelli brizzolati.
«La prego! È una questione di vita o di morte.» Enfatizzai, rimbalzando con lo sguardo spiazzato dalla signora di mezza età, con una ricrescita grigia imbarazzante, a quello curioso dell'autista.
«Accontenti la ragazza,» disse scocciata la donna, addossandosi allo sportello e stringendo la borsa, quasi io e Ven fossimo due ladre.
«Dove dovete andare?» Si arrese il tassista, guardandomi attraverso lo specchio retrovisore.
«Vede per caso una Porsche rossa?» Domandai, speranzosa che la macchina di Annalisa non si fosse allontanata troppo in quei minuti di elaborazione della tattica e che fosse imbottigliata in quell'ingorgo di macchina irritate. Strisciai con il sedere in avanti, arrivando al limite del sedile, come se quel gesto riuscisse a stemperare la tensione che stavo accumulando secondo dopo secondo senza placare la mia sete di curiosità.
L'autista abbassò il finestrino e si sporse fuori con la testa, esaminando più accuratamente le macchine davanti a lui.
«Sì, la vedo.» Disse con sufficienza.
Sorrisi sorniona, tornando a sedermi comodamente e accasciandomi sullo schienale.
«Segua quella macchina.» Dissi, imperativa, pregustandomi già quell'inseguimento da film d'azione.
Il tassista e la donna di mezza età mi guardarono all'unisono, con le sopracciglia aggrottate per il dubbio. Poi l'uomo fece spallucce e ripartì, non appena il semaforo divenne verde.
«Gran bella idea,» disse ironica Ven, bisbigliandomi queste parole in un orecchio. «Rubare il taxi ad un'altra persona.»
«Avevi una soluzione migliore?» Sibilai, togliendomi i Ray-Ban per poter sfoderare il mio sguardo inceneritore. «Volevi per caso metterti alla guida della panda di Robbeo, così facevamo fuori tutti gli abitanti di Roma?»
«Potevamo rimanercene tranquillamente a casa,» mi rimbeccò la mia migliore amica. «Non mi sembra che ci sia nulla di male tra quei due.»
«Alla festa, Annalisa lo ha preso a schiaffoni...» cominciai a dire, ma Ven mi interruppe, borbottando un Chi non lo avrebbe fatto? Socchiusi gli occhi, intensificando il mio sguardo corrucciato, poi continuai la mia spiegazione, dopo aver preso un respiro profondo. «E ti avevo già accennato al fatto che lo usa come schiavo. L'ho proprio sentita mentre lo definiva così!»
Ven sbuffò, lasciandosi andare sullo schienale del sedile, chiudendo gli occhi.
«Spero che questo pomeriggio in stile Hitchcook serva a qualcosa,» borbottò.
In realtà lo speravo anche io. Non sopportavo di vedere Romeo in quello stato e ancora meno sopportavo il fatto che Annalisa, un'estranea qualunque, piombasse nella sua vita solo per rovinargliela. Chissà che diavolo aveva combinato quel babbeo per cacciarsi in una situazione del genere. Avevo come l'impressione che ruotava tutto intorno a Ruben. In fondo tutti gli avvenimenti avevano cominciato a susseguirsi subito dopo la sua entrata in scena. Solo che non riuscivo a trovare la connessione, il nesso che c'era tra tutto quello che ci stava accadendo in quel periodo.
Il taxi svoltò, immettendosi in una strada meno trafficata e finalmente riuscii ad intravedere anche io la Porsche di Annalisa. Si stavano dirigendo verso via Condotti, il viale della moda, stranamente. Inforcai di nuovo gli occhiali da sole, intuendo che fossimo quasi giunti a destinazione e tirai su la zip del giubbotto fino alla fine, coprendomi così anche la bocca e parte del naso, per camuffarmi nel migliore dei modi. Estrassi dalla tasca del giubbotto una banconota da venti euro e una da dieci, allungandole al tassista per pagare la corsa e scesi dalla macchina insieme a Ven, ringraziando la signora di mezza età   e l'autista prima di scendere dalla macchina, senza aspettare oltre.
Rimanemmo ferme sul marciapiede, vicine alla Porsche di Annalisa dal quale quei due erano già usciti. Mi guardai intorno, adocchiando subito due chiome rosse che  camminavano fianco a fianco lungo via Condotti.
«Comincia il pedinamento.» Dissi, elettrizzata, affondando le mani nelle tasche del giubbotto, mentre Ven scuoteva la testa sconsolata.
Allungai il passo, fermandomi proprio dietro quei due, con Ven che mi seguiva rassegnata nella mia follia. Ero curiosa di sapere che cosa si stessero dicendo e carpire più indizi possibili per risolvere quel mistero.
«Capisco che tu sia piena di quattrini e che ti escano da ogni orifizio corporeo,» cominciò Robbeo scocciato, con le mani nelle tasche dei jeans. «Ma perché ogni santissimo giorno devi fare shopping? Non puoi trovarti un hobby? Che ne so: andare in palestra, l'uncinetto, pettinare bambole...»
«Tesoro, lo shopping è un hobby!» Cinguettò Annalisa. «Anzi è uno stile di vita. Amo avere sempre cose nuove. Non posso mica presentarmi sempre con gli stessi abiti, accessori, scarpe. Sembrerei una pezzente come te.» Guardò il mio migliore amico, dall'alto dei suoi trampoli fino alla punta sporca delle All Star di Romeo, con una faccia disgustata. Se non fossi stata in incognito, le sarei saltata addosso per strangolarla.
«Guarda che la gente non si sofferma sui tuoi vestiti, fidati.» Rispose Robbeo, per nulla offeso dalle affermazioni della sua accompagnatrice, quasi fosse abituato a farsi calpestare così.
«Forse nel tuo mondo plebeo non accade. Ma nell'alta società ogni minimo difetto può essere usato per sparlarti alle spalle, deriderti e prendersi gioco di te,» gli confidò Annalisa, sicura di sé. «Bisogna sempre essere perfetti. E io lo sono.»
«Anche nel mondo plebeo accadono queste cose, purtroppo,» rispose Robbeo, accennando un sorriso. «Solo che nei nostri bassifondi te lo dicono in faccia. Non so se sia meglio o peggio rispetto alle prese per il culo alle spalle.»
Di sicuro, si stava riferendo alla sua travagliata vita scolastica, durante la quale tutti lo avevano sempre deriso per la sua goffaggine, per i capelli rossi e le lentiggini sparpagliate ovunque sul suo corpo. Entrarono in un negozio e non feci nemmeno caso all'insegna. Li seguii, insieme a Ven, dentro quell'enorme locale sfarzoso stracolmo di vestiti di ogni sorta, dall'elegante al casual. Era raro che io mettessi piede in un negozio così, anzi era forse la prima volta che entravo in una bottega elegante come quella. Era talmente lussuoso che sembrava che bisognasse pagare anche solo per aver visto un vestito.
Continuammo a tenere d'occhio quei due, nascondendoci dietro agli abiti o voltandoci, fingendo di interessarci a qualche vestito ogni qualvolta Robbeo o Annalisa si voltavano.
«Stai parlando di te, vero?» Domandò retoricamente la rossa, scrutando con i suoi occhi verdi qualsiasi capo d'abbigliamento attirasse il suo sguardo. «Non mi stupisce che tutti ti abbiano sempre preso in giro. Dio, guardati! Hai i capelli rossi!»
«Non so se te ne sei resa conto, ma anche tu hai i capelli rossi.»
Annalisa lo guardò con il suo solito sguardo di superiorità, arricciando le labbra.
«Ma il mio è un rosso intenso, passionale, travolgente.» Disse passandosi una mano tra i capelli ed avvicinandosi un passo dopo l'altro a Robbeo, fermandosi a pochi centimetri dal viso del mio amico. Lui deglutì a fatica, cercando di distogliere lo sguardo dagli occhi felini di Anna. «Il tuo è spento, moscio esattamente come te.» Aggiunse, sorridendo beffarda ed inoltrandosi tra i vari scompartimenti del negozio.
Afferrai Ven per un braccio, seguendo Annalisa e Robbeo che camminavano spediti tra gli scaffali. Per ora, nulla di quello che stava succedendo era utile per la mia indagine, anzi sembravano quasi andare d'accordo,  nonostante Anna fosse simpatica quanto una torta di mele avariata portatrice di dissenteria.
«Dai, su, Cel!» Mi rimbeccò la mia amica, stufa di starmi dietro. «Basta! Hai visto anche te che è tutto tranquillo tra quei due.»
«No, Ven! Io devo sapere, a costo di seguirlo ogni giorno finché non trovo una spiegazione plausibile a tutto quello che sta accadendo.»
«Ma non pensare che io ti seguirò!» Disse con disappunto, puntandomi addosso un indice. «Questa è la prima e l'ultima volta che faccio una cosa del genere. Anche perché sono venuta a Roma per stare con te, non per seguire quel babbeo.» Bofonchiò, e io scrollai le spalle. Tanto non sarebbero serviti altri inseguimenti, perché ero più che decisa a risolvere il mistero durante quel pomeriggio.
Annalisa acciuffò un numero imprecisato di vestiti e si diresse velocemente verso i camerini, seguita da un Robbeo scocciato ed annoiato ai quali ammollò alcuni indumenti di troppo che non avrebbe mai saputo dove appoggiare nell'angusto camerino. Io e Ven ci appostammo poco prima che un piccolo corridoio si aprisse nelle sei cabine. Poco dopo Annalisa scostò la pesante tenda che la nascondeva da occhi indiscreti, presentandosi con un succinto abito nero che metteva in mostra sia il lato A che quello B.
«Come mi sta?» Domandò, volteggiando su se stessa e rimanendo a rimirarsi nell'enorme specchio del camerino.
«Boh,» Robbeo fece spallucce. «Per un festino ad Arcore sarebbe perfetto.» Commentò, sghignazzando, beccandosi un'occhiataccia da Annalisa. La rossa, indispettita, rientrò nella cabina, nascondendosi ancora una volta dietro la tenda color porpora.
«Uff,» sbuffai, spazientita. «Non accade nulla di eclatante!» Mi lamentai, sistemandomi i capelli dietro le orecchie.
«Te l'avevo detto che era inutile,» borbottò Ven, e in quel momento Robbeo si voltò verso di noi. Per un attimo i suoi occhi incontrarono i miei nascosti dietro le lenti nere degli occhiali da sole. Sbiancai di colpo e mi voltai rapidamente, facendo finta di essere interessata ad un orribile vestito che sembrava la tunica di una suora. Ven si allontanò da me, velocemente, in modo da non destare sospetti.
«Celeste sei tu?» Domandò il mio amico, avvicinandosi sospettoso a me.
Una goccia di sudore freddo mi colò dalla fronte e vidi il mio fantastico piano frantumarsi, lo vidi collassare così come l'amicizia tra me e Romeo. Se avesse scoperto che lo stavo seguendo per impicciarmi nella sua vita privata si sarebbe di certo arrabbiato con me. Come biasimarlo, dopotutto. A tutti avrebbe dato fastidio la curiosità patologica di una persona, che addirittura arrivava a seguire qualcuno. Io lo facevo per lui, per cercare di aiutarlo, ma questo non sarebbe stato sufficiente come giustificazione.
Finsi di non averlo sentito, continuando ad interessarmi ai vari vestiti esposti, stando attenta a dare sempre le spalle al mio amico. Quando solo un passo ci divideva, Annalisa uscì nuovamente dal camerino, salvando la situazione. Quella sarebbe stata l'unica volta che, invece di volerla prendere a sberle, le avrei schioccato un'infinità di baci.
«Romeo!» Lo richiamò la rossa, stizzita. «Non ti devi allontanare da qui! Devi essere presente ogni volta che esco dal camerino, per darmi una tua impressione.» Continuò, mettendo le mani sui fianchi lasciati scoperti dal costume da bagno bianco che indossava. Aveva solo due pezzi piccoli pezzi di stoffa che le coprivano il seno, tenute insieme da un anello dorato, che si univa ad una mutandina striminzita.
«Tanto non mi ascolti mai, fai sempre di testa tua,» borbottò Romeo, tornando ai camerini. Lo seguii, cautamente, nascondendomi dietro la parete. Mi sarei aspettata di vedere il mio migliore amico stramazzare al suolo esanime con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso davanti al fisico mozzafiato di Annalisa strizzato in quel costumino bianco che non lasciava nulla all'immaginazione. Invece rimase impassibile, guardandola un paio di volte e piegando gli angoli della bocca.
«Carina,» disse semplicemente.
Annalisa contrasse la mascella, indispettita per l'indifferenza di Romeo. Anche io rimasi stupita. Solitamente, quando vedeva una bella ragazza mezza nuda, con la Iolanda al vento e le tette quasi completamente visibili, perdeva quel briciolo di raziocinio che aveva, trasformandosi in un lupo in calore, arrapato e pronto all'accoppiamento. Ed invece, nemmeno una piega, nemmeno un accenno di bava.
«Carina?» Ripeté stizzita la ragazza, guardando il mio amico come se lo volesse uccidere «Solo carina? Tu mi vedi con questo magnifico costume da bagno e l'unico commento che fai è carina?»
«Cosa ti aspettavi? Che mi eccitassi e che mi inginocchiassi davanti a te per supplicarti di concedermi una notte di passione?» Ribatté Romeo, scrollando le spalle. «Se vuoi fingo, non mi costa nulla.»
«Vedi di cambiare atteggiamento, Rosso,» sibilò Annalisa, avvicinandosi a lui minacciosamente. «O la mia bocca non rimarrà più sigillata. E allora saranno cavoli tuoi e del tuo amichetto.»
E, dette quelle parole rabbiose e minacciose al tempo stesso, afferrò i vestiti che teneva ancora in mano Robbeo ed entrò di nuovo nel camerino. Se prima ero confusa, dopo quello che aveva detto Anna lo ero ancora di più. A cosa si riferiva? O meglio a chi si riferiva con le sue parole? Quella ragazza custodiva un segreto, lo stesso forse che Romeo cercava di difendere preferendo addirittura il silenzio. Una strana morsa mi strinse la bocca dello stomaco, come se quell'affermazione riguardasse me indirettamente.
La mano di Ven si appoggiò sulla mia spalla, scacciando via quei pensieri. Mi voltai, trovandomi di fronte ad un vestititino color panna con nastro di raso nero attorno alla vita.
«Non è favoloso?» Disse, estasiata. «Sarebbe perfetto per te. Immagina la faccia di Ruben se te lo vedesse addosso.»
«A lui non importa quello che indosso. Tanto vorrebbe togliermi di dosso qualsiasi cosa, che sia uno straccio o un abito di Valentino,» bofonchiai, ridacchiando subito dopo.
«Ma questo capita con tutti gli uomini,» ribatté la mia amica. «Ma questo abito è stupendo! Dovresti comprarlo.»
«E quanto costerebbe?» Domandai sospirando, quasi convinta di poterlo comprare.
Ven cercò la targhetta con il prezzo e non appena la trovò la lesse attentamente, sbiancando poco dopo.
«Quanto?»
«Lasciamo perdere. Non potresti permettertelo nemmeno se vendessi la macchina di Robbeo.»
Socchiusi gli occhi e le sottrai il vestito dalle mani, rivoltandolo per trovare la targhetta. Mi venne un infarto appena lessi il numero a tre cifre scritto a caratteri cubitali su quel cartellino bianco. Cominciava con un 2, per finire in un dolcissimo 35. 235 euro per un vestito che mia nonna avrebbe fatto con pezzi di stoffa scartati da qualche altro abito.
«Ma sono dei ladri!» Borbottai, avendo voglia di accartocciarlo e lanciarlo a terra, per poi calpestarlo.
Ma fu più utile come nascondiglio per me e Ven. infatti ci coprimmo il volto con la stoffa leggera e chiara dell'abito quando Robbeo e Annalisa uscirono dal piccolo corridoio: il mio amico con le braccia piene di vestiti ed Annalisa sculettando, con un'espressione imbronciata. Fortunatamente non avevano fatto caso a noi, forse per l'ottimo nascondiglio o forse perché erano troppo arrabbiati per poter prestare attenzione a ciò che li circondava.
Si diressero verso le casse, per cui dedussi che un'altra carta di credito del signor Cavalli sarebbe andata a farsi benedire in nemmeno due ore. Avrebbe speso più di quanto quel tirchio di Ugo mi dava per lavorare nella sua squallida gelateria. Quella ragazza era così diversa da me, da noi, da Romeo e Ven che mi sembrava strano che fosse entrata a far parte, in un modo o nell'altro, nel piccolo e incasinato mondo di Robbeo. Annalisa era l'opposto del mio amico: frivola, spendacciona, superficiale, che viveva la sua vita solo in funzione del pensiero altrui. Romeo, invece, condivideva un piccolo appartamento con la sua amica di sempre, guidava una macchina che a stento si reggeva in piedi, sbavava dietro qualsiasi ragazza attraente, ma si innamorava di quelle profonde, e anche bruttine. Era un ragazzo che viveva la vita così come gli si proponeva, rimanendo sempre se stesso e senza lasciarsi condizionare da ciò che gli altri pensavano. Era fiero di ciò che era e non aveva bisogno di nascondersi dietro vestiti firmati e oggetti costosi solo per guadagnarsi falsi sorrisi. Quello che contava per lui erano i sentimenti veri, le emozioni forti, l'amicizia e l'amore che non si fondavano solo sul conto corrente.
Li raggiungemmo alla cassa, dopo aver lanciato il vestito chissà dove e attendemmo vicino ad una colonna ornata di accessori che costavano più di un mio libro universitario.
«Ma ciao, tesori!» Miagolò il commesso, con i capelli neri tirati indietro da quintali di gel e ciglia lunghe quanto quelle di Betty Boop.
«Ciao Andrè,» lo salutò Annalisa, con sufficienza. Poi rivolse uno sguardo imperativo a Robbeo, indicandogli con il mento la cassa dove appoggiare i vestiti.
«Così poche spese, tesoro?» Domandò il commesso.
«Poche...» Borbottò sommessamente il mio amico, facendo ciò che gli aveva ordinato quella serpe dai capelli rossi.
«Sì, Andrè,» rispose Annalisa, dopo aver trucidato con lo sguardo Robbeo. «Non ero proprio in vena. Una certa testolina rossa mi ha fatta arrabbiare.»
Il ragazzo cominciò a far passare le targhette dei vestiti sui raggi infrarossi, mettendoli poi in una busta enorme con il logo del negozio. Scoccò un'occhiata maliziosa ai due clienti davanti a lui, sogghignando sotto il pizzetto curato che gli incorniciava le labbra carnose.
«Queste schermaglie tra fidanzati!» Sospirò, scuotendo la testa e ridendo divertito.
«Veramente io...» Tentò di dire Robbeo, timidamente e rosso come un peperoncino. Ma Annalisa lo zittì, mettendogli una mano davanti alla bocca e cominciò a ridere anche lei.
«Già!» Convenne con Andrè. «L'amore non è bello se non è litigarello.» Se ne uscì, con la voce incrinata dall'imbarazzo.
Annalisa... imbarazzata? Che cosa stava succedendo? Per caso mi ero addormentata di colpo e stavo sognando oppure ero stata catapultata in un mondo parallelo, abitato da esseri completamente uguali a noi, ma con caratteristiche opposte.
Chi ha scritto L'infinito?
Leopardi, ovvio.
E se ti dicessi che Ruben, in questo momento, sta facendo il provolone con una russa stangona con il cervello grosso quanto un'arachide?
Prima spezzo le gambe alla russa, poi  un bel calcio negli zebedei di quel bastardo e, come festeggiamento, mi mangio l'arachide.
No, okay. Io ero sempre la stessa Celeste di sempre, per cui non c'era stato nessun varco spazio-tempo alla Stargate che mi avesse sbalzata in un altro mondo. Allora, molto probabilmente, anche Annalisa era un essere umano, che aveva le stesse insicurezze, che provasse imbarazzo come una qualsiasi altra ragazza della sua età. Magari sotto tutto quel silicone di quel seno rifatto batteva anche un cuore, ma di quello non ne ero ancora del tutto sicura.
Andrè strisciò la carta di credito di Annalisa e consegnò le enormi buste nere nelle mani di Robbeo, che mio parve tanto un mulo da soma con tutti quei sacchetti giganti ed ingombranti che non gli permettevano nemmeno di deambulare.
«Ciao, tesoro.» Disse il commesso, sporgendosi per poter baciare sulle guance la sua cliente preferita. «E tu cerca di non far arrabbiare la mia cucciolotta!» Si rivolse a Robbeo, con tono serio e un dito abbronzato da chissà quante lampade puntato contro il rosso. Il mio amico annuì debolmente, prima di congedarsi fuori dal negozio.
Li imitammo, per proseguire quell'inseguimento che non stava portando a nulla di buono, a parte il fatto che entrambi custodissero chissà quale segreto inconoscibile dalla gente comune come me.
«Perché non gli hai detto che non sono il tuo fidanzato?» Domandò perplesso Robbeo, incespicando nelle buste. «Pensavo che tu non avresti nemmeno fatto finta di essere fidanzata con uno sgorbio come me.»
Per un attimo si sentirono solo i tacchi di Annalisa ticchettare sull'asfalto, con in sottofondo i rumori della città. Era in difficoltà e non sapeva cosa rispondere. In effetti era lo stesso dubbio che era venuto a me. Perché mai Annalisa non aveva smentito, inorridita, l'affermazione di Andrè?
«Beh, perché…» cominciò, ma si fermò per deglutire. «Perché sennò ci avrebbe provato con me. E non sarebbe stata la prima volta!»
«Ma se quello preferisce i Walter alla Iolanda!» Ribatté Romeo, dimenandosi per non far cadere a terra una busta in equilibrio precario, riuscendo nel suo intento.
«Sembra! Ma è più etero di Rocco Siffredi!» Rispose Annalisa, accelerando il passo per allontanarsi dal mio amico senza motivo.
Nella troppa fretta ed irruenza, però, un un tacco si ruppe facendola ruzzolare a terra come un sacco di patate. Credevo che Robbeo si sarebbe gettato a terra, rotolandosi dalle risate per la caduta di Annlisa. Invece fece cadere le buste, correndo verso di lei ed accovacciandosi accanto alla ragazza.
«Stai bene?» Le domandò, allarmato, esaminandola attentamente in cerca forte di qualche ferita.
«No che non sto bene!» Piagnucolò lei, piegando le gambe di lato come una sirena e togliendosi la scarpa rotta. «Le mie meravigliose scarpe di Gucci! Erano le mie preferite!» Si lagnò, scoppiando quasi a piangere.
«Ma sì! Sono solo un paio di scarpe, ne avrai a centinaia a casa.»
«211, per l'esattezza,» puntualizzò Annalisa con tono serio, per poi scoppiare di nuovo in un finto pianto disperato.
«L'importante è che tu non ti sia fatta male,» continuò Romeo, con un sorriso.
«Avrei preferito cento volte spaccarmi una caviglia piuttosto che rinunciare ad un paio di scarpe,» si disperò.
«Come sei materialista.» Borbottò Romeo, allungandole una mano e lei la accettò per rialzarsi da terra. Si tenne in equilibrio su un piede, ripulendosi i vestiti.
«Invece di giudicarmi, riprendi le buste e portami a cavalluccio fino alla macchina,» disse allargando le braccia, attendendo che il mio amico la prendesse in spalle. Robbeo la guardò esterrefatto, con gli occhi spalancati per quella richiesta assurda.
«Stai scherzando?»
«No, ovviamente!» Rispose perentoria, con un sorriso incredulo. «Sei il mio schiavetto, quante volte te lo devo ripetere?»
«Questo è veramente troppo!» Sbottò Romeo, e non potei essere più fiera di lui come in quel momento. Allora anche lui aveva un po' di palle, nonostante le tenesse nascoste. «Ho accettato di accompagnarti durante le tue spese folli, di farmi caricare come un asino con le tue stupide borse da shopping. Ma portarti in spalla è troppo. Ho una dignità anche io!»
Annalisa scoppiò a ridere e mi ricordò tanto, in quel momento, Crudelia Demon che aveva appena rapito i cuccioli di dalmata per farsi la sua pelliccia pregiata.
«Ma quale dignità?» Disse seria, trapassando il mio amico con i suoi freddi occhi verdi «Non l'hai mai avuta. La tua amichetta bionda l'ha calpestata molto prima che arrivassi io, distruggendola, mio caro.»
Si stava riferendo a me, quella sanguisuga! Se non ci fosse stata Van a trattenermi, stringendomi da dietro le sarei saltata addosso e poco mi sarebbe importato di finire in galera per omicidio. Non mi ero mai permessa di umiliare il mio amico, di trattarlo come se fosse uno zerbino, di calpestarlo come stava facendo lei.
«Non ti permettere, Anna.» Ringhiò Romeo e per una volta lo vidi davvero arrabbiato.
«Lei ti tratta come uno stupido, se non te ne sei mai reso conto. Crede di essere superiore a te e a tutti gli altri solo perché ha la media del trenta,» ribatté a tono la rossa. «Ma a lei è permesso tutto, anche chiamarti babbeo, vero? Perché ne sei innamorato!»
Il mondo mi crollò sotto i piedi in quell'istante, proprio quando Ven si era voltata verso di me e mi guardava incredula con i suoi enormi occhi blu, quando Robbeo abbassò il viso per nascondere il rossore che affiorò sulle sue guance. In tutti quegli anni non mi ero mai accorta di nulla e forse lo avevo anche illuso con qualche mio comportamento. E chissà come era stata dura per lui condividere lo stesso appartamento con la ragazza che amava, che lo aveva considerato sempre e solo un amico e mai qualcosa di più, che si era fidanzata con un suo amico. Ogni volta che nominavo Ruben, che gli stringevo la mano o lo baciavo in presenza di Romeo, doveva essere come una stilettata al cuore, come mille aghi che gli si conficcavano in ogni parte del corpo.
«Sì, okay. Ho sempre provato qualcosa per Celeste che andava ben oltre l'amicizia,» ammise il mio amico, e mi sentii terribilmente in colpa nell'udire quello che aveva detto. «Ma, ecco, insomma...» Esitò, grattandosi la nuca in evidente imbarazzo. «Forse non è l'unica ragazza che mi piace!»
E inevitabilmente mi voltai verso Ven che, incredula, ricambiò la mia occhiata. 


Ed eccoci alla fin fine di questo dodicesimo capitolo. O.O Siamo già al dodicesimo! Porca paletta quanto vola il tempo! :3
Vabbé, bando alle ciance. I PoV questa volta sono separati, ciò vuol dire che né Leo né Celeste hanno interagito in questo chappy, ma ciò non vuol dire che non ci sono stati numerosi colpi di scena. Allora, Leuccio ha finalmente ricominciato ad allenarsi in vista della nuova partita all'orizzonte e cerca in tutti i modi di tenere il lavoro e la vita privata separati, fallendo miseramente ^^'
L'Ego non lo aiuta di certo, poveretto, e poi ci manca il bellissimo J. dagli occhi di ghiaccio a rendergli la vita ancor più complicata! E inZomma sapeva alla perfezione l'identità di Leo ma ha fatto finta di reggergli il gioco, solamente per ricattarlo. U_U Povero Leo, dalla padella (Annalisa) alla brace (JeanP.), mesà che fa prima a dire tutta la verità... xD Gli conviene!
Ve le aspettavate Cel e Ven nei panni di due scaltre investigatrici? Ma soprattutto vi aspettavate tutti questi segreti da parte di Robbeo?
Il nostro amico Roscio si è cacciato nei guai, per così dire, solo per non tradire il segreto di Leonardo. È diventato il servetto ufficiale di Annalisa, quella serpe che lo tiene sotto scacco. È lei ad avere il coltello dalla parte del manico (:3) e Robbeo non può far altro che seguirla ovunque lei vada. A Celeste questo non va giù,ma non sa che il suo migliore amico sta facendo tutto questo per lei. È da molto tempo che non la vede così felice insieme ad un ragazzo, per cui si fa calpestare dalla rossa solo per salvaguardare (momentaneamente) la felicità della sua amica. Che poi tanto amica non è per lui, visto che ne è innamorato. Scioccate? io lo sarei molto di più per quello che ha detto dopo, ossia che Celeste non è l'unica ragazza che gli interessa... e qui taccio, mi cucio la bocca e vi mando tanti cuoricini ♥♥♥ per il vostro affetto.
A questo punto è d'obbligo dare il via alle ipotesi più svariate, perciò la parola a voi, ADEPTE! Un ultimo regalino Chaceoso! Ma quanto è bono lui?! (anche se è un po' cattivello!)


Ringraziamo di cuore le 12 persone che hanno recensito lo scorso capitolo e tutti quelli che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite, ma anche TY ai lettori silenziosi! >.<
Ora un po' di pubblicità:


Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!



   
 
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