Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |       
Autore: Yoko Hogawa    30/11/2011    3 recensioni
Né Sanji, né Franky e né Brook ebbero il coraggio di risponderle. Preferirono rimanere zitti, ingoiare qualsiasi cosa avessero in mente di dire, facendo cadere di nuovo un silenzio interrotto solo dai brevi singhiozzi che Nami non riusciva proprio a trattenere.
Nessuno di loro c’era stato. Avevano saputo tutto dai giornali e, nonostante fossero corsi lì appena possibile, già dall’inizio erano tutti consapevoli di essere in ritardo.
Era troppo tardi. E quella era la Spada di Damocle che pendeva sul capo di ognuno, in quella camera odorante di sigaretta.
Ne accendeva sempre, Sanji, anche se finiva per non fumarle. Le accendeva perché almeno l’odore del fumo, così intenso e così fastidioso, copriva quello di terra e sangue, ferro e polvere da sparo, medicinali e disinfettante che emanava Rufy.
L’odore della guerra.

[La (mia) Ciurma di Cappello di Paglia davanti ad un Rufy appena uscito da Marineford.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mugiwara, Portuguese D. Ace, Sabo
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Desclaimer: One Piece è © di Eiichiro Oda-sensei, dal quale prendo in prestito i pg solamente per fare tanto angst e rovinare il fegato alla gente che ha voglia di leggere XD

Note: È qualcosa che tento di scrivere da fin troppo tempo, cambiando qui e là la trama ogni volta che ci penso sopra.

Che dire? Il punto del manga è – come ci si aspetterebbe da una come me che campa d’angst, forse – il post Marinford. Che originalità, eh? XD

Però questa volta varia. Vedete, mi sono sempre chiesta come la ciurma avrebbe preso il vedere Rufy subito dopo la guerra. Cosa sarebbe successo se, in definitiva, tutti fossero tornati all’arcipelago Sabaody prima che Rufy si svegliasse.

Inoltre io sono amante dei 3 fratellini, e Sabo ha catturato violentemente il mio cuore. Volevo usare anche lui, ma essendo passato a miglior vita non ne avevo occasione... così ho unito le due cose *sadistic smile*.

E ho riconsiderato Sanji. Per molto non è stato uno dei miei personaggi preferiti, ma ammetto che il moldo delle doujinshi me lo ha fatto amare un po’ di più, motivo per cui l’ho scelto come POV principale.

Questo lavoro, in definitiva, è un missing moment, per metà AU e per metà “what if” di proporzioni bibliche. Per il momento è una short-fic di 3 capitoli, ma non escludo che possa essere più breve.

 

Beh, che dire... se avete letto fin qui senza fuggire, vi auguro buona lettura.

______________________________________________________________________________________________________

 

First Illusion

 

Era lì, immobile.

Quasi incredibile da pensare riferito ad uno come lui, che fermo un secondo sembrava essere geneticamente incapace di starci. Persino quando dormiva non faceva altro che rigirarsi nel sonno, mugugnando e russando ad alternanza, tirando calci e pugni oppure precipitando – ovviamente senza svegliarsi – nell’amaca del povero malcapitato sottostante.

Perché no, lui non dormiva mai in basso. Doveva stare in alto, lui. Così, tanto per essere un pericolo pubblico anche di notte, coprendo un inquietante arco di 24 ore su 24.

Se fosse stata una situazione diversa, probabilmente Sanji avrebbe per lo meno sorriso a quel suo pensiero sconclusionato. Ma in quel momento, nel silenzio triste di quelle quattro mura di legno, non aveva nemmeno il coraggio di trattenere fra le labbra la sigaretta, che pian piano si consumava fra le sue dita.

Vederlo così – così indifeso, così debole – era destabilizzante. Era come dover sopportare il rimbombo sordo di un’esplosione lontana, osservandone la luce inquietante che si librava nell’aria e vedere l’onda d’urto passare da parte a parte della gabbia toracica, stringendo i polmoni in una morsa e torcendo il cuore d’ansia.

Disteso su quel letto, supino, le lenzuola bianche a coprire le gambe fino alla vita.

Ciò che non copriva il lenzuolo, tuttavia, ci pensavano le bende a coprire.

Le braccia lasciate inermi lungo i fianchi, le dita delle mani lievemente piegate verso il palmo, del tutto fasciate e piene di cerotti. Una chiazza scura di sangue sporcava le bende a livello del petto, che si abbassava ed alzava al ritmo di un respiro appena accennato, quasi inesistente.

Ma era osservare il suo viso, la vera cosa che Sanji non sopportava. Quello che gli faceva venire una voglia disperata di nicotina, anche se poi non trovava la forza nemmeno di portarsi la cicca alle labbra e la lasciava morire in un costante filo grigio di fumo maleodorante.

Pallido, scavato. Non era difficile riconoscere un paio d’ombre violacee sotto gli occhi, dato che spiccavano sulla pelle pallida come dei bucaneve in un campo completamente innevato. Su naso e bocca era appoggiata una mascherina per l’ossigeno, collegata ad una bombola che emetteva un sibilo quasi muto, ma che sembrava l’urlo continuo di un essere mitologico, in quel silenzio duro come il granito.

La fronte era imperlata di sudore freddo che ogni tanto Robin, seduta su di una sedia dietro la testata del letto, delicatamente detergeva. I corti capelli neri, incrostati di sangue e polvere, si attaccavano alla fronte come rami d’ombra che sembravano dover allargarsi su quel volto provato fino ad inghiottirlo.

Era a quel punto che Sanji scuoteva il capo, facendo cadere a terra la cenere in precario equilibrio dell’ormai mozzicone di sigaretta. Arrivava, in quei momenti, a non riuscire a distinguere la soggezione dalla realtà dei fatti.

Ma come poteva fare altrimenti? La persona stesa su quel letto, circondata dai suoi compagni che si vergognavano addirittura di respirare in sua presenza, non era nemmeno l’ombra del Rufy che loro conoscevano.

Non sembrava affatto quel capitano spensierato che tutti loro amavano, l’eterno ragazzino dei sogni da realizzare.

Sembrava che stesse dormendo, anche se non era veramente così. Semplicemente, pensava il biondo, si stava rifiutando di svegliarsi. E c’era chi, all’esterno di quella nave, pensava che non gli avrebbe fatto male continuare a tenere gli occhi chiusi... almeno per un altro po’.

Almeno il tempo necessario per permettere a loro – la ciurma lontana nel momento del bisogno, ciò che rimaneva una volta che tutto era finito – di mettersi dell’idea di cosa fosse successo, a quella persona distesa fra quelle lenzuola bianche, e cosa sarebbe successo quando, riaprendo gli occhi ed accorgendosi di essere nella realtà, di ciò che era stato avrebbe preso effettivamente coscienza.

Quando si fosse ricordato del corpo di suo fratello fra le braccia, della vita che pian piano lo abbandonava versandosi sui suoi vestiti insieme al sangue, caldo di un calore nauseante.

Dovette portarsi una mano alla bocca per resistere alla nausea. Poteva solo immaginarlo. Lui non era Rufy e lui, a Marineford, non c’era stato.

Lui non c’era.

Chiuse gli occhi, lasciando andare la nuca contro la parete alle sue spalle con un colpo sordo che risuonò in tutta la stanza.

Sette paia d’occhi si girarono in sua direzione e, per un momento, Sanji rimpianse la semplicità e la luminosità degli unici occhi che avrebbe voluto vedere.

« Che succede, Sanji-san? » chiese Brook con voce profonda, privata della scherzosità che solitamente possedeva.

Il cuoco strinse i denti, cercando da qualche parte la voce per rispondere. « Sto per vomitare » soffiò.

Franky, seduto a gambe incrociate accanto alla parete parallela, gli lanciò uno sguardo comprensivo. « Cerchiamo di essere positivi. Ne ha passate di peggiori » disse.

« Ah sì? » proruppe Nami con voce roca, le guance bagnate di lacrime e gli occhi rossi e gonfi. Seduta accanto a Franky, con le ginocchia al petto e le braccia che le cingevano, osservò il cyborg con quel pizzico di rabbia che da’ sempre la disperazione. « Perché io non me la ricordo, una cosa peggiore di questa. Anzi, come potrei ricordarmela? Io non c’ero. Avrei dovuto esserci ma... ma... » si interruppe, portandosi una mano alla bocca per nascondere l’ennesimo singulto. Ingoiò il singhiozzo ma un’altra lacrima, l’ennesima, le scivolò lungo la gota.

Sanji, né Franky e né Brook ebbero il coraggio di risponderle. Preferirono rimanere zitti, ingoiare qualsiasi cosa avessero in mente di dire, facendo cadere di nuovo un silenzio interrotto solo dai brevi singhiozzi che Nami non riusciva proprio a trattenere.

Nessuno di loro c’era stato. Avevano saputo tutto dai giornali e, nonostante fossero corsi lì appena possibile, già dall’inizio erano tutti consapevoli di essere in ritardo.

Era troppo tardi. E quella era la Spada di Damocle che pendeva sul capo di ognuno, in quella camera odorante di sigaretta.

Ne accendeva sempre, Sanji, anche se finiva per non fumarle. Le accendeva perché almeno l’odore del fumo, così intenso e così fastidioso, copriva quello di terra e sangue, ferro e polvere da sparo e disinfettante che emanava Rufy.

L’odore della guerra.

Usopp, abbandonato con la fronte contro lo stipite della porta, portò nuovamente lo sguardo su Rufy. Non gli aveva mai staccato gli occhi di dosso da quando, attendendo al limitare del groove che il sottomarino di Trafalgar Law attraccasse, aveva visto scendere Rufy disteso immobile su di una barella. Prendendo fiato, fu lui a spezzare di nuovo il silenzio.

« Non morirà, vero? » domandò. Ma più che una domanda, sembrò una minaccia.

« Non dirlo nemmeno per scherzo! » sbottò subito Chopper, l’unico oltre a Robin ad essere vicino al loro capitano dormiente. Era seduto su di una sedia al capezzale del letto, teso come una corda di violino ma anche professionalmente attento ad ascoltare il respiro di Rufy.

E a vederne il petto alzarsi ed abbassarsi, a cercare la goccia di sudore sulla fronte, a percepire invisibili movimenti delle dita immobili e delle sopracciglia coperte dalla benda che gli fasciava stretta la testa. A percepire segni di una vita che aveva la fottuta paura di vedere andarsene.

« No che non morirà! Lui è Rufy! Lui è il Capitano! Lui... ».

« È un essere umano » lo interruppe di nuovo il cecchino, osservando il medico di bordo con occhi sottili e lo sguardo serio di Sogeking; quello sguardo che sfoderava solo in battaglia, quando faceva forza sulla propria paura per tirare fuori il coraggio sepolto sotto di essa. « È un essere umano – ripeté – e questa volta non è come le altre. Questa volta non bastano i cerotti e la buona volontà. Non lo vedete? » disse, indicando con il volto il loro capitano privo di sensi: « è distrutto, ma non in senso lato. È veramente distrutto. A volte... » deglutì « ...a volte mi trovo a trattenere il respiro perché perdo il ritmo del suo, e la prima cosa che mi viene alla mente insieme al panico è che abbia smesso di respirare. Non posso non pensare... » un’ulteriore pausa, il tremare delle labbra: « ...non posso non pensare che possa morire da un momento all’altro » disse.

Ma nessuno ribatté. Nessuno ne ebbe il tempo.

Il freddo clangore di un filo di spada che viene sguainata di qualche centimetro immobilizzò l’aria e le parole.

Zoro, seduto con la schiena appoggiata a lato del letto, aveva spostato gli occhi su Usopp, che si era immediatamente zittito.

Occhi di una bestia reclusa e ferita, privata di quel qualcosa che gli garantiva la calma e lo trasformava in una macchina da guerra bramosa di sangue che anelava non la caccia per cibarsi, ma l’inseguimento sino allo sfinimento dettato dal puro istinto di fare del male.

Lo raggelò, Zoro; il pollice della destra aveva fatto scattare l’elsa della Sandai Kitetsu, sfoderandola appena.

« Dì un’altra parola... » soffiò, gelido « ...e non mi importerà del fatto che siamo compagni » minacciò.

Il resto della frase, anche se sottinteso, Usopp non ebbe difficoltà ad immaginarlo.

Zoro, fra tutti loro, era l’unico che si trascinava dietro le ferite di Thriller Bark, ancora in via di guarigione. Non sapevano dove fosse stato spedito in quei pochi giorni ma, se possibile, sembrava ancora più stanco e dolorante del solito.

E più cattivo, più in ansia. Probabilmente nessuno di loro capiva come dovesse sentirsi lui, che quell’avventura chiamata “Pirati di Cappello di Paglia” l’aveva cominciata praticamente con Rufy. Lui che era il primo compagno, lui che era l’appoggio, lui che era il braccio destro. Lui, che rappresentava quello sguardo d’intesa che nessun altro membro della ciurma poteva vantare e quel grado di comprensione che, con una controparte come Rufy, era davvero difficoltoso possedere.

Zoro Roronoa era l’unica persona della ciurma che eseguisse gli ordini impartiti da Rufy senza mai fiatare. Era la razionalità quando Rufy la perdeva, era la comprensione quando il capitano ne aveva bisogno.

A volte – ma solo a volte – quasi invidiava quel loro legame. Altre volte, invece, no.

Tipo in quel momento.

Così come di Rufy era rimasta solamente l’ombra del ragazzo che tutti loro avevano imparato a conoscere e rispettare, Zoro sembrava essere regredito allo stato più crudele e diretto della propria natura.

Sanji aveva sempre pensato, nel profondo, che la presenza di Rufy avesse fatto lo stesso lavoro che fa il tempo, su Zoro: lo aveva modellato ed addolcito fino a renderlo una persona sì sempre più forte, ma anche fondamentalmente gentile e premurosa nei confronti degli altri.

Poteva anche cercare di nasconderlo, il marimo, ma era esattamente così. Glielo aveva dimostrato a gran voce a Thriller Bark, quando davanti a Bartolomew Kuma aveva offerto la sua testa in cambio di quella del Capitano.

Ma era sicuro, e questo lo ammetteva con un leggero fastidio causato forse dall’invidia, che lo avrebbe fatto per ognuno di loro se solo si fossero trovati al posto di Rufy.

Perciò poteva solo immaginare – di nuovo poteva fare solo quello – come si poteva sentire da quando, insieme agli altri, aveva visto il proprio capitano tornare da Marineford in quello stato pietoso di continua incoscienza.

Come si doveva sentire una persona che aveva consapevolmente cercato di sacrificare il sogno a cui aveva votato la propria vita, insieme alla vita stessa, per salvare quella del proprio Capitano, quando quello stesso Capitano torna mortalmente ferito da una battaglia in cui era stato, anche se involontariamente, lasciato solo?

Perché sapeva, nell’intimo di sé, che Zoro più di tutti rimpiangeva di non essere stato al fianco di Rufy in quel momento. Che più di tutti incolpava se stesso per non essere stato in grado di rimanere al suo fianco quando poteva, che si sentiva esplodere il cuore di rabbia e frustrazione al pensiero che, se solo ci fosse stato, sarebbe potuta finire diversamente.

Per quel motivo capiva la sua frustrazione, la sua cattiveria, la sua spietatezza nel minacciare le stesse persone che sicuramente avrebbe voluto proteggere.

Lo capiva perché la persona per cui era disposto a sacrificare se stesso giaceva immobile in un letto respirando a malapena. Probabilmente, anche se doleva ammetterlo solo pensandolo, anche più morta che viva.

Sospirò Sanji, chiudendo gli occhi. « Marimo, cerca di... ».

« Taci » ordinò perentorio anche a lui, scoccandogli un’occhiata carica d’astio.

E di dispiacere, tristezza e frustrazione. D’incapacità mista a colpa. Di rabbia e ansia e collera e ira e delusione.

Poteva quasi avvertirle tutte, in quegli occhi.

Sostenne lo sguardo, tentando di infondergli calma. « Zoro... » disse poi, chiamandolo per nome quasi come a volerlo sottolineare « ...non è né il luogo, né il momento » disse poi, cercando in tutti i modi di non mandare a puttane anche la propria, di pazienza.

Si sentiva al limite anche di quella.

Lo spadaccino, nonostante non variò per nulla lo sguardo con cui lo stava trapassando, rinfoderò la Kitetsu e tornò a chiudere gli occhi, l’espressione seria e le mani appoggiate sulle spade tenute in grembo.

Probabilmente, pensò il biondo osservandolo e sospirando silenziosamente, si stava concentrando per sentire a sua volta il respiro di Rufy. Per tentare di seguirne il ritmo e cogliere, nel silenzio, ogni minimo cambiamento.

In realtà, dentro di sé, anche Zoro, forse, stava piangendo. In un modo diverso dalle lacrime, anche lui si sentiva perso.

Un po’ come lo erano tutti, su quella nave.

All’improvviso, sentì di non farcela più.

« Vado a preparare qualcosa di caldo... » si lasciò sfuggire in un sussurro, alzandosi e dirigendosi verso la porta.

Nessuno fiatò alla sua uscita e una volta che l’aria fresca gli colpì il volto, si sentì quasi mancare. Il cielo, plumbeo e coperto di nubi spesse, minacciava pioggia.

Si sentiva già l’odore nell’aria.

 

§§§§§§

 

Rufy?

Qualcuno lo stava chiamando. Da un punto non identificato in quel buio, qualcuno stava pronunciando il suo nome.

« Rufy? » ripeté quella voce.

Disturbato, arricciò il naso ed aggrottò le sopracciglia. Solo quando essa si fece più insistente, decise di aprire gli occhi.

« Rufy, sveglia. Siamo quasi arrivati ».

Una volta che ebbe messo a fuoco il vagone, si rese conto di essersi addormentato sulla strada di casa.

Accanto a lui, suo fratello Ace era invece completamente sveglio e si apprestava a riporre nella tracolla il lettore mp3 e le cuffie bianche, arrotolandone il filo sulla mano.

Con un sonoro sbadiglio, si stiracchiò. « Ho dormito molto? » domandò con voce strascicata di sonno.

« Per tutto il viaggio » rispose piccato Ace, osservandolo di sbieco: « mi dici come fai a dormire in treno se, come dici, praticamente ti dormi anche tutte le lezioni a scuola? » domandò poi, un sopracciglio alzato nella più pura espressione di incredulità mista a rassegnazione.

Rufy gonfiò le guance, offeso. « Parla quello che sta sempre sul tetto a cazzeggiare » ribatté.

Ace, a quell’appunto, sorrise sornione. « Io sono all’ultimo anno, me lo posso permettere. Sei tu la matricola, caro fratellino » disse, appoggiandogli una mano sulla testa e spettinandolo vivacemente, attirandosi alcuni insulti scherzosi da parte del più piccolo.

Lui ed Ace frequentavano rispettivamente il primo e l’ultimo anno alla scuola superiore pubblica della città di Goa. Abitando parecchio fuori città, però, ogni mattina dovevano scendere al villaggio di Foosha in bicicletta, da lì prendere il treno e poi dirigersi a Goa.

Non si poteva dire che fossero studenti diligenti e brillanti, ma questo non era mai fatto la differenza per nessuno dei due. Avevano ambizioni che andavano oltre lo studio, e praticamente frequentavano la scuola per pura insistenza del nonno, che aveva detto letteralmente di “non volere nipoti asini in famiglia”.

Speranza vana, secondo molti dei loro professori, ma Monkey D. Garp era un Vice Ammiraglio della Marina Militare, dunque la promozione era come minimo assicurata. Nessun motivo per impegnarsi, in definitiva.

« Siamo in arrivo a Foosha. Prossima stazione: Foosha » disse l’altoparlante del vagone: « i passeggeri sono pregati di non dimenticare bagagli o altri effetti personali sul treno. Uscita sul lato destro ».

« Non ti dimenticare la testa, Rufy » ironizzò di nuovo Ace sulla falsariga dell’annuncio, mettendosi a tracolla la borsa e avviandosi verso l’uscita. Il minore, lamentandosi sonoramente per l’ennesima angheria gratuita, si infilò lo zaino sulle spalle e lo seguì a ruota.

Non si poteva dire che i fratelli D. – soprannome che gli avevano affibbiato a scuola – vestissero secondo la tradizione dell’istituto: il minore non portava le scarpe, preferendo ad esse un paio di infradito, mentre il maggiore aveva l’abitudine discutibile di portare la camicia aperta su magliette colorate di vario tipo. Per entrambi, cravatta inesistente. Le giacche delle divise venivano evitate come la peste anche con un metro di neve e i pinguini per strada.

Una persona normale avrebbe, a quel punto, messo in discussione le abilità di educazione del Vice Ammiraglio Garp, ma praticamente tutti erano a conoscenza del fatto che quella famiglia fosse tutta particolare e un po’ fuori dal comune. Questo era uno dei motivi per cui, anche se Rufy ed Ace dicevano di essere fratelli, la gente non si lamentava con loro del fatto che in realtà non lo fossero. Si consideravano tali, e i cognomi diversi – Monkey D. e Portoguese D. – non erano significativi per impedire loro di esserlo, per davvero o solo a parole.

Dopotutto, nonostante il vero nipote di Garp fosse solo il minore, i due erano cresciuti insieme. E anzi, di nipoti acquisiti Garp ne aveva bensì due, facendo un totale di tre adolescenti scatenati a cui dover insegnare a vivere.

Il treno frenò con dolcezza, facendo scendere gli esigui passeggeri alla stazione per poi ripartire sferragliando. Dirigendosi a passo strascicato verso l’unica panchina della banchina, Ace e Rufy vi si sedettero sopra di peso, fissando uno il cielo e l’altro il campo di erba medica davanti a loro.

Quella di Foosha era una stazione sperduta in mezzo al nulla, su questo non si poteva discutere.

« A che ora arriva oggi Sabo? » chiese quindi Rufy, incapace per natura di starsene buono ed in silenzio.

Ace adocchiò l’orologio da polso. « Aveva detto che prendeva il treno dopo il nostro, dunque dovrebbe essere qui fra una ventina di minuti » disse.

Sabo, il terzo fratello – lui però era senza D. – aveva la stessa età di Ace e frequentava un istituto privato. Pagavano i suoi genitori per quella scuola, quelli veri, anche se Sabo da casa era fuggito con l’intenzione di non tornare mai più. Si era trovato a casa dei fratelli D poco dopo l’arrivo di Rufy e Garp, sotto le insistenti pressioni dei nipoti, era riuscito a convincere i genitori del ragazzo a farlo vivere da Dadan – la persona che si prendeva cura delle tre piccole pesti – insieme allo stesso Rufy e ad Ace.

Non correva buon sangue fra Sabo e la sua famiglia. Il suo fratellastro era l’emblema di tutto ciò che meritasse di essere preso a calci nei denti e i suoi genitori erano tutt’altro che gentili e disponibili. Erano persone snob e con la puzza sotto il naso, motivo per cui Rufy era veramente felice che Sabo fosse rimasto da loro e fosse diventato il suo secondo fratello maggiore.

Sbuffando sonoramente, il minore gettò la testa all’indietro. « Sono troppi, Aceeeeeee! » si lamentò, stufo di stare ad aspettare dopo solo due minuti.

« Se ti annoi così tanto vai a piedi » ribatté il maggiore.

Rufy sbuffò sonoramente. « Ma perché non può prendere il nostro treno? » domandò poi.

Ace ringhiò quasi. « Come ti ho già detto altre tremila volte – picchettò – prende quello dopo perché la sua scuola è più lontana della nostra dalla stazione » sputò con un principio di seccatura imminente.

« Ma perchéééééé?! ».

« Senti, lo vuoi andare a chiedere a chi l’ha costruita, quella maledetta scuola?! » sbottò infine il maggiore, fissando in cagnesco il fratello minore restituirgli il medesimo sguardo.

Incavolati l’uno con l’altro, finalmente, Rufy rimase in silenzio.

Fu solo quando Ace estrasse dalla cartella un cappello di paglia, che l’attenzione di Rufy tornò a posarsi sul fratello maggiore. Quel cappello...

« Dove l’hai preso quel cappello? » chiese il ragazzo, fissando accigliato la paglietta.

Aveva un’aria... fin troppo... famigliare. Non sapeva come definirlo a parole.

Quel sentore di nostalgia, di importanza, di simbolismo. Di vita.

L’aroma di una promessa che profumava d’acqua di mare.

« Eh? Questo? » chiese Ace, alzando gli occhi verso la tesa del cappello, ormai posizionato sulla propria testa a ripararlo dai raggi del sole pomeridiano: « hai detto tu che potevo averlo, no? Ti ho chiesto se ti serviva e tu mi hai risposto di no » disse, incrociando le braccia dietro la nuca e chiudendo gli occhi.

In quel momento, proveniente da chissà dove, una folata di vento si alzò lieve.

E nonostante ci fosse il sole, portava con sé odore di pioggia.

Rufy lo sentì distintamente.

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: Yoko Hogawa