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Autore: visbs88    30/11/2011    2 recensioni
[…]Odiai me stessa, in quel momento. Mi odiai per non essere riuscita a confortare Teresa, o almeno era ciò che pensavo. Se non aveva voluto tenermi al suo fianco, era stata solo colpa mia. Non ero stata in grado di scaldare il suo cuore e il suo sorriso, non ero stata capace di diventare per Teresa quello che lei era per me: una vita nuova, un conforto, una salvezza. Ero debole, ero insignificante, ero un intralcio nella vita di una guerriera sterminatrice di demoni. Non ero utile, e nemmeno la allietavo con la mia presenza. Se fossi stata necessaria per lei, non mi avrebbe lasciata. Invece ero lì, di fronte ad un piatto dall’odore invitante, e piangevo pensando a cosa sarebbe stata la mia vita.[…]
Missing Moment introspettiva ambientata nel quarto volume del manga; i pensieri di Clare da quando Teresa l’abbandona fino al suo risveglio tra le braccia della guerriera.
[!Contenuti Forti, !Violenza]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Claire, Teresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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LOST

 
Titolo: Lost.
Introduzione: […]Odiai me stessa, in quel momento. Mi odiai per non essere riuscita a confortare Teresa, o almeno era ciò che pensavo. Se non aveva voluto tenermi al suo fianco, era stata solo colpa mia. Non ero stata in grado di scaldare il suo cuore e il suo sorriso, non ero stata capace di diventare per Teresa quello che lei era per me: una vita nuova, un conforto, una salvezza. Ero debole, ero insignificante, ero un intralcio nella vita di una guerriera sterminatrice di demoni. Non ero utile, e nemmeno la allietavo con la mia presenza. Se fossi stata necessaria per lei, non mi avrebbe lasciata. Invece ero lì, di fronte ad un piatto dall’odore invitante, e piangevo pensando a cosa sarebbe stata la mia vita.[…]
Missing Moment introspettiva ambientata nel quarto volume del manga; i pensieri di Clare da quando Teresa l’abbandona fino al suo risveglio tra le braccia della guerriera.
Personaggi: Clare, Teresa del Sorriso.
Rating: Arancione/16+ (più che altro per una determinata scena).
Generi: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Avvertimenti: Contenuti forti, Missing Moment, One-shot, Violenza.
Pairing: Nessuno.
Numero parole (Contatore Word): 2.387.
Disclaimer: i personaggi non sono miei, ma dell’autore del manga Norihiro Yagi. Non scrivo a scopo di lucro, ma per puro divertimento personale. Occorre il mio permesso per citare pezzi della storia, tradurla, riprodurla altrove o trarne ispirazione.
 

Buona lettura.
 
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Fissai il piatto di fronte a me. Una lacrima scese lungo la mia guancia. Dovevano essere squisite, quelle verdure. Ma avevo lo stomaco chiuso. E se anche le avessi assaggiate, ero certa che non avrei sentito alcun sapore, né piacevole né disgustoso. Era semplicemente troppo il dolore che pesava nel mio petto, troppo per farmi pensare che avrei potuto vivere così.
Mi stava venendo offerta la più meravigliosa opportunità a cui avrei potuto ambire. Una vita serena in una cittadina tranquilla e allegra, accudita da persone gentili che mi avrebbero preparato pasti caldi e offerto un letto comodo in cui dormire. Amore e umanità, semplice umanità.
Sapevo che avrei dovuto essere felice, che il destino mi aveva dato questa possibilità e che avrei dovuto accoglierla con gioia, dopo aver perso i miei genitori e mio fratello. La vita umana mi era già stata strappata una volta, e ora mi veniva restituita. Nel mondo in cui viviamo questo non accade quasi mai, e chiunque avrebbe pensato che io non potessi desiderare altro. Ma quel chiunque avrebbe sbagliato. Ciò che il mio cuore voleva, ormai, non era più tutto quello.
La buona donna che mi aveva accolto mi sorrise.
- Su, mangia, cara, sembri molto affaticata. Sarai stanca per aver viaggiato tanto a lungo…
Scoppiai in lacrime. Viaggiare, faticare, percorrere le strade impervie delle montagne e inciampare nelle radici dei sentieri nelle foreste, riempirmi di lividi e graffi, il mio cuore non desiderava altro che questo. Dormire al freddo, mangiare frutti e bacche selvatiche, vivere tutte le scomodità di una vita dai ritmi inumani: camminare giorni interi riposando raramente, non avere coperte con cui coprirsi.
Inumano. Il mio desiderio stesso lo era, contrariamente ad ogni consuetudine che spinge l’uomo a cercare un ambiente confortevole e serenità. Ma in quel modo inumano avrei vissuto in eterno, se ciò mi fosse stato concesso. Ce l’avrei fatta, avrei resistito solo per poter confortare ancora lei, se ne avesse avuto bisogno.
Teresa mi aveva abbandonata. Non provavo nessun odio nei suoi confronti. Come avrei potuto odiare una persona che già aveva sofferto così tanto, e che era stata tanto importante per me? Ero stata vittima dell’odio e della paura degli umani per colpa dello Yoma che mi aveva condotta con sé. E dopo tanta sofferenza ero stata così sicura di aver finalmente trovato la felicità, quella vera, quel conforto che in fondo solo qualcuno che prova la tua medesima sofferenza può darti. La donna mi guardava preoccupata, ma non capiva. Cercava di essere cordiale e sorridente, di alleviare il mio dolore, ma non poteva. Il motivo non era la mancanza di bontà d’animo o di buona volontà: semplicemente, non aveva mai provato quella morsa sul cuore da cui ero attanagliata. Teresa sì.
Odiai me stessa, in quel momento. Mi odiai per non essere riuscita a confortare Teresa, o almeno era ciò che pensavo. Se non aveva voluto tenermi al suo fianco, era stata solo colpa mia. Non ero stata in grado di scaldare il suo cuore e il suo sorriso, non ero stata capace di diventare per Teresa quello che lei era per me: una vita nuova, un conforto, una salvezza. Ero debole, ero insignificante, ero un intralcio nella vita di una guerriera sterminatrice di demoni. Non ero utile, e nemmeno la allietavo con la mia presenza. Se fossi stata necessaria per lei, non mi avrebbe lasciata. Invece ero lì, di fronte ad un piatto dall’odore invitante, e piangevo pensando a cosa sarebbe stata la mia vita. Vuota, incolore, umana. Non sarei mai stata compresa e forse sarei stata guardata con timore dagli altri bambini. Si sarebbe ripetuto tutto, e nessuno avrebbe potuto consolarmi, nessuno avrebbe compreso i miei sentimenti. Nessuno umano sarebbe diventato ciò che una mezza Yoma era stata per me.
Riuscii a malapena ad ingoiare qualche boccone. Mi alzai da tavola ed uscii dalla casetta, senza ascoltare la donna che mi chiamava. Non le risposi. Non seppi mai il suo nome.
Le mie gambe si mossero da sole. Percorsi qualche piccola stradina pittoresca, senza ammirare il cielo azzurro, né il sole splendente, né il fascino di quel paesino di montagna. Arrivai ad una piazzetta, poco più piccola di quella in cui Teresa aveva ucciso lo Yoma.
Teresa era stata lì, e se n’era andata.
I miei occhi bruciavano per aver pianto troppo in quei giorni. Li tenevo aperti a stento. Vedevo un gruppetto di cinque, sei bambini giocare con una palla. Delle ragazzine, più distanti, che si divertivano con delle bambole molto graziose. Sarebbe stato ciò a cui avrei dovuto assistere ogni giorno, per lunghe settimane, per anni, crescendo in quel luogo pieno di allegria e pace. E ogni volta che sarei andata nell’altra piazza, avrei ricordato il cadavere di uno Yoma ucciso con un solo fendente di Claymore da una guerriera dai lunghi capelli ondulati. Mi sarei rivista spogliarmi dei miei bei vestiti, avrei provato lo stesso dolore di quando avevo abbracciato Teresa per l’ultima volta. Era quello ciò che mi attendeva. Un animo martoriato come il mio non poteva sperare di avere pace.
Mi sedetti sui gradini di una piccola fontanella. Mi rannicchiai su me stessa, lo sguardo perso nel vuoto. Senza nemmeno accorgermene, ricominciai a piangere silenziosamente. Era tutto ciò che potevo fare, e mi odiai ancora di più: non potevo reagire con forza alla mia sofferenza, riuscivo solo ad annegare nella mia tristezza. Ripensai ad ogni istante vissuto a fianco di Teresa. Li rividi tutti, uno ad uno, nitidi davanti ai miei occhi: da quando mi aveva colpita con un calcio, a quando aveva minacciato di uccidermi; da quando aveva indovinato il mio nome, fino alla sera in cui mi aveva abbracciata piangendo. Lei non era debole come me, ma in quel momento aveva pianto, ed ero stata sicura di essere riuscita a farle capire ciò che mi legava a lei. Mi resi conto che forse ero riuscita a fare qualcosa, ma non abbastanza. Ferire un nemico non è come ucciderlo; far sorridere una persona non significa farla ridere; far piangere degli occhi d’argento non era sufficiente per entrare nel cuore distrutto di una donna sofferente.
Non ci misi poco, a rivedere quei giorni nella mia mente. So che passarono lentamente i minuti e le ore. E che faceva sempre più male. Ad un certo punto vennero da me le bambine con le bambole, sorridenti e allegre, e mi domandarono se volessi giocare con loro. Scossi la testa continuando a piangere. Bambole, giocattoli, felicità, infanzia: da quanto tempo quelle parole erano scomparse dal mio cuore? Mi sentivo troppo adulta per godermi la vita e ridere, per legare con altre ragazzine della mia età, per essere come tutti gli altri. Avevo sofferto troppo e avevo perso l’occasione di vivere a fianco a qualcuno che mi capisse davvero. Ma mi sentivo troppo debole e sciocca per combattere come qualsiasi persona matura e coraggiosa avrebbe dovuto fare.
Non avrei mai pensato di poter detestare me stessa così tanto per i miei errori, per la mia natura. Piangevo ancora, quando sul calare della sera mi avviai a “casa”. Stentavo a chiamarla così, poiché non rappresentava affatto quello che io avevo sempre inteso come casa. La mia vera casa era lo spazio che avevo condiviso con Teresa, sentirmi a casa era stare al suo fianco: un luogo in cui ero protetta, un luogo da cui non sarei mai voluta andarmene. Nemmeno un vero luogo, perché non era un tetto sotto cui stare, non era una stanza, era semplicemente il terreno su cui camminavo e su cui camminava lei.
Passo dopo passo, pensando a tutto ciò, stavo per arrivare alla piccola abitazione. Udii un grido.
In quel momento, l’ennesimo inferno ebbe inizio per me. Ripensandoci ora, mi sembra impossibile che degli esseri umani abbiano potuto essere così rapidi a seminare il terrore.
I briganti. Quegli stessi briganti che avevano tentato di assalire me e Teresa nel bosco. Doveva esserci anche quello senza una mano, pensai. E subito il terrore mi invase.
Teresa non c’era, non c’era più, e io guardavo il fuoco iniziare a divampare. Nascondendomi dietro ad una botte, pregando di non venire scoperta, vidi i banditi sfondare la porta della casa della donna che mi aveva ospitata. Sentii le sue grida, poi non udii più la sua voce. I banditi uscirono, due parvero volersi incamminare verso il mio nascondiglio. A quel punto ebbi paura, e iniziai a correre come tutti nel paese. Donne e bambini urlavano e piangevano fuggendo e cercando rifugio nelle viuzze più anguste e nascoste. Non avevo mai visto così tanti cadaveri, così tanto sangue per le strade di quella che prima era stata una cittadina ridente. Pensai alle bambine con le bambole, ai ragazzini che giocavano a palla: che ne era stato di loro? Una profonda angoscia riempiva il mio cuore, ma mi sforzai di non urlare. Non dovevo attirare l’attenzione, pensavo disperata. Dovevo solo correre e trovare un rifugio.
Il fumo offuscava il cielo, ormai. La città sarebbe stata rasa al suolo, le donne rapite, ogni piccola ricchezza portata via. Ma io dovevo solo proteggere la mia vita. Ero sola. Teresa non mi avrebbe salvata, non sarebbe tornata in quella cittadina, non sarebbe arrivata in mio soccorso. Dovevo cavarmela da sola. Non potevo più permettermi atti di coraggio, gesti da eroina: mi mancava quella determinazione che mi aveva spinto a colpire con un bastone il brigante nel bosco, perché Teresa non c’era più e non avevo più forza. Non la odiai per ciò che stava succedendo. Non la accusai di nulla, perché non aveva colpe. Non pensai neppure per un istante che lei mi avesse condannata a morte: era colpa mia, solo colpa mia. Io non ero stata abbastanza forte per seguirla, non ero stata sufficiente per scaldare il suo cuore, e ora ne pagavo il prezzo. Forse sarei sopravvissuta, cercavo di dirmi. E dopo, dove sarei andata? Perché anche quel mondo doveva essere distrutto? Non era il mio mondo, ma mi sarei dovuta adattare a viverci e sarebbe stato almeno un posto in cui vivere. Il destino aveva deciso di togliermi anche quello.
Mi fermai in un vicolo. Ormai le mie gambe non mi reggevano quasi più. Avevo il fiatone, il fumo mi faceva tossire, il mio cervello non riusciva più a sopportare di sentire le urla delle persone massacrate, le risate dei briganti, il rumori di vetri infranti e di esplosioni. Non ne potevo semplicemente più, mi dissi. Volevo stare lì finché tutto non fosse finito. Stare lì a guardare un mondo devastato dalla violenza degli umani. Le Claymore non avrebbero mai compiuto un massacro simile. Loro, i mostri così temuti, non si sarebbero mai abbandonate ad una tale violenza.
Volevo solo vedere gli occhi d’argento di Teresa e il suo sorriso. Volevo chiudere gli occhi, riaprirli e scoprire che era tutto un sogno.
Sentii dei passi dietro di me. Mi voltai.
Provai terrore. L’agghiacciante morsa della terrore, ancora più gelida di quella della paura, mi strinse fra le sue braccia, mentre quasi non badavo al volto dell’uomo, al suo sorriso crudele, bensì soffermavo il mio sguardo sul suo moncherino sanguinante.
Mi aveva trovata, alla fine. Lo disse anche lui. Pronunciò qualche frase che io non capii, perché avevo paura. E la paura mi bloccò le gambe, mi mozzò il fiato, non mi permise di scappare mentre lui si avvicinava. E anche se ci avessi provato, mi avrebbe presa.
Mi afferrò per i capelli, sbatté la mia testa contro il muro del vicolo. Lanciai un grido. Sentii qualcosa di caldo scorrere tra i miei capelli, prima di venire gettata a terra. E poi calci, solo calci. Tanti, troppi, uno dopo l’altro, mentre lui mi insultava e rideva.
Io gridavo. All’inizio non sapevo nemmeno cosa, gridavo e basta. Quando mi resi conto di star invocando il nome di Teresa, sentii di voler morire. Urlavo e lei non arrivava. La chiamavo, mi aggrappavo all’unica speranza che il mio cuore coltivava nel suo profondo e lei non correva a salvarmi. Ero troppo debole per lei. Teresa non sarebbe arrivata mai, e non avrebbe ucciso il bandito. Il dolore fisico scemò a poco a poco, mentre il mio corpo cominciava ad intorpidirsi. Vedevo solo il rosso del fuoco e del sangue, piangevo e la chiamavo. Sapevo che non l’avrei mai più rivista, ma non volevo abbandonare quella debole speranza. Sarei morta gridando il suo nome, sarei morta aggrappandomi a tutto ciò che mi rimaneva, al ricordo di due occhi d’argento e di un pallido sorriso triste. Fu con quell’immagine che balenava di fronte ai miei occhi che svenni.
 
Quando mi svegliai c’era silenzio. Qualcuno mi teneva tra le proprie braccia delicatamente. Non pensai di essere morta, perché il dolore fisico che provavo era troppo grande. Avevo male alla testa, sentivo gocce di sangue sul mio viso e mi sentivo completamente indolenzita. Ero ancora fin troppo viva.
Vidi il suo volto. Non avrei mai potuto confondere i suoi lineamenti, i suoi capelli, i suoi occhi, nemmeno in mezzo a mille altre persone.
Era arrivata, alla fine.
Dimenticai tutto, per un istante. Il sangue, i briganti, i calci, la sofferenza. Era semplicemente finito e lo sapevo bene. Non mi occorse guardarmi intorno per capire che cosa avesse fatto Teresa. Lo leggevo nel suo sguardo. Aveva ucciso esseri umani, non riusciva a nascondere una lieve ansia nel suo sguardo. Forse era più preoccupata per il mio destino che per la sua stessa vita. Ma in quei secondi, in quei lunghi secondi, provai un senso di profonda pace.
Alla fine era tornata, e tutto l’odio che avevo provato verso me stessa si era annullato. Avevo sbagliato, semplicemente. Lei mi voleva bene, lei era corsa in mio aiuto pur avendomi detto addio. Non ero insignificante, non mi odiava, lei avrebbe dato la vita per me. In quei momenti, mi venne da sorridere, perché ero felice. Felice di essere viva tra le sue braccia, felice di contare qualcosa per lei.
Presto la verità si sarebbe abbattuta su di me. Presto avrei realizzato che l’avrei persa per sempre, e solo a causa mia. Presto lei sarebbe morta e io sarei di nuovo caduta nella disperazione. Presto avrei dovuto assistere alla sua esecuzione, presto avrei perso di nuovo tutto. Ma posso dire che mentre sussurravo il suo nome, ero felice.
- Ti sei svegliata, Clare.
- Teresa…
In quell’attimo, io sono stata davvero, davvero felice.
 
 
 

Spazio autrice:
Chi l’avrebbe mai detto che l’anime in italiano mi avrebbe fatta fangirlare al punto da farmi scrivere questa shot? È stato davvero fantastico vedere Teresa in tutta la sua magnificenza sullo schermo della mia televisione, il doppiaggio è venuto bene –tralasciando alcune frasi poco evocative– e l’ispirazione è partita in quarta. Cioè, non sono soddisfattissima di questa Missing Moment, la trovo un po’ noiosa e piatta sul finale, ma almeno ho sfogato la mia voglia di buttare giù qualcosa di ambientato tra le puntate cinque e sei dell’anime. Ve lo consiglio caldamente XD non mi pare di avere nulla da aggiungere. Mi rivedrete, questo è poco ma sicuro… *risata malvagia*
Un bacio, visbs88 =)
   
 
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