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Autore: Natalja_Aljona    02/12/2011    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Centoventotto

Che non gli manchi il respiro, che non gli manchi mai


Sono io, oppure sei tu

La donna che ha lottato tanto

Perché il brillare naturale dei suoi occhi

Non lo scambiassero per pianto?

(Canzone Popolare, Ivano Fossati)


Ossario.

Sorrise fino a sentirsi spezzare il cuore, Natal'ja.

Ossario.

Era lì, Nikolaj.


-Non fermarti, non fermarti, Nataljetshka!-

Era assurdo, Natal'ja se lo stava ripetendo da tempo, ma poi, puntualmente, scoppiava a ridere e non se ne curava.

-Ha svoltato! L'hai vista, no? Ha svoltato!-

Nikolaj l'acchiappò per un braccio, le fece segno di guardarlo.

I capelli biondi sconvolti per la corsa, gli occhi straordinariamente cristallini, scintillanti e un poco emozionati.

L'abbigliamento modesto, da ragazzino dei vicoli, ma relativamente in ordine.

Gli stivali alti che affondavano nella neve di Berlino e quella manciata di parole di tedesco che conosceva gridate con l'accento polacco che non l'avrebbe mai abbandonato.

Era bello, Nikolen'ka.

Aveva compiuto diciassette anni da poco, ed era bello, bello davvero.

-Miss Elssler! Miss Elssler, fermatevi!-

Fu un attimo.

La ballerina austriaca si voltò, e il ragazzo rimase per un attimo a contemplarne i capelli raccolti, gli occhi scuri e sgranati dallo stupore, prima di lanciarsi a baciarle la mano.

-Miss Elssler, grazie al cielo!-

-Rialzatevi, Messere- sussurrò la giovinetta, intimidita.

-Mi chiamo Nikolaj, Nikolaj Vasil'evič, e la piccina chioma di grano e occhi di colibrì è mia cugina. Cugina, non cuginetta, mi raccomando. Lo giuro, è una fata, lei-

Preso dall'entusiasmo, il ragazzo aveva ricominciato a parlare in polacco, infilando una parola dopo l'altra, davanti al sorriso imbarazzato della ballerina.

-Franziska Elssler, Fanny-

-Oh, ma certo! Fanny. Vi trovo meravigliosa, Fanny, sapete? Miss Elssler, abbiate pietà di me. Mi trovi divertente, Nataljetshka? Che sorta di birichina, questo pulcino qua... Non trovate, Miss Elssler?-

-Nikolen'ka... Nikolen'ka!-

Natal'ja s'era messa a battere i piedini sulla neve, tirando per una manica il cugino.

Le labbra della ballerina si mossero ancora una volta, e al suo interlocutore parve sfuggire il cenno di commiato che seguì.

-Avete gradito lo spettacolo di ieri sera? Vi ringrazio-

In quel mentre una carrozza raggiunse rapida la via, fermandosi proprio dinnanzi alla bella austriaca.

-Miss Elssler, salite, prego-

-Miss Elssler! Miss Elssler, Fanny! Non vogliate scherzare, adorata, suvvia... Non vogliate strapparmi il cuore!-

Fanny Elssler accennò un breve inchino, carezzando per alcuni secondi la testolina di Natal'ja.

-Buonasera, Messere. Altrettanto a voi, Madonna-

Il tempo di battere ciglio e già i piedi della fanciulla non toccavano più terra, Nikolaj non la vedeva più.

Il giovane interrogò la bambina con i begli occhi addolorati, facendosi niveo in viso.

Sorrideva, Berlino, ma non più a lui, non più a Nikolen'ka.

-Cosa significa questo, Nataljetshka?-


-Era il 1830, vero? Che forza della natura eri, vita mia! E adesso guarda come custodisce bene quel che fosti, l'Ossario!-


-Mio Dio, quanto ha nevicato, Nataljetshka! Bisognerà apprender bene l'arte delle talpe, per uscir di qui!-

Erano un poco divertiti e un poco apprensivi, gli occhi del giovane Nikolen'ka.

Brillava come di vetro iridescente, la Varsavia dei suoi diciotto anni, oltre il vetro di sogni consumati della sua stanza.

Aveva nevicato proprio tanto, e per rivedere il cielo al di là della porta sarebbe occorso scavare davvero una bella galleria.

Natal'ja sorrideva, appollaiata come un falchetto sul letto del cugino, guardava la neve e quella neve le assomigliava, proprio come Nikolaj al cielo, proprio come i loro sorrisi alle stelle che chissà se avrebbero visto, quella sera.


-E già allora mi mancava il respiro, già allora mi tremavan le mani, nel tenerti stretto!-


-Niko, stasera si cena! Non so come, ma c'è da mangiare, in tavola, ce n'è anche per te... E' caldo, parrebbe. Scendi, te ne prego. Scendi o non mangio nemmeno io, te lo giuro-

-Ludwig, me lo sai dire, tu, quant'è sciocchina Nataljetshka?-

Natal'ja sgranò gli occhi, cercando di scorgere l'interlocutore del cugino.

Un gatto.

Un gatto grassottello e rossiccio, che faceva compagnia al pianista polacco sdraiato sul tetto innevato.

Ludwig, come Beethoven.

"E Van?", si chiese Natal'ja.

Sorrise, sorrise davvero, sorrise fino a sentir male eppure non smise, rimase a guardarlo, sorridere e scuotere la testa.

Con che sorta di stravagante ragazzino aveva a che fare, e che fortuna aveva, ad averlo tanto vicino!

-Nataljetshka, passa a chiamare Zbigniew. Invitalo a cena, che a lui il cibo caldo non fa mica schifo, e non è che mangi tutti i giorni. Al massimo mangio di meno io, che vuoi che m'importi? Chiedigli se ha scritto qualche nuova poesia, chiedigli di dedicarla a te!-

-Ma Niko, se non vuole...-

-E chi non vuole, Natal'ja mia?-

Diciannove anni e mille sogni, mille sogni in quella sua Varsavia, tra le mani di sua cugina.


-Dio se ti volevo bene, Nikolen'ka! E c'erano le poesie di Zbigniew, tu che suonavi e i tuoi sorrisi, quella sera... Lui ringraziava e ringraziava, e alla fine me l'ha dedicata per davvero, una poesia! Così bella che tu eri un poco geloso, perché il sorriso che gli ho fatto, dicevi, valeva mille versi di più. Che importava, Nikolen'ka?

E' stata così bella, quella sera-

-Qualsiasi cosa succeda, in qualsiasi posto ti portino, qualsiasi cosa ti dicano, qualsiasi dolore tu senta, non avere paura, vita mia. Io non sono un eroe, ma la pagheranno cara-

Poi, il marchio di fuoco.

Ne aveva, di paura, Nataljetshka!

Ma guai a lei se si fosse tradita.

No, come poteva essere possibile?

Non aveva paura, lei.

Era sua cugina, era la cugina di Nikolen'ka!

Le voleva bene, lui.

Non l'avrebbe mai lasciata, non l'avrebbe lasciata lì...

Non un giorno di più, non a morire per un giorno di più!

Ma Dio se faceva male, il marchio di fuoco.

1482, cosa significava?

Si chiamava Natal'ja, lei.


-Ma quanto t'ho aspettato, Nikolen'ka? E quanto m'ha fatto male non vederti e vederti nei sogni, mi facevi paura, Nikolen'ka... Non ci siamo più tornati, a Varsavia, a scavar gallerie per uscire di casa. A Krasnojarsk non volevi aiutarmi, non volevi neanche uscire, tu. Non me la sono mai presa, sai? Eri stanco, sono stata stanca anch'io. Ma poi... Poi la stanchezza finisce. Tu sei finito e basta-


-Natal'ja, stai attenta, lo devi nascondere! Non capisci che se lo vedono, se lo vedono... Sei condannata, è la fine, Nataljetshka. T'ho detto di non aver paura e ne avevo più di te, ma come ho potuto, Nataljetshka?

Perché non sono venuto con te?

Questo è troppo, vita mia, da questo non ci si difende... Non è più vita, Nataljetshka. Questo marchio ti farà male fino all'ultimo dei giorni, tu curavi le mie cicatrici ma a quelle bastava il tempo, a questi numeri, a quest'oltraggio, neanche la vita... Ma abbracciami, adesso, Nataljetshka. Lo troveremo comunque, un senso.

Ce lo inventeremo-


-Eppure non ti ho creduto, Nikolen'ka. Quella volta no, quella volta per quello che avevo perso non ti avrei perdonato.

Avevi paura di quei numeri, non potevi più sfiorarmi la mano, il polso ferito, la pelle incisa e strappata dal fuoco, non ne avevi la forza, Nikolen'ka.

Eri tu a farmi paura, a farmi sentire male. Non dormivo, non mi ritrovavo, mi svegliavo e lo sapevo, in quei momenti, che non riuscivi più a guardarmi, che avevi paura di me. Non ti riconoscevo, tu non c'eri più.

Ero diventata come tuo padre, il tuo incubo, non ti facevi più raggiungere, non potevi raggiungere me.

Eri debole, Nikolen'ka, eri un bambino, mi guardavi col terrore di non ritrovarmi più.

Ma ero io, la bambina, ero io, a non sapere cosa chiederti, e tu non c'eri, tu non ci sei stato mai...

In prigione c'erano i tuoi occhi, ma la tua mano, se cercavo di stringerla diventava aria, diventava cenere, diventava lacrime...

Nikolaj, cosa ti ho fatto, cosa ti ho fatto, io? Quando ti ho fatto male perché non mi hai tirato uno schiaffo, perché non me l'hai detto?

Perché mi guardavi così, perché prima avevi il cielo negli occhi e da quando sono tornata solo il fumo?

Perché non mi hai permesso di difenderti, perché non mi hai difesa, quando mi hanno portata in quella cella?

Avevo paura quanto te, ma io lo sguardo di Zarkhov l'ho sentito addosso, io del metallo sulla pelle porto ancora il segno!

Perché hai lasciato a loro la mia infanzia e i nostri sogni, perché non hai mai lottato, perché mi hai lasciata andare con il sole nelle mani e il pianto negli occhi, perché non sei mai stato capace di dir la verità?-



Io vorrei

Fare a pezzi il ricordo di un treno

I tuoi treni

E quell'uomo che vedi e che tremi

Io vorrei

Ammazzarlo per farti tornare

Sulle scale

Con la voglia di ricominciare

Hai ragione, forse sono solo

Ho comprato il cielo ma non volo

Sono piccolo come un bambino

Puoi tenermi tutto in una mano

(Vorrei, Roberto Vecchioni)


Per la prima volta le faceva paura, il cimitero.

Non si fidava più così tanto di quel suo cugino, se lui l'avesse chiamata in quel momento non avrebbe avuto il coraggio di andare con lui.

Ora più che mai lo sentiva, lo capiva, quanto fosse stata malsana l'esistenza di quel ragazzo, attaccata ai ricordi, legata alle catene.

Neanche il Nikolaj dei primi anni a Varsavia riusciva a farla sorridere, neanche quello che suonava le mancava più.

Aveva paura, una paura folle, feroce, Natal'ja.

-Non ci vedremo più, davvero, Nikolen'ka. Non mi hai mai voluto bene, tu. E se me ne hai voluto è stato solo una prigione più grande di quella in cui sei nato, quell'affetto. Non ci vedremo più, te lo prometto. Nikolaj, basta così. Non hai il diritto di far morire anche me-


Corse via, Natal'ja.

Corse via e non piangeva, un brandello di cuore non l'aveva più, una stella forse l'aveva persa, ma era libera, libera davvero.

Un po' di vuoto e poi una luce più intensa, era tutto più vero, adesso!

Che mondo di carta, che mondo di cera, che grande illusione, il mondo di Nikolaj!

Mai più, mai più, mai più, l'aveva giurato.

Sarebbe andata da George, l'avrebbe sposato, l'avrebbe pure seguito in Grecia, quel matto!

Lui era vivo, lui l'avrebbe amata fino a perdere il cuore, lui le sue stelle le chiamava per nome!

E conosceva il suo nome e non temeva i suoi numeri, non aveva paura, paura di vivere!

E Feri, Feri aveva il suo modo di spaccare il mondo, Feri avrebbe fermato il suo treno, quel giorno, a poterlo fare, non avrebbe lasciato vincere Nikolaj e gli uomini del carcere sulla sua vita!

E suo padre, sua madre, Akakij e Clitemnestra, i nonni, i forradalmi e Tìa, la sua famiglia, quella vera!

La sua famiglia e il mondo che avrebbe pregato di non deludere.

Ma quanto s'era sentita persa, ad amare quel Nikolaj, e quante volte aveva perso, perso convinta d'aver sbagliato per prima, d'aver sbagliato da sola!

Non era vero, non era vero.

Non era Vasilij Zirovskij il mostro, Vasilij era come lei!

Tra il ricordo e la vita c'era un ponte da saltare, non era più un sogno, ma quella vita di sogni sarebbe valsa a qualcosa, perché sapeva solo vivere, lei.


Bella, d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria

Quasi triste, come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria

Il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere

Che tracciavo con un dito dentro ai cerchi del bicchiere

(Autogrill, Francesco Guccini)




Note


Che non gli manchi il respiro, che non gli manchi mai: Quel respiro, la vita, Riccardo Cocciante.


Lo pubblico di volata, questo capitolo, perché domani potrei non farlo, domani potrei fare un passo indietro.

Non ci riesco, non ci riesco, a spiegarlo.

Le elezioni dei forradalmi saranno nel prossimo, Sic Volvere Parcas tornerà nel prossimo.

Ringrazio Francesca, a cui non riesco a rispondere, non adesso, ma è sempre fantastica, davvero.

Tu lo adori, lo so, Nikolaj, ma stavolta, te lo giuro, mi ha fatto paura, scriverne.

Non l'avrei mai immaginato, davvero.

Cerca di capirla, Alja, cerca di capire me.


A presto,

Marty

  
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