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Autore: moccy    24/07/2006    3 recensioni
"Din don campanon, quattro vecchie sul balcon, una che fila, una che taglia, una che fa cappelli di paglia, una che fa coltelli d'argento, per tagliar la testa al vento..." Questa storia è stata scritta dalla mia carissima amica MisFortune per un concorso!È lontanissima dal mio stile (infatti è molto bella) e vale davvero la pena di essere letta!Ogni commento sarà da me recapitato alla somma autrice che non ha l'email (e se l'avesse non la saprebbe usare) e quindi non ha un suo accont!
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Filastrocca

UNE HISTOIRE DE VENT

 

Din don

Campanon

4 vecchie sul balcon,

una che fila,

una che taglia,

una che fa cappelli di paglia,

una che fa coltelli d’argento

per tagliare la testa al vento!

 

(Filastrocca popolare italiana)

 

C’erano una volta e una volta c’erano quattro vecchie raccolte in un circolo ingiurioso, che compivano con solerzia le loro mansioni, abbracciate dal ramato sole del pomeriggio che faceva brillare gli sbrecciati denti persi dagli infanti che costituivano i muri della loro dimora. La decrepitezza ottusa e palese di quelle donne denunciava il loro sconfortante crimine di voler ancora abbracciarsi con aggressività alla vita. Erano troppo anziane per non sgretolarsi…le rughe le rendevano così simili fra loro da farle apparire gemelle. I loro visi scarni e concentrati avevano gli zigomi che ormai bucavano la pelle ruvida come pergamena tanto erano sporgenti. La bocca dalla labbra sottili come aghi si annullava sotto le pieghe profonde della cute, che formava mirabolanti panneggi che su una veste sarebbero stati definiti aggraziati, ma su un viso rappresentavano solo un degrado che rasenta la putrefazione. I loro nasi adunchi e ossuti dalle narici frementi dividevano con arroganza gli occhi sporgenti e affaticati, orlati da solchi troppo profondi per essere levigati e dalle sopracciglia ormai scomparse sotto le rughe delle loro fronti corrugate dai pensieri. L’attaccatura eccessivamente alta dei radi capelli color delle code di topo era quasi nascosta dal velo che si erano posate sul capo, candido come quello di una sposa. Nonostante esso scendesse fino a coprire loro le spalle, il suo tessuto non risparmiava dalla visione delle vene azzurrognole e crudelmente sottolineate dei colli secchi e sgraziati, distorti dagli anni. Tutti i loro vestiti grezzi erano cosparsi di varie dita di polvere, ma a loro non sembrava importare. Nulla può catturare l’attenzione di coloro che stanno per morire. Loro continuavano semplicemente e placidamente i loro lavori, senza lasciarsi distrarre né dal canto dell’acqua della fontana nel giardino sottostante né dal tintinnare di ricchi braccialetti al polso di un giovane dagli occhi verdi come serpi qualche regno più in là.

 

Le sabbie di una clessidra lontana frusciavano come sogni dimenticati nel cuore di un uomo corrotto; il tempo scorreva sulle ombre di una meridiana nascosta senza affaticarsi, scandendo in ritmi secolari le azioni ripetitive delle donne. Una di loro filava una lunghissima matassa di ciglia argentee bagnate di rugiada, facendosi passare i piccoli frammenti di crini annodati gli uni a gli altri fra le dita rugose e accartocciate. Il fuso accanto a lei ruotava soavemente a ritmo con la sua ruota dal legno lucido e color del miele. L’insieme che si andava formando era color delle ombre distorte di un banchetto male illuminato riflesse nella superficie concava di un cucchiaio e il profilo illuminato dai raggi del sole della vecchia vi si rifletteva come stami foschi di ninfee su di un argenteo specchio d’acqua in un giorno di bufera. Ella era colei che aveva avuto troppo, condannata a portare, come simboli del suo crimine, succose e sanguinanti melagrane suicide in grembo. Accanto a lei sedeva una sua compagna più ossuta, accoccolata tra cuscini di velluto e merletti usurati, che tagliava con fobici dalle doppie lame, affilate come un dolore, l’interminabile lavoro di colei che le stava al fianco. I bagliori sinistri e accattivanti come un veleno profumato delle forbici si scomponevano sui ricchi intarsi delle scatole che la circondavano, trillanti, ridacchianti e parlanti in mille idiomi stranieri in mormorio fluido e continuo. Ai suoi piedi dondolava scialbo un cavallino a dondolo d’ebano e argento senza più una gamba e dalla bocca deturpata e un orsetto spelacchiato color volpe, con un cappio bianco attorno al collo. Ella era la augusta principessa coccolata da tutte, colei che aveva perso ogni cosa. La sua vicina, colei che non ha ottenuto nulla, sedeva eretta su una sedia imbottita di foglie  scricchiolanti come ossa e friabili come una morale. Intrecciava cappelli di paglia nera che strappava dalla testa di uno spaventapasseri sventrato. Erano splendidi e preziosi copricapi per un funerale in pompa magna, adorni di perle di carbone dal cuore di ossidiana illuminate dall’interno da una lucciola prigioniera e di piume del serpente alato che compare durante le eclissi. I flessibili fasci di paglia le pungevano fittamente la pelle coriacea, ma la vecchia non si lasciava distrarre e procedeva a unire la paglia sovversiva e torturatrice in cappelli sempre più ampi e complicati man mano che la luce del giorno scemava. Ai suoi piedi era avviluppata una rosa dai petali fiammanti di un rosso porpora e laccato tanto splendente e incandescente da sembrare lava. Forse dipendeva dalla luce o dagli occhi di chi guardava l’amena scena; eppure c’era chi diceva di aver visto un bambino aggrappato alla ginocchia dell’anziana donna….una presenza che doveva per forza nascondere qualcosa con il suo candore. Chi l’aveva scorto dichiarava che possedesse capelli dalle ordinate ciocche color dei cuori porpora delle rose e occhi di giacinto selvatico. La sua bocca carnosa simile a una viola, narravano, era sempre dischiusa in un ansito lieve e rapito e le sue guance dal candore di giglio erano costantemente arrossate come per lo sforzo di mantenersi in vita. Nessuno era più riuscito a scordare, dopo averlo avvertito, il suo penetrante profumo di assenzio e garofano rosso. In ogni caso, che fosse un bambino nato da un fiore o un fiore nato bambino, un uomo o un gatto dal mantello tigrato, la sua presenza non disturbava le quattro attempate compari. Accanto alla rosa era sistemata la quarta vecchia. L’ultima donna sedeva con una candela di metallo in mano e un braccio di scheletro nell’altra. Reggeva il lume in modo che la sua cera d’argento colasse sul macabro resto fino a ricoprirlo completamente; poi, non appena tutto l’arto era stato reso di freddo metallo, lo gettava in un braciere alimentato da cuori ardenti di poeti estatici e dopo in un bacile ricolmo di ghiaccio fetido tra cui si scorgevano denti e unghie che ricordavano vaghi fiocchi di neve. Solo così, dopo tutte le ordalie che il metallo aveva dovuto subire per dimostrare la sua potenza, il coltello era pronto per essere riposto in una cesta a spirale che inghiottiva ogni nuovo genero della candela senza lasciarne traccia. A vederle potevano sembrare semplici lame rozze battute da un arrotino cieco ma in realtà quei coltelli erano troppo affilati per essere impugnati da una persona che non desiderasse la morte. Nonostante il clangore ottenuto dai suoi continui spostamenti di metallo e lame, la vecchia non attirava mai l’attenzione delle altre donne o di chiunque attraversasse il loro circolo…gli sguardi di qualsiasi essere l’avrebbero attraversata senza, in fondo, soffermarsi su nulla. Ma alla donna non dava fastidio e continuava così a trafiggere con grazia prima il fuoco e poi il ghiaccio, facendo stridere i suoi coltelli letali in un coro di centinaia di lupi e mantidi religiose. Lei era colei che era nulla, sola e invisibile agli occhi del mondo.

 

Le quattro donne non si conoscevano e non si erano mai conosciute. Semplicemente sedevano in cerchio insieme, condividendo un ideale. Le loro storie passate, prima del balcone di denti, si dipanavano fra le nuvole, scritte nel cielo di zaffiro dall’invisibile inchiostro solare. La loro vita appariva nel carnoso disegno della polpa di una ciliegia e nel raffinato intreccio di un ricamo sull’organza. Se vi sforzaste le potreste leggere anche in un pugno di polvere o in fiala di corallo dimenticata tra gli affetti di un parente. Tra i petali di un ranuncolo esse vi appariranno confuse, ma le ascolterete perfettamente nel grido scaturito dal battito d’ali di una farfalla. Un caleidoscopio storto ve le esibirà distorte, ma nelle acqua limacciose di un pozzo dei desideri abbandonato le vivreste come se si trattasse del vostro passato. Un bambino riccio se ne trascina dietro interi brani di anni perduti quanti potrebbero essere i capricci rimasti imbrigliati fra le sue ciocche…io la leggo nelle linee del destino sui miei palmi.

 

La prima, colei che aveva avuto troppo, era stata da Lui corteggiata. Ella era stata figlia di una madre simile a un fiore di mandorlo e di un padre dagli occhi brillanti come squame di pesce. Un tempo era la creatura più bella e preziosa di un’intera generazione. Non c’era essere che non la desiderasse. Vampiri dalla pelle color del ghiaccio misto a ragnatele facevano la spola dal regno delle tenebre per osservarla mentre danzava; angeli dai riccioli serpeggianti simili ad ambra fluida illuminata da candele svenivano giù dalle nuvole quando la scorgevano e anche fate dagli occhi pervinca e dalle ali di libellula si distraevano dai loro giochi perversi e immorali per celebrarla nelle feste. Ma lei aveva giurato di concedersi egoisticamente solo a se stessa. Ma poi arrivò Lui, insieme alla pioggia di fuoco che straziava stagionalmente il suo paese, accompagnato dalla perdizione e dalla condanna. Non ebbe bisogno di domandare o di mentire per incontrare il suo sguardo; non dovette neppure parlare…Lui non doveva fare assolutamente e perfettamente nulla. L’ebbe in una sola notte, in cui la ragazza fu corrotta dal chiaro di luna e dal suo seme come polline. All’alba seguente Lui era già scomparso fra gli arcobaleni dei cieli più alti, abbandonandola con quel frutto della disperazione che ora le avvinghiava le viscere. E fu in quel momento che ella capì la somma gravità della sua colpa: non solo aveva rinunciato al suo giuramento ma si era anche concessa a un essere sfuggente come la sabbia fra le dita. E quando seppe e comprese venne presa dal disgusto e dalla paura più cieca e obliosa. E allora pianse, e pianse e pianse fino quasi a dissanguarsi. Perché lo amava…nel modo più umano e disperato possibile; nel modo più folle e perverso che esista. E pianse ancora, ancora e ancora fino quasi a seccarsi. Perché lo odiava…nel modo più naturale e cruento; nel modo più feroce e rassegnato. Si lasciò accasciata per settimane nel bosco tetro, tra gli anemoni dove aveva condannato la sua esistenza, senza preoccuparsi degli animali che le mordicchiavano la carne o degli insetti che nidificavano fra i suoi capelli. E notte dopo notte, luna dopo luna, finalmente decise di farlo. Uccise con le sue mani il figlio del suo sangue, lasciando che i suoi resti imbrattassero la terra fra le sue cosce. Con le mani sporche artigliate fra i capelli pianse. Le stille che le straripavano dagli occhi vivano in un secondo, sostando sulle sue guance, per poi morire sulle sue labbra. Una striscia di funebre liquido le gocciolava costantemente dal mento. Il fluido si allungava nel gocciolio come se volesse disegnare nell’aria uno stelo ritto e sfavillante che, solo una volta che si infrangeva al suolo, riusciva a creare i suo petali vibranti ed esplosi. Ma fu dalle sue lacrime, soavi pittrici floreali aeree, disperse sui resti suo amore, che nacque la rosa bambino ora abbracciata alle ginocchia della sua compagne, alimentata e sostenuta dal dolore cocente e dalla giovinezza di sua madre che le fu succhiata via fino a farla rimanere una semplice vecchia. E fu così che, senza più nulla nel cuore  e con la sua rosa erede fra i capelli, si avviò per la terra alla ricerca di qualcuno con cui accompagnarsi contro colui che odiava, ritrovandosi alla fine sotto l’ombra di un balcone dentato di una casa dei divertimenti a rimirare altre tre donne devastate come lei.

 

La prima vecchia che notò fu una signora raggrinzita e disperata, con gli occhi vuoti e gonfi di lacrime così neri da non distinguervi la  pupilla. Era colei a cui Lui aveva tolto tutto. Un tempo l’anziana era una dolce moglie dalle labbra di zucchero e dalla pelle profumata di miele, che passava il tempo a ricamare sui prati, attendendo un gentile marito musicista dai capelli color corallo, insieme a due figli gemelli dai pensieri impregnati di sogni suonatori di foglie di primula. Lui gli era sempre vissuto accanto, incurante della loro felicità come di qualsiasi altra loro vicenda. Ogni volta che arrivava era sempre freddo come la neve che cade. Eppure, negli anni, un rancore potente e inestinguibile doveva avergli posseduto il cuore perché, per ben tre volte, colpì la donna con flagelli tremendi. Cominciò la sua vendetta all’improvviso, senza un avvertimento o una minaccia oscura. Un giorno arrivò danzando con miasma contagioso e letale che uccise il primo dei gemelli. Lui rinchiuse il respiro del fanciullo nel suo corpo incostante e indefinito e fuggì via, lasciando il bam,bino con le labbra esangui e spalancate nel suo giaciglio sudato dalle febbri che divenne il suo feretro. Come se fossero accomunati dallo stesso destino e dovessero presentarsi quasi simultaneamente in dono alla morte, anche il secondo figlio non sfuggì alla sua punizione. Quando cadde dal tetto scivoloso, Lui non lo sostenne e la madre potè solo struggersi all’udire lo schianto omicida e l’urlo inumano della sua creatura. Ma nonostante tutto questo dolore, tutta questa violenta e insensata faida contro la donna, Lui non era ancora appagato. Così, quando finalmente anche l’ultima traccia del sangue del bambino fu assorbita dalla gentile e accogliente terra per non essere mai più restituita, anche il marito si spense per mano sua. Mentre i suoi polmoni affamati lo evocavano con urli strazianti e fragili, Lui rimase a fissare la fine di quell’uomo che rappresentava le ultime speranze dell’umana contro cui si era accanito; mentre il cuore pulsante e impazzito del marito perdeva ogni ricordo di come si palpitava, Lui uscì soavemente dalla finestra come se nulla fosse accaduto. La donna guardò quell’omicidio invisibile impotente, incapace di opporsi a quel disastro. Accanto al cadavere di suo marito scorse frammenti i sogni infranti e di desideri dispersi da una morte ingiusta e precoce. In un istante seppe che solo lei poteva vedere quelle schegge incrinate e quando ne raccolse un pezzo percorso da una ragnatela di fratture, esso le evaporò sul palmo. Pianse calde e amare lacrime quando tutti quei frammenti disparvero e allora sentì il dolore dei suoi familiari defunti propagarsi per ogni fibra del suo corpo. Decise allora che il suo unico compito, da quel giorno fino alla morte, era di placare quegli animi torturati che affollavano il suo cuore straziato e la sua mente inconsolabile. Doveva cominciare un viaggio….camminare era l’unica cosa che potesse fare. Il suo percorso errante assomigliava a una camminata d’ubriaco accecato. Probabilmente avrebbe dovuto portarla sin dall’inizio ad una meta precisa, ma lei non seppe mai dove sarebbe arrivata se non prima di giungervi. Aveva paura solo di una cosa; di camminare tanto da ritrovarsi immobile e morta. Solamente così, incurante dei suoi passi, del suo domani e della sua stessa vita, aveva trovato la giusta strada che conduceva alla sua nuova dimora….un edificio abbandonato di un vecchio parco di divertimenti, sotto il cui balcone orientale si era ritrovata a specchiarsi negli occhi di altre tre come lei.

 

La terza vecchia, dalla bocca sempre distorta in una smorfia insoddisfatta, era stata la prima a cercare un appoggio, con le sue mani grinzose, sulle spalle delle sue nuove compagne, affaticata non dal cammino ma dalla sua nuova condizione. Per quella che era stata un tempo, la vecchiaia era solo un’idea lontana e incomprensibile, raccolta da favole di viaggiatori e in canzoni di zingari. Nessuno, nel suo vecchio paese, aveva mai visto la sua età avanzare più del necessario. Chiunque volesse poteva smettere di crescere e bloccare il tempo, cristallizzandosi in un aspetto per sempre. Anche lei lo aveva fatto e da decenni assomigliava unicamente a un’adolescente dagli occhi grigi e vellutati di brina, che si divertiva a danzare attorno al grande cancello nero e senza muri che delimitava la regione immortale in cui era nata. Si alzava all’alba al canto dei galli dai becchi adunchi e giocava nella notte buia fin quando le lucciole non si stancavano di accompagnarla. Passava le sue giornate cantando tra l’erba alta o raccogliendo per diletto il grano, per poi gettarlo in alto ai raggi del sole che lo divoravano. Era capace di studiare per ore il raffinato disegno delle margherite attorno alle pietre o di stancarsi dopo un attimo di conversazione con un angelo delicato, che si dondolava da un’altalena dispersa fra le nuvole. Si divertiva a bagnarsi le punte dei piedi nei ruscelli, rincorrendo i pesci argentati e saltellanti fra la corrente, sollevando ali di spruzzi o a salire sui rami degli alberi per catturare gli uccelli dalle voci più melodiose per la sua voliera di cristallo. Bloccava le serpi umide e argentate con bastoni biforcuti e le cucinava con maestria su un fuoco attizzato da scoiattoli servizievoli. Si pungeva le dita per raccogliere le more più succose e lontane, graffiandosi i vestiti e la pelle penetrando nei rovi, e si faceva alzare in volo dalle aquile per osservare il mondo dall’alto, sfavillante nel giorno. Andava ad assistere a spettacoli di marionette multicolori e dai costumi fatti di stracci di piume con i bambini più soavi e innocenti e leggeva libri estratti da un cappello magico che sapeva giocare a carte . Non aveva bisogno d’altri se non di se stessa e viveva lietamente la sua vita in completa assenza di preoccupazioni. Poi conobbe Lui ed ogni cosa ebbe fine. L’immutabilità dei suoi giorni e dei suoi sentimenti cominciò a cambiare da quando lo vide e nulla fu più lo stesso. Lui aveva sempre soggiornato nel loro paese, ma la ragazza non gli si era mai avvicinata, troppo presa dalle sue giornate fiorenti e luminose. Giungeva stagionalmente, con il variare del tempo, ma aveva sentito che in altri luoghi era sempre presente. E dopo che l’ebbe visto rimirarsi nelle acque agitate del ruscello, anche lei desiderò, come molte altre nei secoli passati e futuri, di poter abitare in quei posti dove Lui aveva fissa dimora. Non aveva assaporato in vita sua niente di più bello di quella creatura che si specchiava, vanesia e smorfiosa, nell’acqua agitata, affondandovi le ciocche di capelli per osservarsi con maggiore piacere. Ma appena incontrò il suo sguardo, Lui si alzò per andarsene… non senza averle rivolto un sorriso. Nulla di più. Ma bastò. Quel lieve tendersi di muscoli, quella lieve increspatura della pelle unita a un breve sfavillio di denti candidi, la irretì più di qualsiasi dono, incantandola a morte. Sentì l’irrefrenabile voglia di afferrarlo per non lasciarlo mai più e così si mise a correre per inseguirlo come non aveva mai fatto per nessuno in tutta la sua lunga vita. Da lontano le giungeva la sua risata beffarda e glaciale, che le pareva il riso più delizioso e sensuale. Lo rincorse attraverso campi di sterpi e crateri fumanti di vulcani; tentando di acchiapparlo mentre sgusciava fra le aspre rocce di un monte o lasciava brandelli di vesti fra le fronde spoglie di un albero innevato. Le spine fra cui avanzava non le erano mai parse così pungenti, né il suo passo così barcollante e goffo, ma proseguì comunque, seguendo la scia profumata di Lui fatta di migliaia di essenza sconosciute ed esotiche. La spingeva un amore così potente da mozzarle il respiro, un sentimento così violento da frustarla quando mostrava anche solo un secondo di incertezza. Per Lui attraversò fredde acque di mari interminabili e camminò su sabbie cocenti per il sole e ruvide come il suo respiro costantemente affannoso, che le grattava i polmoni. Correva durante notti così insidiose in cui neanche i briganti più sanguinari sarebbero usciti, in luoghi che i diavoli sceglievano per le loro fiere di poesie al chiaro di luna dove nessun mortale armato di qualche granello di speranza si sarebbe avventurato. Ma lei doveva attraversarli…il suo amore non le dava alternative. Dietro di Lui, costantemente osservando i suoi desiderati piedi in movimento fluido e rapido, sperimentò le brucianti ferite del fuoco, le cicatrici sulle labbra di chi non può bere e la terrificante cecità a cui a volte la stanchezza induce chi si lascia trascinare dai suoi sogni inafferrabili. Non riuscì mai a calcolare esattamente per quanto tempo corse sulle orme invisibili di Lui, ma fu per molto ….forse troppo. La ragazza fasulla era quasi allo stremo. Quante volte aveva pensato di riuscire a ghermirlo per poi ritrovarsi a baciare il nulla? Quanti passi avrebbe ancora dovuto compiere prima che lui le sorridesse di nuovo? Il suo corpo le urlava di fermarsi, ma il suo amore la minacciava di morte, schiacciandole il cuore se solo rallentava il passo. Ma a un tramonto, uno particolarmente rosso dei migliaia che aveva visto sul suo cammino forsennato, Lui d’un tratto si fermò, le vesti perennemente ondeggianti nonostante il corpo perfetto bloccato come una statua di marmo. Era immobile sul ciglio di una cascata rumorosa come uno sciame di insetti affamati e fissava il salto dell’acqua nel precipizio sottostante con le labbra stirate in un sorriso ambiguo. Sembrava provare un piacere perverso nel guardare il frangersi delle acque e il loro squarciarsi sulle rocce acuminate. Ma alla giovane non poteva certo interessare se l’anima di Lui era nera come l’ossidiana….ella lo amava solamente. Si slanciò verso di Lui per abbracciare la sua vita con la forza di un gigante, ridendo come una sciocca e con le lacrime agli occhi. Ma Lui fu più veloce e si voltò, offrendole il petto dove, ne era sicura, batteva un cuore cocente. Con la gola stretta dall’emozione di poter finalmente cadere fra le sue braccia, chiuse gli occhi per assaporare senza remore ogni secondo. Quando li riaprì stava gridando come un uomo torturato con ferri ardenti…Lui l’aveva tradita. Le aveva stretto il viso fra le mani, trattenendone i lembi sollevate dalle lunghe unghie tra le dita per strapparle via la sua maschera di giovinezza e mettere a nudo tutta la verità dei suoi anni. Senza una parola, ma con un sorriso simile a un fiore velenoso, Lui si gettò giù nell’abisso della cascata, fra gli spruzzi allegri e suicidi d’acqua di cristallo. Volò via sul ricordo del suo ghigno, tenendosi stretto al petto il suo nuovo fregio rubato…il travestimento da fanciulla di una vecchia decrepita e già destinata alla tomba. Nei suoi nuovi occhi offuscati dall’età, ella lo vide chiaramente salutarla irriverentemente con la mano. Così finirono i suoi giorni di gioia leggera che la fecero precipitare nell’aspra esistenza della vecchiaia fatta di arti bloccati e rattrappiti, che non rispondono al cervello, di dolori incontrollati e passi scricchiolanti guidati da occhi quasi ciechi. Non aveva più nemmeno la sua bella voce a consolarla nella sua nuova condizione…ora gli unici suoni che sapeva emettere ricordavano solo il raglio di un asino accoppiato al frinire rauco di una cicala. Fortunatamente non dovette però fare molta strada per incontrare il suo destino di vendetta. Infatti ricordava di aver scorto una casa lungo il percorso del pellegrinaggio forsennato del suo innamoramento. La raggiunse in poche ore, trovandovi riunite sotto un balcone tre vecchie, che sembrano essere arrivate con lei eppure, al tempo stesso, aspettarla da anni.

 

La quarta vecchia nessuna di loro l’aveva mai vista bene. Ogni tanto, se le gettavano uno sguardo di sbieco o la osservavano distrattamente quando era seduta lateralmente a loro, potevano accorgersi chiaramente della sua presenza anche se i suoi contorni, con qualunque luce o occhi li si osservasse, non erano mai nitidi. Non l’avevano mai sentita parlare o creare rumori di sorta quando si muoveva in solitaria per le sue stanze. Trovavano stranamente difficoltoso associarle un volto e un intero ricordo nitido nella mente. Per ognuna di loro tre era impossibile affermare con certezza che la loro compagna esistesse realmente. Ma non era colpa dell’età che inquina la mente, solo della miserabile condizione di colei che era il nulla. Un tempo era sempre stata al centro dell’attenzione. Era una ragazza ricca di virtù, raffinata e intelligente, ammirata per la sua grande cultura. Nella città dove viveva, molti spesso le chiedevano di essere loro ospite per brevi periodi di vacanza e gli inviti a feste o ricevimenti non le erano mai negati. Era onnipresente. Fu ad una fiera, in cui si vendevano corolle di ogni foggia e morbidezza, che conobbe il suo promesso sposo: un nobile poeta dal farsetto fiammante e dagli occhi penetranti sulla sua carnagione di fiori di melo. Ogni suo gesto sembrava narrare alla giovane una storia intima e profonda che poteva udire solo lei; le sue labbra erano nate per posarsi dolcemente sulle sue. Passarono molti mesi insieme prima che lui partisse per i suo domini alla ricerca di un dono di nozze adatto a lei. La ragazza conservò di quel periodo solo memorie calde che si mischiavano le une alle altre, annullandosi e valorizzandosi contemporaneamente, permeate da una gioia profonda e incontenibile. Lo vide per l’ultima volta appoggiata alla porta spalancata della sua casa, mentre egli la  salutava agitando il cappello e ridendo come un giullare per rincuorarla in vista del periodo di separazione. La sua risata fresca come mille campanelli d’argento tintinnanti fu il ricordò che le fece maggiormente compagnia in quei giorni solitari, in cui tentava di annegare la malinconia nel dipingere ritratti del suo amato promesso sposo. Poi, una notte come tante altre, qualcuno bussò ripetutamente e con forza all’ingresso della sua abitazione, con un rumore di nocche pulito ed essenziale. Sicura che fosse il suo poeta aristocratico, tornato per celebrare con versi la certezza delle loro imminenti nozze, la ragazza si levò dal suo giaciglio di seta per correre alla porta, stringendosi convulsamente l’abito a un petto che batteva rovinosamente, alimentato dalla sua passione infuocata. Ma quando spalancò i battenti, trovò ad attenderla solo una presenza di sventura. Lui la fissava con grazia feroce, morbidamente appoggiato alla soglia in una posa seducente; i capelli in disordine e annodati; le vesti lacere e macchiate di porpora. La mano che credeva di aver sentito bussare era solo un ramo nodoso d’albero stecchito mosso da Lui. La guardava come un dio e non perse la sua aria altera neppure mentre le chiedeva , con una gentilezza affettata e sofferta, un riparo per pochi attimi. La ragazza lo respinse con veemenza: non faceva entrare simili diavoli in casa sua. Lui ripetè la sua richiesta una seconda volta; la voce ridotta a un sibilo minaccioso che serbava dietro l’intonazione metallica violenti ricatti e oscure promesse. Ella tentò di scacciarlo ma fallì e allora lo fissò, tentando almeno di spaventarlo. Ma Lui raccolse la sua sfida con serietà, sfruttando quell’occasione propizia per farle soffrire tutta la sua forza. Penetrò nella casa con l’energia di una tempesta, accettando con un ghigno riconoscente un invito mai ricevuto. E quando Lui si trovò all’interno, sfruttando le sue malie, la attraversò come fa il gelo con le ossa, rapendo i suo nome e la sua forma… rendendola il nulla. La giovane lo vide inghiottire il foglio su cui erano scritte e disegnate mentre si allontanava lungo la strada deserta, inondato dalla luce delle stelle in quella notte senza luna. Rimase così, immobile sulla soglia, a fissare la schiena lievemente arcuata di Lui che si distaccava senza fretta e quel corpo così splendido che trasportava al suo interno la sua identità. Non capiva più dove fossero le sue mani così capaci o dove si stessero disperdendo i suoi pensieri, prima trattenuti dalla testa. Non distingueva la destra dalla sinistra o il colore della sua pelle da quello delle sue ossa o del suo sangue. Erano bianchi o neri? Guardati di traverso parevano rossi…. Stentava a individuare i limiti del suo fisico o della sua mente. Cos’era dentro di lei e cosa fuori? Le sue emozioni scorrevano nell’aria e le percezioni delle sue dita ora le avvertiva all’incirca nei suoi occhi; il suo cuore batteva contro una finestra sulla parete opposta e il suo respiro agitava le foglie del tiglio in giardino. Presto anche la sua coscienza di sarebbe dispersa e non ci sarebbe più stata speranza. Si trascinò o fluttuò o sgusciò fuori dall’abitazione, concentrandosi ossessivamente su ogni suo movimento per non perdere neppure un briciolo di se stessa. Cercava di occultarsi dalla realtà, nel vano tentativo di riuscire a illudersi che ogni cosa che stesse vivendo o provando le giungessero da un sogno o fossero ispirate da un dio crudele. Nella sua fuga segnata dall’abbandono brandelli di identità, incontrò la scura e funerea figura di sua nonna, che le passò attraverso senza neppure riconoscerla. Colei che era nulla, o quel poco che ancora rimaneva legato ai suoi ultimi barlumi di coscienza, si sentì costretta per necessità a prendere la forma della sua anziana parente. Si disse che era solo per ottenere una copertura adatta e per avere un’immagine che mostrasse una parvenza di normalità per il suo interno confuso e rarefatto. Senza guardarsi indietro, con la testa alta e le labbra serrate in un linea decisa, si decise a armarsi per affrontare colui che l’aveva ridotta in una situazione tanto miserevole. Dormì sui cigli delle strade quando era stanca, respirò la polvere che i carri smuovevano e in essa sentì il delirio consapevole della sua civiltà. Mangiò pane raccattato nelle immondizie e rancore verso colui che aveva attuato la distruzione di un essere reale e pensante. Passò, senza essere neppure intuita, attraverso infiniti boschi cupi e città costantemente assolate, dove il sole era così brillante che lasciava cicatrici. Navigò su un mare in burrasca coperto da un vetro nero di nubi di pioggia e oltrepassò montagne aguzze e dalle punte acute come l’ululato struggente di un lupo alla luna. Sopravvisse in deserti dalle dune terrose sulla cui sommità fiorivano piante candide come le colombe e in cui gli scorpioni non muovevano neppure il pungiglione quando li calpestava. Trovò misteriosamente l’uscita da tenebrosi labirinti sui cui pavimenti si affollavano cadaveri allineati in una strada senza uscita e perle rubate al mare offerte come dono ai morti. Passò in un soffio le ultime fortezze del male e nuotò in laghi contaminati dal sangue degli innocenti che giacevano tranquilli nella loro umida tomba. Incontrò molti uomini sulla strada del suo domani annullato, gente sciocca e senza ideali che penetrarono nella sua testa come nebbia e che le chiesero muti di svelare i pensieri che loro stessi si negavano. Altri la guardavano, o credevano di guardarla, in silenzio, intenti nelle loro mansioni e alcuni mi squadravano come un’apparizione miracolosa …non sapevano neppure con chi avevano a che fare. Al confine tra una landa desolata e una città di croci incontrò tre vecchie simili a lei che riuscirono a concentrarsi tanto da scorgerla, raggruppate sotto ad un balcone come se si fossero appena incontrate.

 

E fu così che si ritrovarono insieme, ponendo contemporaneamente nel terreno lo stesso piede alla fine dell’ultimo, identico passo. Lessero vicendevolmente negli occhi dell’una e dell’altra una simile sete di incontenibile di vendetta e si ritrovarono in un battito di ciglia con le mani intrecciate a giurare su una rosa, che era anche figlia di Lui, che avrebbero sfogato il loro rancore o sarebbero morte. Così erano arrivate a svolgere con attenzione le mansioni personali, utili per prepararsi armiate al suo avvento in quella regione del vasto mondo che, presto o tardi, per il cambiamento di clima o per capriccio, avrebbe raggiunto.

 

I lavori delle vecchie cominciavano a rallentare. Il fuso non piroettava più come una trottola e il filato si stava esaurendo. Le forbici non gettavano più lampi ravvicinati ad ogni raggio di sole, ma i loro movimenti si erano fatti più placidi e sporadici; la paglia cominciava a scarseggiare nelle viscere dello spaventapasseri e gli ornamenti si ritiravano sempre di più sul fondo del porta gioie. Le ultime braccia di scheletro aspettavano pazientemente inondate dal sole, rimirando la loro struttura lucida e scanalata privata dei muscoli e delle vene, calcificata da amidi appropriati. Una nuvola oscurò per un attimo il disco solare in declino, facendolo sprofondare in un abisso di tenebra. Una bambina si portò al centro del balcone, fra le vecchie che lavoravano, reggendo fra le mani un’ampolla piena di piccoli cristalli a forma di lacrima che vibravano, sospesi nell’atmosfera della bottiglia. Era asciutta e magra come una foglia; il suo viso sottile e spigoloso era come una falce di luna appena emersa, immobile e discreto. La pelle era fina e chiarissima, come se non avesse mai conosciuto il sole e, ogni volta che un guizzo di esso la colpiva, sembrava rispecchiarlo al donatore con forza doppia. Gli occhi color dell’aurora erano grandi e fulgidi, quasi vi avesse catturato un fuoco fatuo…forse la fiamma divenne cenere quando si perdette nella profondità immensa di quelle iridi di alba sanguigna. Le sopracciglia arcuate, che li sovrastano con maestà, erano quasi incolori e si confondevano mortalmente nella sua carnagione di sale. I capelli lunghi, raccolti in due code ai lati del capo con nastri di raso, ne riprendevano il pallore inconsistente di biondo platino. Tra le ciocche lisce e fini come aghi si scorgevano frammenti di raggi argentei che rivelavano forse la sua natura sovrannaturale senza mai confermala del tutto. Indossava un abito bordato d’occhi e sorrideva estatica come se stesse annusando il profumo di una torta. Dietro di lei venivano tre bambini che, nelle mani protese in avanti, recavano altrettante fragili fiale ripiene di quelle piccole e vibranti gocce.Uno era un fanciullo dagli occhi persi e grigi, oscurati da lunghe ciglia arcuate come i babbi di un gatto. Il viso paffuto dalle guance rotonde e rosee era formato solo da linee dolci e armoniose. Le labbra carnose e pronunciate, simili a ciliegie, si muovevano formando parole inesistenti o troppo silenziose, forse filastrocche imparate dalle fate o espressioni tormentate del suo animo. I capelli neri erano sfumati da una tinta fulva e brillante. Era completamente nudo e l’unico vezzo che possedeva era una collana di piccole sfere di rame stretta attorno al collo come un’imitazione di collare come se avesse bisogno di un padrone. Gli altri due, che lo seguivano a poca distanza, si stringevano la mano…movendosi sincronizzati e costantemente in coppia. Il bambino di sinistra era avvolto in stoffe e broccati sontuosi, degni di un piccolo nobile. I capelli corti e setosi, color della nocciola arsa, erano impreziositi di minuscoli cilindretti dorati che gettavano meravigliosi riflessi sulla sua cute e su ciò che lo attorniava…un diadema di effimere stelle che si manifestavano come luminosità pura. L’albicocca era il frutto ispiratore per la forma del suo volto acceso dagli occhi color dell’edera selvaggia, intensi e furbi. Ma se egli assomigliava a un padrone, allora lo accompagnava alla destra un paggio solerte e ridente che non lo perdeva mai di vista. Vestiva con una tonaca ricoperta di pellicce morbide e pettinate, di animali scuoiati con cura. I peli che vibravano al minimo soffio di vento lo circondavano come un’aura elettrica e palpabile…i loro colori che andavano dall’oro delle faine al nero del tasso fra le pigne seguivano le sfumature degli abiti del piccolo giudice di atti che serviva. Sulla testa piccola e rotonda era sempre calcato il cappuccio bordato di riccioli dorati di velli di ovini nomadi, che presentava in luce ancora più bella la pienezza della sua faccia infantile. Le guance arrossate come tinte con una polvere porpora erano sempre incurvate dall’arricciarsi perenne delle sue labbra lucide, simili a una gemma d’orchidea, in un riso soave che gli scopriva i denti da lattante non ancora abbandonati, piccoli e cesellati. Dietro alla breve e pura processione di infanti, chiudevano la strada due giovani adolescenti che trascinavano, uno per lato, un immenso otre trasparente dalle pareti sottili come filigrana ma pesanti come la grandine. Quella che più faticava era la ragazzina minuta e aggraziata come un uccello. Somigliava a una gemma vivente racchiusa in uno scrigno di modestia e pudore. Sul viso pieno come un cuore, dalle guance soffici come il pane e abbellite dal sole, sorrideva la bocca di rosa canina infantilmente rosa pallido. Gli occhi erano a mandorla, con le palpebre come un guscio d’incolumità, che proteggevano puerilmente lo splendore di quei cristalli verde azzurri. I capelli scuri, come cenere di un defunto dispersa nella tramontana, le ricadevano sulle spalle, intingendo di china le tinte pastello dei suoi abiti da fanciulla stretti in vita da una cintura di ferro con un piccolo incensiere perennemente acceso posto alla fine della catena che la adornava. Le scarpe sottili e appuntite, come l’ovale del suo volto, che spuntavano dalle pieghe della sua gonna leggera e sobria, sembravano intrecciate da fili di ragno e gocce di brina raccolte all’alba, magnificamente corredate da perle opache color dei diamanti appena estratti. Il ragazzo che la accompagnava tentava in ogni modo di alleviarle gli sforzi…egli ne era capace nonostante l’esile corporatura simile allo stelo di una spiga di grano. Non era accaldato, i suoi bei tratti dall’abbronzatura di zenzero erano imperturbabili come i suoi occhi turchini. La loro camminata però non durò molto e, come i bambini che li avevano preceduti, si ritrovarono al centro del circolo per appoggiare i loro trofei a terra. Appena tutti i loro servitori,  i ricordi dei bambini che si erano perduti all’interno della casa dei divertimenti, si furono radunati; le vecchie, con un cenno del capo, ordinarono loro di aprire i contenitori. Appena l’ultimo tappo fu scoperchiato e le gocce cristallizzate cominciarono a evaporare al contatto con l’aria, un’ apocalisse di suoni si riversò nel mondo. Un mormorio crescente catturò l’attenzione di tutti i presenti; le vecchie protesero le teste confuse in bilico sui colli magri per poter meglio comprendere. Sentirono il bisbiglio farsi voce e la voce elevarsi a grido che divenne il rombo di un esercito in marcia. Dei gemiti umani si levarono superando persino il frastuono di un terremoto e il crepitare di centinaia e centinaia di falò. Erano migliaia di voci che sembrano risvegliarsi dalle profondità della terra…un chiaro avvertimento. Mille voci in una. Lamenti sempre più acuti, pianti di bambini, urla di donna e grida d’aiuto si scongelarono nell’annuncio del loro responso, scongelandosi per la prima volta da quando erano state rinchiuse sotto il vetro. Strilli acuti come frecce tagliavano l’aria, miagolando feroci. Uno stridore metallico intrecciò gli artigli con mille rumori di oggetti in frantumi, di carni squarciate accompagnate da gridi e pianti. Un nitido crepitare di fiamme si fece largo, arrogante, accompagnato dal rinsecchirsi di corpi donati al fuoco e al sospiro delle lacrime che si restringono evaporando. Lo scoppio di scintille illusorie affondava in ululati così cupi che nessun animale avrebbe mai potuto proferirli. Un fruscio di vesti simili a granito si tramutò in un suono grave e pesante come un peccato capitale che si univa con sibili sussurrati di bestie biforcute e canti funebri di mantidi. Quella profezia rinata era fin troppo chiara. Lui stava giungendo da regioni lontane, accompagnato dal suo odio e dalle sue bugie; fornendo alle vecchie, che arricciavano soddisfatte in circolo i nasi, un’istigazione al terribile atto che intendevano portare a termine a contro della loro stessa vita.

 

Il Vento stava giungendo in groppa ai suoi cavalli di nubi. Da un attimo all’altra i cuori delle quattro donne tradite sarebbero stati finalmente sanati.

 

Colei che aveva avuto troppo e colei che aveva perso tutto rimirarono la rete che avevano creato unendo le ciglia di migliaia di fanciulle. Stesero con accuratezza le sue maglie fini e fittissime sul pavimento di denti del balcone, facendo attenzione che i canini non ferissero spregevoli il frutto della loro fatica. Colei che non aveva avuto nulla distribuì con orgoglio alle sue compagne i funerei cappelli e li pose anche sulla testa dei loro piccoli e ingenui servi e volle a tutti costi rimirarsi in uno specchio prima di avventurarsi nuovamente sul terrazzo per aiutare nei preparativi. Nel frattempo colei che era il nulla affilava placidamente i suoi coltelli passandoli sulla lingua di un diavolo che si faceva mordere il collo da un serpente giallo come un canarino e sui solchi simili a ferite sanguinanti che le lacrime di un angelo incatenato avevano scavato sulle sue guance create da mani celesti. La rosa venne posata su un trono in un angolo del terrazzo e i bambini si raccolsero attorno a lei. Sotto di loro la natura aveva cominciato a muoversi e nuovi profumi si spandevano nell’aria, infrangendo l’intimità del luogo. Le fronde del salice avevano cominciato a oscillare lievemente come altalene abbandonate e i rami scricchiolavano un benvenuto assonnato al nuovo arrivato in quelle terre. I cavalli nelle stalle nitrirono lievemente, avvertendo l’ospite che tanto li rendeva nervosi, e il giovane figlio del re sentì i suoi capelli serici e biondi accarezzargli lievemente la nuca nonostante il suo collo non si fosse mosso. Le corolle dei fori che una contadina stava rimirando si piegarono di lato, schiacciando alcuni petali ad altri e comprimendo i pistilli. Si cominciava a una sentire una nuova forza dietro la normale risacca marina giù sulla spiaggia e alla palude salmastra a pochi metri dalla spiaggia le canne ondeggiavano le une verso le altre senza incontrarsi mai. Gli anfratti fra le pietre delle ville cominciarono a gonfiarsi d’aria in movimento, ululando lievemente e i colori di un pittore che dipingeva la costa si seccarono per i soffi che li raggiunsero. Gli uccelli iniziarono a cantare in massa senza ritegno, espandendo i loro cinguettii in cori allegri e infantili. Uno di loro si slanciò nell’aria, sentendo finalmente l’aspra carezza delle dita della corrente fra le piume. Così celebrato, avaro d’essere ammirato ancora, comparve il Vento in uno sfolgorio di gioielli e svolazzare di veli.

 

Nessuna delle vecchie aveva mai riposto la speranza di trovarlo ancora così vicino. Dava loro le spalle, senza paura e con indifferenza. Irriverentemente seduto sulla ringhiera di ferro del terrazzo mentre ammirava la sua opera nella regione e si stringeva con soddisfazione i tessuti leggeri come baci al corpo perfetto. Erano vestiti sporchi e macchiati che, su di lui, apparivano addirittura immondi. Nessuna delle donne lo aveva mai ricordato così bello come quando, un secondo dopo, forse avvertendo i loro sguardi e le aspettative, si voltò amabilmente verso di loro, guardandole come se fossero figlie sue.

 

Tutto in lui era minuto e delicato, quasi fosse stato accarezzato da migliaia di mani che l’avessero così levigato…il suo corpo dai candori di cigno rappresentava l’esaltazione di ogni desiderio umano. I capelli erano lunghi come uno strascico che copriva la sua ombra nebulosa, simili a una cascata inquinata che gli scorreva dietro alle spalle albine come inchiostro che sporca un foglio bianco. Il volto diafano e splendido era un ovale eburneo e appuntito, un’insieme di linee splendide e serpeggianti che esaltavano la bellezza preziosa degli orecchini di perle che gli pendevano dai lobi sagomati e di cui accarezzava le curve con la mani affusolate dalle dita fini e sottili con unghie lunghe simili al vetro. Possedeva labbra piene e superbe, dalla piega sognante che si arricciavano agli angoli per sottolineare il porpora laccato che le tingeva. I sorrisi di quella bocca erano lo scintillio della lama di un coltello, che feriva la sua carnagione di nebbia invernale, pallida come ossa. Sotto le sopracciglia simili a lembi di nuvole albergavano gli immensi occhi color del mercurio unito al vapore, scalfiti dalle lame scintillanti e brune delle pupille e ombreggiati soffusamente dalle ciglia lunghe e inarcate come le antenne di una farfalla. Erano iridi divine e senza poesia  in cui si rincorrevano le fiamme di un’infanzia sfrenata e una saggezza immortale. Non poteva esistere un miracolo più affascinante.

 

La rete si librò sul suo corpo, imbrigliandolo come un cavallo selvaggio per impedirgli anche solo di dibattersi come un pesce arenato. La testa gli venne tranciata di netto da due coltelli contemporaneamente. Essa ricadde a terra con un tonfo ovattato, avvolgendosi nei lunghi capelli che la chiusero come una crisalide di ragnatele nere. Il suo corpo oscillò avanti e indietro come se fosse sospinto dalla forza stessa del suo possessore per poi crollare rovinosamente sui denti appuntiti che non ne scalfirono la superficie morta. Le mani, che tanto avevano lusingato, ora giacevano inanimate accanto ai suoi fianchi modellati. Non perse sangue e neppure una lacrima. Era come se avessero decapitato una statua… non vi era nulla all’interno se un freddo ammasso duro di materia primordiale simile al marmo o all’alabastro. I suoi occhi, nella morte, erano asciutti e disumani. Ma le vecchie non se ne curavano e danzavano felici attorno al cadavere decollato, ammirando con letizia la loro compagna che feriva ripetutamente la bella pelle del loro incubo decaduto. Si era avventata sul defunto con le lame sguainate, decisa a cancellarne ogni traccia…avrebbe voluto anche sparire dentro il suo corpo per renderne maledetto lo spirito. Mentre il ballo selvaggio e dionisiaco proseguiva, il costato del Vento si strinse, divenendo innaturalmente scavato nella sua fine ingiuriata e bestemmiata. Un grido di giubilo gorgogliò nelle gole delle donne che batterono le mani e i piedi per l’allegria, orgogliose di averlo estinto e raggianti della sua morte. Cantando filastrocche sciocche chiamarono a sé i bambini, che avevano assistito al macello come a un normale spettacolo di burattini, e impartirono loro l’ordine di recuperare una bara per la loro agognata vittima. Alle loro spalle curve qualcosa riprese a muoversi troppo velocemente perché potessero impedirlo.

 

Serpeggiando, una mano del Vento, giunse ad afferrare la testa mozzata,  trascinandola al busto per i lunghi capelli dalle ciocche simili a penne. Stringendosela convulsamente al petto e scostando dal bel viso dagli occhi sorpresi e spalancati la folta chioma, egli la assicurò nuovamente al collo, dove venne saldata con sospiro rassegnato. Si alzò in piedi passandosi una mano fra la capigliatura, seta nata dal suo pensiero, amareggiato dalla stupidità delle vecchie. Sotto i loro occhi atterriti smise la pelle escoriata e trapassata come un serpente che fa la muta, lasciando il suo involucro opaco abbandonato attorno ai suoi piedi ornati d’anelli d’argento. Le donne erano orripilate da quella mutazione. Il loro demone sfuggente dagli occhi tragici era scampato alla morte con l’irrisorietà di un giullare, riaffacciandosi alle loro vite unito al dolore. Non ebbero però il tempo di pensare a tutte le possibili e multicolori conseguenze della nuova realtà che si era presentata ai loro occhi. Sotto di brezza, leggero come una foglia autunnale, il Vento era giunto, ammantato da un’aureola di furia, al trono dove giaceva la tenera e attonita rosa su cui le anziane avevano imposto il sigillo del loro giuramento. La afferrò con furia malcelata da un ghigno crudele senza che neppure una spina lo ferisse e, filtrando fra le dita delle sue nemiche, raggiunse la ringhiera decorata del terrazzo. Le vecchie si slanciarono verso di lui come avevano fatto un tempo ma abbracciarono solo il vuoto. Lui si era già librato nell’etere, stagliandosi contro il disco solare come un’immensa farfalla dalle ali di tessuto lieve come tulle. Le guardò con commiserazione e pietà beffarda e si portò lentamente la rosa bambino alla bocca. Con la dolcezza di un corvo che sbrana una carcassa ne strappò un petalo con i denti bianchi e appuntiti, lacerandone la superficie carnosa ridendo come un gallo che canta. Le vecchie urlarono violentemente…in gola avevano il sapore salato delle loro lacrime.

 

Le donne piangevano ma il Vento non pareva accorgersi delle loro lacrime mentre masticava malignamente il suo petalo mutilato e sanguinante tra le pieghe delle sue labbra. Il loro sangue caldo si stava raffreddando. Si agitavano nel loro delirio inconsulto, sterminando le ultime tracce della loro esistenza maledetta. Giravano e rigiravano il loro corpo tra i denti perduti, scompigliavano e spezzavano le loro membra sul pavimento. Si attorcigliavano con le catene che le trascinavano verso al morte. Le loro fronti erano imperlate da gelide gocce di sudore che scendevano sulle loro tempie con la velocità di un lampo. I capelli, bagnati e appiccicosi, aderivano a tutto il  loro volto e formavano una fitta maschera che celava le tenebre della loro mente. Le loro iridi si muovevano sotto le palpebre serrate, come per scrutare ogni mostro che si stava impossessando di loro. Le loro labbra sussurravano flebili preghiere e bisbigliavano maledizioni rivolti al male in persona. Il loro respiro era affannoso, ansioso, quasi ferino. Le loro mani sferzavano l’aria densa per scacciare le ombre che la popolavano e che le donne non riuscivano più a vedere. Lentamente si abbondarono a terra, cercando di far durare ancora qualche tempo gli ultimi atti della loro esistenza. Accanto a loro solo freddo anche se sentivano già le loro anime bollire in una bolgia di dannati.

Quella casa con un passato di risa sincere possedeva qualsiasi cosa, se si aveva il tempo per trovarla. Aveva i vecchi e aveva i porci. Aveva frecce avvelenate e uccelli dai becchi letali. Aveva ricordi di chiese distrutte e preti vagabondi. Aveva tetti di bronzo e aveva cuori di ghiaccio. Aveva fiori senza profumo e bambine senza belletto. Aveva carni così bianche da sembrare vergini e vergini così splendenti da sembrare stelle. Aveva perle e carboni. Aveva brace e avevano polvere d’incanti. Aveva sangue e reati. Aveva uomini dal viso d’angeli in esilio e diavoli raffinati. Aveva martiri ed eroi e innocenti crocifissi per la giustizia. Aveva bende e avevano coltelli. Aveva lune e risa e piatti così splendenti da sembrare lune beffarde. Aveva tappeti di capelli così fini da sembrare ragnatele e ragni tessitori di notti. Aveva impiccati e forche danzanti. Aveva maschere di piume, costumi di latta e gioielli di ciottoli. Aveva vesti rosse come lingue di gatto e occhi senza pupille come gli uccelli. Aveva bestemmie d’amore e dichiarazioni d’ateismo. Aveva farfalle soprano e usignoli muti. Aveva flauti di biancospino, sorrisi soavi di viola e lacrime profumate come margherite. Aveva divinità sporche, ninfe maledette e messia di perdizione. Aveva carnivori e cannibali e mangiatori d’incubo impalpabili. Aveva latte e cicuta nelle credenze. Aveva culle e giocattoli impolverati. Aveva chiacchiere severe come schiocchi di frusta e morsi delicati come una piuma di cigno. Aveva zingari dagli orecchini d’oro e blasfemi giudici. Aveva vampiri dalle mani urlanti e unghie che scalfivano i diamanti. Aveva sciroppi così dolci da avvelenarti e tisane così amare da dissanguarti. Aveva vittime sacrificali e altari d’alabastro. Aveva alberi dai rami di midollo estratto dalle spoglie dei defunti e ossa cave come tronchi anziani. Aveva dolci delittuosi e peccati amari. Aveva un corvo che era un uomo senza saperlo e una strega mascherata senza memoria. Aveva matrioske, centinaia e centinaia di matrioske. E fu proprio fra quelle che i bambini ritrovarono finalmente la bara trasparente adatta ad ospitare le spoglie del Vento. La legarono con un nastro di raso e se la trascinarono dietro con ampie falcate come se corressero con un aquilone. Eppure, quando giunsero al balcone, scoprirono che la consegna affidatagli dalle loro padrone non era corretta. I cadaveri erano quattro…quattro ammassi di carne in putrefazione che aveva già visto troppi anni per mantenersi fresca. Fecero per andarsene, così da trovare altre casse funebri quando scorsero, appollaiato sulla ringhiera come un uccello immenso e maestoso, un giovane misterioso dagli occhi tragici e dagli abiti di veli imbrattati. La sua pelle aveva la bianca purezza dell’alba; ma nella rosa, dalla corolla senza un petalo, che portava intrecciata fra i lunghi capello c’era la rossa esasperazione del dissanguamento del tramonto. Li guardò beffardo come un gatto vanesio, socchiudendo gli occhi metallici in uno sguardo che trasmetteva tutta la grazia languida di un sogno. Si baciò le punte delle dita e mandò loro un bacio leggero e profumato di zucchero prima di correre via tra le nuvole con la sua rosa mutilata. Nessuno sentì più il vento far rivivere le risate di quella casa matta un tempo padrona dei divertimenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

       

  
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