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Autore: VirtualInsanity    03/12/2011    0 recensioni
Un’aquila gridò in quell’oasi di verde, riecheggiando nell’aria come un richiamo di pace e guerra nella solitudine. Le parve quasi di sentir vibrare il diaframma del rapace nel proprio, ora combattuto in un respiro affannato dovuto al cammino che la stava portando lontano dal proprio mondo e troppo vicino a quello contorno e dannato di Marte.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non pubblicavo su EFP da tantissimo tempo. Ma sono nuova in questo fandom (qui, nella vita anche troppo veterana), quindi molto probabilmente nessuno mi conoscerà. La one-shot qui di seguito è un po’ una pazzia, non ha pretese né senso, vi sarà compagna solo per questo attimo della vostra esistenza.

Spero riuscirà ad affrontarvi a testa alta.

Un bacio,

Malù.

 

 

Onice e cielo

 

 

Adagiò la fronte sul vetro del finestrino, nel vano tentativo  di trovare frescura in quel caldo accecante che prendeva possesso delle membra.

Gli occhi seguivano il paesaggio che si muoveva lento e acquoso in una bolla estiva che scioglieva ogni cosa incontrasse nel suo cammino, e l’inerzia allungava gli artigli nei cervelli esigenti e avidi di un sonno che mettesse fine all’avanzare di quell’afa che intorpidiva i sensi.

La città in quel periodo era invivibile. Tutto era invivibile. Le strade, i turisti, i negozi, le case.

Un caldo del genere non si vedeva da quasi quarant’anni e le spiegazioni scientifiche erano sempre le stesse: buco nell’ozono, inquinamento, smog. Come se bastassero quelle semplici tre paroline a fermare l’uomo dalla distruzione della Terra, e, di conseguenza, di se stesso. Sarebbe stato stupido definirlo un ‘animale’. Gli animali non annientano ciò che è il loro rifugio, bensì lo preservano. Gli animali non uccidono coloro che appartengono alla stessa razza, semplicemente perché andrebbe contro la natura di ciò che sono. Ma, evidentemente, gli umani non avevano ancora capito che non c’era niente di più importante di loro stessi.

L’auto si fermò di scatto al limitare della foresta, e l’autista borbottò qualcosa indicando il cruscotto dove vi era segnata l’ora. Le 16.30. Era decisamente tardi.

Nadia scese dal taxi rigorosamente giallo, lasciò scivolare una banconota dal finestrino del passeggero e stette lì a guardare mentre la macchina faceva inversione ad U, sfrecciando via come impazzita tra il traffico claustrofobico della città.

Si osservò intorno stranita, picchiettando le dita sull’Ipod nascosto nella tasca anteriore dei pantaloncini. Intorno a lei il vuoto, colmato in parte da un bosco che si estendeva alla sua sinistra e dall’insegna che attimi prima aveva riferito all’autista. Sorrise nel leggerla, raccogliendo tutti i ricordi che le donava per lasciarli vagare nella mente senza alcuna briglia a costringerli. Quanto le era mancato, tutto quello? Quanto sembrava inutile tutto il tempo passato a ricordare, invece che vivere?

Gocce d’acqua invasero le guance accaldate, in un pianto silenzioso e lento di cui solo il cielo era partecipe e compagno. Singhiozzò, incespicando nelle lacrime fresche che donavano un sollievo doloroso e nostalgico, portando una mano sulla propria spalla, come a volersi donare coraggio, quel coraggio che per troppo tempo le era mancato.

I piedi presero a muoversi sul cemento compatto, ruggendo una forza d’altri tempi, misteriosa e invadente. Prendeva possesso dei muscoli e si infilava avida tra le pieghe del cuore, sospirando parole e metafore incolore. Si avvicinò al bosco, percorrendone le strade accarezzate dagli aghi di pino e l’erba leggera e umida  che si infilava tra i piedi nudi. Quel contatto la beava di una luce non più cocente, ma serena e friabile, ornando il suo corpo di ineffabile caparbietà.

Un’aquila gridò in quell’oasi di verde, riecheggiando nell’aria come un richiamo di pace e guerra nella solitudine. Le parve quasi di sentir vibrare il diaframma del rapace nel proprio, ora combattuto in un respiro affannato dovuto al cammino che la stava portando lontano dal proprio mondo e troppo vicino a quello contorno e dannato di Marte.

Distinse i vari alberi e l’udito si inondò di strani fruscii e dello sfregare dei suoi piedi sulla superficie naturale e fascinosa di cui lui, tempo fa, si innamorò perdutamente.

Il cuore inciampò  un attimo tra i suoi battiti, a quel ricordo limpido stampato nella sua memoria impeccabile. ‘Pensi davvero che la vita con te sarà così difficile?’ ‘No, sarà impossibile.’ ‘Allora non credi in noi.

Sospirò piano, per non rovinare l’atmosfera tranquilla della Natura, e si nascose nuovamente tra la realtà, fuggendo codarda da un passato che a breve avrebbe rincontrato.

Era piuttosto contraddittorio, in realtà, considerando che era sempre scappata dalle sue memorie per poi incontrarle ora e assorbirle nuovamente, una ad una, priva della paura e del dolore che le sarebbe imploso nell’anima senza alcuna indulgenza. Accarezzava con gli occhi squarci di velluto verde, accompagnando quel colore dominante all’azzurro della volta celeste persa tra le striature brune dei rami che ne impedivano una vista totale (se di vista totale si può parlare, nel caso del cielo). Tutto moriva ad ogni battito di ciglia, rimembrandole attimi sfuggevoli e lenti che si univano in un rigoglioso anfratto di vita. Avanzava cauta tra le sterpaglie, quasi spaventata da un possibile e feroce agguato, portando ogni tanto la mano sul collo longilineo, in una morbida carezza riservata a se stessa.

Quando si fermò alla fine del sentiero, un tempo tracciato con le loro dita unite nel passo, uno strano sentimento svicolò nel suo stomaco, strisciando come un cobra dallo sguardo velenoso. Tossì inspiegabilmente, fermando il respiro che batteva con forza contro la sua pelle e si strinse la pancia in un abbraccio soffocante nel tentativo di metter fine al dolore. Lentamente la sua bocca si tese in un sorriso amaro e piano canticchiò, soffiando tra le labbra schiuse.

 

No warning sign, no alibi/ We faded faster than the speed of light

 

La sofferenza continuò la sua salita, sino ad intaccare il cuore preso in una corsa forsennata e maledetta. La voce modellava le parole in una melodia conosciuta e mai dimenticata: felpata, morbida, calda come due braccia incastrate tra due corpi. Perfetta, dolce, armonica, evanescente, amabile come l’inenarrabile uomo che ne plasmò la nascita.

 

Took our chance/ Crashed and burned/ No we'll never ever learn’

 

No, non avrebbero mai imparato: il piacere e il bisogno che ognuno nutriva verso l’altro superava ogni sensazione e sentimento, andava oltre la consapevolezza del dolore che sarebbe succeduto a quell’incontro, accresceva tra i loro corpi rendendoli vittime e carnefici di un amore malato.

 

I fell apart / But got back up again’

 

Lo stomaco si riempì di un’innata paura, sbiadendo la vista che corse, codarda, ad incontrare il terreno. Ormai il cuore dettava battiti dotati di propria volontà, eludendo ogni risposta logica se non quella timorosa che spiegava la via verso la verità.

Ascoltò la sua voce rimbombare tra la foresta, denudandola di ogni inibizione se non il terrore di sbagliare. Sentì il suo lento passo muoversi con la solita cadenza tra l’erba che crepitava sotto la suola delle scarpe, e il vento a favore tracciare la via del suo profumo verso i ricordi della mente che non davano giustizia a quell’immortale fragranza.

«Nadia.» sussurrò, torcendo il suo cervello in un grido minaccioso di angoscia. Non aveva la forza di muoversi, di rispondere a quel richiamo che si modellava tra le sue labbra e tra il suo accento così familiare e serio.

La nostalgia intaccò la voce dispersa della donna, facendola piano morire nello sguardo, rinchiuso tra le palpebre strette che invocavano un bisogno limitante.

«Nadia.» questa volta la voce era limpida, chiara come il cristallo. I loro ruoli si confondevano nella nebbia dei sensi, mischiando le stesse emozioni in un’unica anima selvaggia.

«Cosa ci fai qui, Nadia?» lui era sempre stato il più forte, tra di loro. E in quel momento ne stava dando un’eloquente prova: era riuscito a parlare, a confidarle parole, ad esprimersi senza la paura di una possibile fine, a mettere da parte il dolore e liberarsi da quelle stringhe che lasciavano squarci sulla pelle.

Le mancava quella possente voce, il suono delicato e roco di una lingua che aveva imparato stando insieme a lui, il suono della voce di un cantante.

Quando ebbe di nuovo il potere sul suo corpo tremante, non riuscì a fare altro se non innalzare al cielo il suo sguardo, incontrandolo in due polle tempestose e ammalianti dai colori inspiegabili ed emotivi. Liquidi e caldi come un deserto pronto al freddo della notte, forti e ghiacciati come le punte arcaiche dell’Antartico.

«Jared.» invocò, quasi fosse l’unico squarcio d’aria su tutta la terra, una nenia da sussurrar nella solitaria notte nera.

L’americano sorrise amaro tra il cipiglio serio dell’espressione, lasciando aperta ogni porta per accedere al suo cuore .

E corse, inciampando tra la terra scura, cadendo e rialzandosi, sfidando il vento caldo che soffiava per non farli congiungere, stringendo tra di loro un patto di sguardi e parole sospirate e mai dette.  Corse, forte e ancora più forte, sbiadendo ogni dolore intaccante. Corse, ancora e ancora, sino a sbattere sul suo petto di marmo che l’accolse morbido e capiente come lo era sempre stato, quasi non se ne fosse mai andata da lì. Piansero entrambi, singhiozzando e scuotendo uno l’animo dell’altro, ora stretti e agganciati senza alcuna intenzione di sciogliersi.

«Mi manchi.» parlò l’uomo, poggiando con delicatezza le mani sulla schiena di Nadia ora totalmente abbandonata sul suo petto. Non voleva andare via, non lo avrebbe più fatto.

Per sempre. Mai.

«Sono qui.» sussurrò più e più volte, stringendo con forza le mani intorno al suo corpo perfetto. Sentì dietro di lei la mano di Jared spostarsi, e quasi ne soffrì. Ma quando arrivò a sfiorarle il  collo, un brivido percosse entrambi, urlando un bisogno fisico, mentale e spirituale che nessuno dei due avrebbe mai immaginato. Con le dita continuò a vezzeggiare la pelle in quel punto, salendo e scendendo, contaminando la carne del suo profumo. «Jared», sospirò arcuando il collo dalla parte opposta, così che l’americano potesse continuare a toccarla.

«Amo il modo in cui lo dici» soffiò l’uomo tracciando con le dita leggeri ghirigori sulla nuca che arrivarono a sfiorarle il profilo stretto del naso, le ciglia e poi le palpebre irrequiete, perdendosi nell’oblio notturno e misterioso delle iridi nere di Nadia. Toccò con i polpastrelli le guance, sino a blandire le labbra carnose e rosee come chicchi di melograno. Queste si schiusero in un gesto spontaneo, attirando il piacere di Jared che rispose poggiando la fronte su quella della donna. Ognuno respirava il respiro dell’altro, smarriti in un mondo lontano anni luce da ogni possibile immaginazione. I loro nasi si sfioravano avidi, in uno scontro piacevole e ora non più temuto, calando il viso in un contatto ancora più stretto, ancora più saturo di noi.

Con le guance che piano si incontravano, Nadia portò una mano tra i capelli scompigliati dell’uomo, attirandolo con strana audacia verso di sé. Così le loro labbra si ricongiunsero, morbide e calde si cercarono con forza e bisogno, scatenando un’esplosione di epiteti e sostantivi che non sarebbero mai riusciti ad eguagliare quelle sensazione marziane, disperse tra la polvere rossastra dell’aria di Marte. Tutto  si amplificò, mostrando quanto uno non potesse più fare a meno dell’altro. Delle sue labbra, della sua pelle, del suo profumo, dei suoi sospiri, della sua voce.

Gesti si confusero tra lo smarrimento di emozioni, scontrando ancora e ancora le loro bocche, insensibili al bisogno d’aria che riuscì a dividerli solo per pochi secondi invincibili. Si guardarono, amanti persi e letali, per poi tornare all’attacco e baciare di nuovo, scorrendo con la lingua tra le labbra, a leccare un sapore mai dimenticato e dolce come stille di miele. Le dita di Nadia si muovevano tremanti tra le ciocche di capelli di Jared, perdendosi in quel colore scuro, ennesima pazzia tra tutte le capigliature cambiate, e le pelli nude in più punti si sfioravano e producevano, anche se per pochi istanti, un calore e una necessità assordante. C’era tutto: loro, il mondo che si muoveva funesto al loro intorno a riscattare una cittadinanza ormai persa, i pensieri ora fusi in atti che li rendevano una cosa sola, la casa dei Leto, sullo sfondo, bella e bianca simile a un miraggio tra tutta quella terra e quell’erba, e le loro lacrime, che fino a quell’istante non avevano che lasciato solo ombre salate sulle guance senza qualcuno con cui condividerle.

«Non scappi di nuovo via, vero?» la voce del cantante si distinse tra il sapore umido delle proprie labbra che la ragazza prese a mordere con affetto, sorprendendo Jared che si trovò impreparato a mal celare un gemito di emozione, sorpresa e piacere.

«Cosa te lo fa pensare?» sorrise Nadia, spostandosi quel poco possibile per respirare un’aria che non sapeva più di lui. Si guardarono, fermando ogni lancetta in ogni orologio, dispersi e non più recuperabili tra le ciglia e le iridi, costruendo un contrasto di colori che ormai conoscevano a memoria. Onice e cielo, cielo e onice.

«Perché rispondi sempre con una domanda?» chiese, piegando il collo da un lato, come un gatto curioso. «Perché mi piace metterti in difficoltà» asserì la ragazza, sorridendo serena come non le era stata da tempo.

Era vero: amava metterlo in difficoltà. Che fosse un morso, o una domanda, poco importava. Lui era sempre così saggio, in alcuni casi quasi austero e da lei temuto per tempi immemori, che quello era l’unico modo per rendersi conto quanto umano fosse persino lui, un marziano serio e incontrollato.

Lui la osservò dall’alto della sua statura, con lo sguardo dolce e pensoso di un uomo che conosce e cerca esperto i segreti della terra, poggiandole una mano sulla spalla, solenne nei gesti. Lei portò le dita sulle sue, stringendo la presa che soffocò le loro falangi intrecciate.

Erano solo loro, nient’altro: due puntini luminosi sulla mappa satura di stelle.

«Non vai via» questa volta non era più una domanda, ma un’affermazione e una tacita speranza.

«Finché non lo vorrai tu, no» rispose la ragazza aggiungendosi a quella speranza condivisa.

Lasciarono cadere le mani nel vuoto dell’aria, dirigendosi silenziosi e attenti nella casa di Jared, oasi sperduta e luogo di perdizione.

 

 

 

 

 

 

   
 
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