Non pubblicavo su EFP
da tantissimo tempo. Ma sono nuova in questo fandom
(qui, nella vita anche troppo veterana), quindi molto probabilmente nessuno mi
conoscerà. La one-shot qui di seguito è un po’ una
pazzia, non ha pretese né senso, vi sarà compagna solo per questo attimo della
vostra esistenza.
Spero riuscirà ad
affrontarvi a testa alta.
Un bacio,
Malù.
Onice e cielo
Adagiò
la fronte sul vetro del finestrino, nel vano tentativo di trovare frescura in quel caldo accecante
che prendeva possesso delle membra.
Gli
occhi seguivano il paesaggio che si muoveva lento e acquoso in una bolla estiva
che scioglieva ogni cosa incontrasse nel suo cammino, e l’inerzia allungava gli
artigli nei cervelli esigenti e avidi di un sonno che mettesse fine
all’avanzare di quell’afa che intorpidiva i sensi.
La
città in quel periodo era invivibile. Tutto era invivibile. Le strade, i
turisti, i negozi, le case.
Un
caldo del genere non si vedeva da quasi quarant’anni e le spiegazioni
scientifiche erano sempre le stesse: buco nell’ozono, inquinamento, smog. Come
se bastassero quelle semplici tre paroline a fermare l’uomo dalla distruzione
della Terra, e, di conseguenza, di se stesso. Sarebbe stato stupido definirlo un
‘animale’. Gli animali non annientano ciò che è il loro rifugio, bensì lo
preservano. Gli animali non uccidono coloro che appartengono alla stessa razza,
semplicemente perché andrebbe contro la natura di ciò che sono. Ma,
evidentemente, gli umani non avevano ancora capito che non c’era niente di più
importante di loro stessi.
L’auto
si fermò di scatto al limitare della foresta, e l’autista borbottò qualcosa
indicando il cruscotto dove vi era segnata l’ora. Le 16.30. Era decisamente
tardi.
Nadia
scese dal taxi rigorosamente giallo, lasciò scivolare una banconota dal
finestrino del passeggero e stette lì a guardare mentre la macchina faceva
inversione ad U, sfrecciando via come impazzita tra il traffico claustrofobico
della città.
Si
osservò intorno stranita, picchiettando le dita sull’Ipod
nascosto nella tasca anteriore dei pantaloncini. Intorno a lei il vuoto,
colmato in parte da un bosco che si estendeva alla sua sinistra e dall’insegna
che attimi prima aveva riferito all’autista. Sorrise nel leggerla, raccogliendo
tutti i ricordi che le donava per lasciarli vagare nella mente senza alcuna
briglia a costringerli. Quanto le era mancato, tutto quello? Quanto sembrava
inutile tutto il tempo passato a ricordare, invece che vivere?
Gocce
d’acqua invasero le guance accaldate, in un pianto silenzioso e lento di cui
solo il cielo era partecipe e compagno. Singhiozzò, incespicando nelle lacrime
fresche che donavano un sollievo doloroso e nostalgico, portando una mano sulla
propria spalla, come a volersi donare coraggio, quel coraggio che per troppo
tempo le era mancato.
I
piedi presero a muoversi sul cemento compatto, ruggendo una forza d’altri
tempi, misteriosa e invadente. Prendeva possesso dei muscoli e si infilava
avida tra le pieghe del cuore, sospirando parole e metafore incolore. Si
avvicinò al bosco, percorrendone le strade accarezzate dagli aghi di pino e
l’erba leggera e umida che si infilava
tra i piedi nudi. Quel contatto la beava di una luce non più cocente, ma serena
e friabile, ornando il suo corpo di ineffabile caparbietà.
Un’aquila
gridò in quell’oasi di verde, riecheggiando nell’aria come un richiamo di pace
e guerra nella solitudine. Le parve quasi di sentir vibrare il diaframma del
rapace nel proprio, ora combattuto in un respiro affannato dovuto al cammino
che la stava portando lontano dal proprio mondo e troppo vicino a quello
contorno e dannato di Marte.
Distinse
i vari alberi e l’udito si inondò di strani fruscii e dello sfregare dei suoi
piedi sulla superficie naturale e fascinosa di cui lui, tempo fa, si innamorò
perdutamente.
Il
cuore inciampò un attimo tra i suoi
battiti, a quel ricordo limpido stampato nella sua memoria impeccabile. ‘Pensi davvero che la vita con te sarà così
difficile?’ ‘No, sarà impossibile.’ ‘Allora non credi in noi.’
Sospirò
piano, per non rovinare l’atmosfera tranquilla della Natura, e si nascose
nuovamente tra la realtà, fuggendo codarda da un passato che a breve avrebbe
rincontrato.
Era
piuttosto contraddittorio, in realtà, considerando che era sempre scappata
dalle sue memorie per poi incontrarle ora e assorbirle nuovamente, una ad una, priva
della paura e del dolore che le sarebbe imploso nell’anima senza alcuna
indulgenza. Accarezzava con gli occhi squarci di velluto verde, accompagnando
quel colore dominante all’azzurro della volta celeste persa tra le striature
brune dei rami che ne impedivano una vista totale (se di vista totale si può
parlare, nel caso del cielo). Tutto moriva ad ogni battito di ciglia,
rimembrandole attimi sfuggevoli e lenti che si univano in un rigoglioso
anfratto di vita. Avanzava cauta tra le sterpaglie, quasi spaventata da un
possibile e feroce agguato, portando ogni tanto la mano sul collo longilineo,
in una morbida carezza riservata a se stessa.
Quando
si fermò alla fine del sentiero, un tempo tracciato con le loro dita unite nel
passo, uno strano sentimento svicolò nel suo stomaco, strisciando come un cobra
dallo sguardo velenoso. Tossì inspiegabilmente, fermando il respiro che batteva
con forza contro la sua pelle e si strinse la pancia in un abbraccio soffocante
nel tentativo di metter fine al dolore. Lentamente la sua bocca si tese in un
sorriso amaro e piano canticchiò, soffiando tra le labbra schiuse.
‘No warning sign, no alibi/ We faded faster than the speed
of light’
La
sofferenza continuò la sua salita, sino ad intaccare il cuore preso in una
corsa forsennata e maledetta. La voce modellava le parole in una melodia
conosciuta e mai dimenticata: felpata, morbida, calda come due braccia
incastrate tra due corpi. Perfetta, dolce, armonica, evanescente, amabile come l’inenarrabile uomo che ne
plasmò la nascita.
‘Took our chance/ Crashed and burned/ No we'll never
ever learn’
No, non avrebbero
mai imparato: il piacere e il bisogno che ognuno nutriva verso l’altro superava
ogni sensazione e sentimento, andava oltre la consapevolezza del dolore che
sarebbe succeduto a quell’incontro, accresceva tra i loro corpi rendendoli
vittime e carnefici di un amore malato.
‘I fell apart / But got back up again’
Lo stomaco si riempì
di un’innata paura, sbiadendo la vista che corse, codarda, ad incontrare il
terreno. Ormai il cuore dettava battiti dotati di propria volontà, eludendo
ogni risposta logica se non quella timorosa che spiegava la via verso la
verità.
Ascoltò la sua
voce rimbombare tra la foresta, denudandola di ogni inibizione se non il
terrore di sbagliare. Sentì il suo lento passo muoversi con la solita
cadenza tra l’erba che crepitava sotto la suola delle scarpe, e il vento a
favore tracciare la via del suo profumo verso i ricordi della mente che
non davano giustizia a quell’immortale fragranza.
«Nadia.» sussurrò,
torcendo il suo cervello in un grido minaccioso di angoscia. Non aveva la forza
di muoversi, di rispondere a quel richiamo che si modellava tra le sue
labbra e tra il suo accento così familiare e serio.
La nostalgia
intaccò la voce dispersa della donna, facendola piano morire nello sguardo,
rinchiuso tra le palpebre strette che invocavano un bisogno limitante.
«Nadia.» questa
volta la voce era limpida, chiara come il cristallo. I loro ruoli si
confondevano nella nebbia dei sensi, mischiando le stesse emozioni in un’unica
anima selvaggia.
«Cosa ci fai qui,
Nadia?» lui era sempre stato il più forte, tra di loro. E in quel momento ne
stava dando un’eloquente prova: era riuscito a parlare, a confidarle parole, ad
esprimersi senza la paura di una possibile fine, a mettere da parte il dolore e
liberarsi da quelle stringhe che lasciavano squarci sulla pelle.
Le mancava quella
possente voce, il suono delicato e roco di una lingua che aveva imparato stando
insieme a lui, il suono della voce di un cantante.
Quando ebbe di
nuovo il potere sul suo corpo tremante, non riuscì a fare altro se non
innalzare al cielo il suo sguardo, incontrandolo in due polle tempestose e
ammalianti dai colori inspiegabili ed emotivi. Liquidi e caldi come un deserto
pronto al freddo della notte, forti e ghiacciati come le punte arcaiche
dell’Antartico.
«Jared.» invocò,
quasi fosse l’unico squarcio d’aria su tutta la terra, una nenia da sussurrar
nella solitaria notte nera.
L’americano
sorrise amaro tra il cipiglio serio dell’espressione, lasciando aperta ogni
porta per accedere al suo cuore .
E corse,
inciampando tra la terra scura, cadendo e rialzandosi, sfidando il vento caldo che
soffiava per non farli congiungere, stringendo tra di loro un patto di sguardi
e parole sospirate e mai dette. Corse,
forte e ancora più forte, sbiadendo ogni dolore intaccante. Corse, ancora e
ancora, sino a sbattere sul suo petto di marmo che l’accolse morbido e capiente
come lo era sempre stato, quasi non se ne fosse mai andata da lì. Piansero
entrambi, singhiozzando e scuotendo uno l’animo dell’altro, ora stretti e
agganciati senza alcuna intenzione di sciogliersi.
«Mi manchi.» parlò
l’uomo, poggiando con delicatezza le mani sulla schiena di Nadia ora totalmente
abbandonata sul suo petto. Non voleva andare via, non lo avrebbe più fatto.
Per sempre. Mai.
«Sono qui.»
sussurrò più e più volte, stringendo con forza le mani intorno al suo corpo
perfetto. Sentì dietro di lei la mano di Jared spostarsi, e quasi ne soffrì. Ma
quando arrivò a sfiorarle il collo, un
brivido percosse entrambi, urlando un bisogno fisico, mentale e spirituale che
nessuno dei due avrebbe mai immaginato. Con le dita continuò a vezzeggiare la
pelle in quel punto, salendo e scendendo, contaminando la carne del suo
profumo. «Jared», sospirò arcuando il collo dalla parte opposta, così che
l’americano potesse continuare a toccarla.
«Amo il modo in
cui lo dici» soffiò l’uomo tracciando con le dita leggeri ghirigori sulla nuca che
arrivarono a sfiorarle il profilo stretto del naso, le ciglia e poi le palpebre
irrequiete, perdendosi nell’oblio notturno e misterioso delle iridi nere di
Nadia. Toccò con i polpastrelli le guance, sino a blandire le labbra carnose e
rosee come chicchi di melograno. Queste si schiusero in un gesto
spontaneo, attirando il piacere di Jared che rispose poggiando la fronte su
quella della donna. Ognuno respirava il respiro dell’altro, smarriti in un
mondo lontano anni luce da ogni possibile immaginazione. I loro nasi si
sfioravano avidi, in uno scontro piacevole e ora non più temuto, calando il
viso in un contatto ancora più stretto, ancora più saturo di noi.
Con le guance che
piano si incontravano, Nadia portò una mano tra i capelli scompigliati
dell’uomo, attirandolo con strana audacia verso di sé. Così le loro labbra si
ricongiunsero, morbide e calde si cercarono con forza e bisogno, scatenando
un’esplosione di epiteti e sostantivi che non sarebbero mai riusciti ad
eguagliare quelle sensazione marziane, disperse tra la polvere rossastra
dell’aria di Marte. Tutto si amplificò,
mostrando quanto uno non potesse più fare a meno dell’altro. Delle sue labbra,
della sua pelle, del suo profumo, dei suoi sospiri, della sua voce.
Gesti si confusero
tra lo smarrimento di emozioni, scontrando ancora e ancora le loro bocche,
insensibili al bisogno d’aria che riuscì a dividerli solo per pochi secondi
invincibili. Si guardarono, amanti persi e letali, per poi tornare all’attacco
e baciare di nuovo, scorrendo con la lingua tra le labbra, a leccare un sapore
mai dimenticato e dolce come stille di miele. Le dita di Nadia si muovevano
tremanti tra le ciocche di capelli di Jared, perdendosi in quel colore scuro,
ennesima pazzia tra tutte le capigliature cambiate, e le pelli nude in più
punti si sfioravano e producevano, anche se per pochi istanti, un calore e una
necessità assordante. C’era tutto: loro, il mondo che si muoveva funesto
al loro intorno a riscattare una cittadinanza ormai persa, i pensieri ora fusi
in atti che li rendevano una cosa sola, la casa dei Leto, sullo sfondo, bella e
bianca simile a un miraggio tra tutta quella terra e quell’erba, e le loro
lacrime, che fino a quell’istante non avevano che lasciato solo ombre salate
sulle guance senza qualcuno con cui condividerle.
«Non scappi di
nuovo via, vero?» la voce del cantante si distinse tra il sapore umido delle
proprie labbra che la ragazza prese a mordere con affetto, sorprendendo Jared
che si trovò impreparato a mal celare un gemito di emozione, sorpresa e piacere.
«Cosa te lo fa
pensare?» sorrise Nadia, spostandosi quel poco possibile per respirare un’aria
che non sapeva più di lui. Si guardarono, fermando ogni lancetta in ogni
orologio, dispersi e non più recuperabili tra le ciglia e le iridi, costruendo
un contrasto di colori che ormai conoscevano a memoria. Onice e cielo, cielo e
onice.
«Perché rispondi
sempre con una domanda?» chiese, piegando il collo da un lato, come un gatto
curioso. «Perché mi piace metterti in difficoltà» asserì la ragazza, sorridendo
serena come non le era stata da tempo.
Era vero: amava
metterlo in difficoltà. Che fosse un morso, o una domanda, poco importava. Lui
era sempre così saggio, in alcuni casi quasi austero e da lei temuto per tempi
immemori, che quello era l’unico modo per rendersi conto quanto umano fosse
persino lui, un marziano serio e incontrollato.
Lui la osservò
dall’alto della sua statura, con lo sguardo dolce e pensoso di un uomo che
conosce e cerca esperto i segreti della terra, poggiandole una mano sulla
spalla, solenne nei gesti. Lei portò le dita sulle sue, stringendo la presa che
soffocò le loro falangi intrecciate.
Erano solo loro,
nient’altro: due puntini luminosi sulla mappa satura di stelle.
«Non vai via»
questa volta non era più una domanda, ma un’affermazione e una tacita speranza.
«Finché non lo
vorrai tu, no» rispose la ragazza aggiungendosi a quella speranza condivisa.
Lasciarono cadere
le mani nel vuoto dell’aria, dirigendosi silenziosi e attenti nella casa di
Jared, oasi sperduta e luogo di perdizione.