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Autore: Violet 95    04/12/2011    4 recensioni
Halloween è la notte delle streghe, dei fantasmi, dei demoni e degli incubi. Soprattutto di questi ultimi. Ed è proprio in uno di loro che la nostra protagonista, una ragazza scettica ai fantasmi, teme di essere caduta: solo che non si aspettava che il suo incubo prendesse le sembianze di un demone vestito di bianco e chiamato Mephisto Pheles. Ciò che li aspetta, in questo breve racconto, va' ai confini del sogno, della ragione e della follia. Ciò che li aspetta è la notte di Halloween.
Premessa: l'ho scritta di getto ieri sera alle dieci e mezzo e, guarda caso, era proprio Halloween. E' la prima che scrivo di Ao No Exorcist e non sono certa del risultato. Spero che la apprezziate voi tutti!
Genere: Avventura, Horror, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mephisto Pheles, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Nella tana del Coniglio

 

 

“Ma io non voglio andare fra i matti”, osservò Alice.

“Be’, non hai altra scelta”, disse il Gatto

“Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta”.

“Come lo sai che sono matta?” disse Alice.

“Per forza,” disse il Gatto: “altrimenti non saresti venuta qui”

[Alice nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carroll]

 

 

Non seppe dire con precisione per quanto tempo stesse cadendo, ma nell’attimo in cui toccò terra le parve che fosse passata un’eternità. Si sentiva come una piccola Alice, indifesa e innocente, caduta nella tana del Coniglio e catapultata nel Paese delle Meraviglie: solo che lei non aveva niente dell’Alice di Lewis Carroll, né la sua innocenza né la sua ingenuità.

Mentre tornava con la mente alle letture della sua infanzia, una luce improvvisa la investì, accecandola, e l’oscurità di quel luogo venne dissipata. Quando riaprì lentamente gli occhi, Faust vide finalmente ciò che per ogni demone diviene infine cibo: i desideri e le tenebre dell’animo umano. E quelle della donna che abitava la casa rosa erano particolarmente inusuali, al punto da farle credere di essere finita veramente nel Paese delle Meraviglie.

Gli edifici, che si perdevano in un soffitto infinito, erano costituiti non da grigi mattoni, bensì da ciambelle glassate di rosa, arancio, azzurro e con caramelle dei colori dell’arcobaleno sparse sopra, poste una sopra l’altra a creare una pericolosa e pendente torre di Pisa; torte di oltre venti piani con la crema che fuoriusciva dalle fessure di pandispagna, come un vulcano in eruzione, si piegavano in avanti, facendo colare la cera delle candele rosa, mentre altre si appoggiavano alle loro vicine, sorreggendosi a vicenda. Da un punto imprecisato del soffitto piovevano altre caramelle, insieme a coriandoli colorati che si ammucchiavano in un unico punto della strana città; il viale che le si apriva dinanzi era costeggiato da numerosa porte viola, ognuna riportante un numero romano, e le mattonelle a scacchi, di cui il viale era formato, si illuminavano a scatti, cambiando tonalità di colore. Altre montagne di numerosi oggetti – fra cui aghi e bottoni, peluche sorridenti, bambole vestite a festa, perle e pietre preziose – erano poste senza un ordine preciso, nascoste dalla poca oscurità rimasta come oggetti dimenticati; nell’aria volavano animali simili a farfalle, ma dai colori spenti e privi di un’ala. Luci rosa e di altre tonalità del medesimo colore illuminavano quell’ambiente strano, che rimandava forse al carattere e ai gusti dolci e femminili della donna. Tutto ciò era forse una prigione d’avorio della sua anima, intrappolata perennemente nei ricordi d’infanzia? Così forse si spiegavano tutti quegli oggetti…

D’improvviso, tutte le porte sul viale si aprirono di scatto e di lì uscirono degli enormi orsi di pezza, con toppe grigie che bloccavano le fuoriuscite di gommapiuma e ognuno privo di un arto. Così questi inquietanti esseri zoppicavano allegramente per il viale, per poi dirigersi tutti insieme verso quella pioggia di confetti e coriandoli; quelli che potevano alzare le braccia – o il braccio – tentavano di afferrare quelle delizie, mentre gli altri spalancavano la loro bocca perennemente aperta e ingoiavano ciò che capitava loro di prendere.

Faust, incuriosita da quello spettacolo, si avvicinò senza fare troppo rumore al branco, sbirciando di tanto in tanto le porta viola che si erano da subito richiuse, sperando che si riaprissero di nuovo per poterci entrare.

 

Questo luogo è così strano… Dopotutto, rispecchia la personalità della persona che ci abita.

 

“Sarebbe questo un incubo? Ah, spero che d’ora in avanti siano tutti così!”

 

“Invece di ridere, guarda cosa sta accadendo a quei giocattoli…” le consigliò cupo Mephisto.

 

Richiamata all’attenzione, Faust volse gli occhi al branco di peluche e sentì un grido morirle in gola: i corpi senza vita degli orsi giacevano in una pozza di sangue cremisi sul viale, mentre quei pochi che erano ancora in piedi, non appena ingoiavano quelle caramelle, cadevano anch’essi con un secco tonfo. Tutti vomitavano sangue dalla loro bocca, mantenendo però quel sorriso immutabile sul volto di pezza. Altri ancora, invece, cominciavano a prendere lentamente fuoco al tocco dei coriandoli, facendo salire alle narici della ragazza un nauseante odore di carne bruciata.

 

Carne? Com’è possibile…?! Sono di pezza, non sono umani!

 

Faust si portò le mani alla bocca per trattenere un conato di vomito, intimandosi nuovamente la calma che però non arrivava.

 

“Non stare lì impalata, vai a vedere cos’è quella pioggia assassina!” le ordinò Mephisto, riscuotendola dalla sua trance.

 

Facendosi largo fra i cadaveri degli orsi, Faust tese una mano per toccare la pioggia e la ritrasse subito, trattenendo un gemito di dolore; si guardò la mano ferita e si rese finalmente conto della pericolosità di quel luogo: non erano caramelle né coriandoli, ma puntine colorate e scintille di fuoco pronte a esplodere al minimo contatto.

Sentendo la paura salire, indietreggiò e inciampò su uno dei cadaveri, bagnandosi di quel liquido tanto caro agli umani e assai gradito dai demoni. Lanciò un urlo, che si espanse per i palazzi di quella città, e tentò di fuggire via, mantenendo l’equilibrio sulle sue gambe malferme.

Lo stava facendo di nuovo: fuggiva di fronte alle sua paure, lasciando le cose come erano. Per punire se stessa, per punire gli altri.

 

 

Aaaah, scappate! Sta arrivando il mostro!” urlò un bambino.

 

“Arriva la bambina che vede i fantasmi! Stalle lontano, altrimenti ti attaccherà una maledizione…” incalzò un altro bambino.

 

Ogni giorno l’arrivo della povera bambina era accompagnato da queste crudeli grida di finto terrore, che intimavano gli altri a farle ala mentre passava. Anche se voleva piangere e sfogarsi, battere pugni e calci a terra, la bambina tratteneva questi sciocchi impulsi che erano naturali per un bambino della sua età. Lei era forte e, anche se stava male, non doveva mai mostrarsi debole di fronte agli altri.

Un giorno, un bambino temerario le lanciò un piccolo sasso e questo scatenò una guerra a chi lanciasse il sasso più grosso al mostro: la colpivano in viso, alla stomaco, sul collo, sulle braccia… Per questo tornava a casa sempre piena di lividi viola. Ma anche se sentiva un forte dolore e una cieca rabbia, la bambina non diceva mai nulla, né si difendeva.

I demoni, però, sentivano i suoi sentimenti avversi e, attratti da questa forte aura negativa, attaccavano sia lei che gli altri bambini. Questi fuggivano urlando e piangendo, mentre la bambina osservava il vero spettacolo senza fare nulla per impedire ciò: loro le avevano fatto del male, quindi dovevano pagare.

Ma ogni volta che succedeva una cosa del genere, non riusciva a guardare la scena fino in fondo e fuggiva anche lei, non perché era inseguita da un demone, ma per non farsi vedere piangere da nessuno. Non appena sentiva le lacrime che le annebbiavano la vista, si rifugiava nel suo amato bosco e di lì non usciva fino al crepuscolo.

Nessuno sapeva cosa faceva veramente, ma di una cosa erano tutti certi: lì da sola non poteva fare niente, se non piangere.

Nessuno però sapeva un’altra cosa di quel bosco: che ogni volta che ci entrava, almeno lì, non era mai veramente da sola.

 

 

“Perché fuggi?” le domandò tranquillo Mephisto, nonostante la situazione stesse precipitando.

 

Faust non rispose, ma continuò a correre per il viale a scacchi, che avevano smesso di cambiare colore e si erano fermati sul nero e sul bianco. Il mantello che svolazzava le era di impaccio e avrebbe voluto toglierselo, se un ringhio sommesso di Mephisto non l’avesse desistita dal suo proposito. Ritenne che la scelta migliore era quella di aprire una delle porte viola; ma non appena posò una mano su un pomello, tutte le porte cominciarono a muoversi vorticosamente, scambiandosi fra loro e circondando la ragazza spaventata. Infine, tutte si unirono in un’unica enorme porta, alta quanto i palazzi di torte, e si piantò di fronte a Faust, impedendole la fuga.

La ragazza sentì le gambe cedere e cadde in ginocchio, più terrorizzata che rassegnata, di fronte a quel colosso, mentre la città intorno a lei stava lentamente cadendo in rovina: i palazzi e le montagne di giocattoli crollavano come tasselli di un domino; le bambole riccamente vestite voltarono di scatto la loro testa verso Faust, guardandola con occhi vitrei, e spalancarono le loro bocche, facendo uscire un suono stridulo simile a una risata e mostrando dei denti aguzzi e biancheggianti; le farfalle spente iniziarono a volare sempre più vorticosamente, ricoprendo il corpo di Faust. Queste graffiavano con le loro ali la pelle della ragazza e spargevano una polverina che corrodeva la pelle.

Faust tentava di coprirsi con il mantello, senza però riuscire a trovarlo, e intanto subiva quel doloroso bruciore e quelle risate isteriche che le perforavano i timpani. Non urlava più, né osava piangere, ma sussurrava in preda ai singhiozzi parole sconnesse, nel disperato tentativo di uscire da quell’incubo che la stava uccidendo.

Mephisto sapeva che se non avrebbe aiutato la ragazza, questa o sarebbe impazzita, o l’avrebbero divorata i demoni. E ciò, per lui, era un’enorme fonte di problemi e di complicazioni che avrebbe preferito evitare. Sebbene quella ragazza fosse forte, la sua mente era troppo fragile e forse non pronta a sopportare le oppressioni dell’animo altrui; forse era stato troppo precipitoso a concederle tutto quel potere.

Ma oramai era troppo tardi per i rimpianti.

 

“Ascolta, Faust, tu vuoi morire?” domandò gentilmente Mephisto, scandendo bene ogni parola, di modo che raggiungessero la sua mente sul punto di crollare.

 

Faust non rispose, ma annuì scuotendo più volte la testa, un po’ per liberarsi di quelle farfalle, un po’ per rispondere alla domanda.

 

“Vuoi salvare Greta, la tua migliore amica?”

 

Stessa reazione di prima, stavolta più convinta.

 

“Allora, se qualcuno ti offre dei poteri non alla portata di un comune umano, sfruttali! Possiedi il tocco di Satana, usalo! Ospiti nel tuo corpo un demone come me, e questo stesso demone si mette al tuo completo servizio! Cosa aspetti? Scatena il tuo vero potenziale!” gridò Mephisto, fra un misto di incitazione e curiosità.

 

Appena queste parole raggiunsero il subconscio della ragazza, una fiammata blu ricoprì il suo corpo e si espanse in tutta la città, incenerendo le farfalle velenose e bruciando ogni cosa che prima era parsa tanto piacevole al suo occhio. Perfino le bambole indemoniate vennero investite da quel fuoco, sciogliendosi poi in fiumi di cera grigiastra. Un odore di carne bruciata giunse alle narici della ragazza.

Ma stavolta le fiamme non si acquietarono. Faust le lasciò andare, sentendosi per la prima volta libera e potente. Potente, lei, da sempre una debole che fuggiva dalle sue paure: finalmente le era permesso affrontarle.

Lasciò quindi che le fiamme di Satana le ricoprissero il corpo, come un’armatura, e che il sangue demoniaco le scorresse libero nelle vene, per raggiungere finalmente la consapevolezza della debolezza dell’animo umano: ognuno avevo una parte demoniaca dentro di sé, pronta a risvegliarsi alla prima occasione.

Mephisto, a questa esplosione di energia, parve eccitato come lo può essere un bambino dopo aver scoperto qualcosa di strano, e, dentro di sé, confermò i suoi sospetti: per accendere la miccia, bastava solo incitarla. E nominare Greta. Non pensava che questo nome gli sarebbe tornato poi utile, un giorno…

 

Mephisto!” lo chiamò Faust.

 

“Dimmi, mia cara fraulein?”

 

“I tuoi poteri… Mi permetteresti di usarli? Hai detto di essere al mio completo servizio, no? Bene, adesso puoi dimostrarmi la veridicità dietro queste parole!”

 

Mephisto rimase in silenzio, soppesando la situazione: certo, aveva numerosi assi nella manica, ma non voleva sfruttarli tutti con questa ragazza. Optò quindi per la decisione più saggia e giusta, almeno a suo parere: prestarle una minima parte dei suoi poteri, che lei avrebbe potuto giostrare a suo piacimento.

 

“Molto bene, Faust. Ritieniti fortunata, non a tutti prometto un simile privilegio”

 

Detto ciò, ai piedi di Faust comparve un pentagono che lanciava bagliori rosa e dal quale usciva, seppur lentamente, il manico di quello che sembrava uno scettro. Faust, rimasta un poco interdetta da questa apparizione, si riprese dallo stupore e afferrò con entrambe le mani lo strano oggetto, tirandolo a sé.

Lo scettro sembrava che provenisse dalle profondità della terra stessa e Faust durò non poca fatica ad estrarlo dal tutto; quando infine ci riuscì, ciò che si ritrovò fra le mani indolenzite era un lungo e pesante scettro d’oro, finemente lavorato e liscio al tatto, con l’estremità a punta e un’enorme rubino scintillante incastonato in cima, che lanciava bagliori fugaci e rifletteva l’immagine cremisi della ragazza. Una volta che lo scettro era stato estratto del tutto dal terreno, il pentagono svanì, insieme alla luce rosata, che sicuramente era un tocco personale di Mephisto.

Faust, fissando lo scettro, non riusciva a capire come questo soprammobile potesse esserle d’aiuto nella sua situazione attuale; doveva ammettere che era pesante, ma riteneva che darlo in testa ai demoni non sarebbe stato sufficiente. Mentre rifletteva sul da farsi, una delle bambole investite dal tocco di Satana – ora ridotta a un ammasso di cera informe, ma ancora in grado di muoversi – si distaccò dal mucchio delle sue sorelle in fiamme e, lanciando uno sguardo pieno d’odio dall’unico occhio rimasto alla sua carnefice, spiccò un salto di un paio di metri  e si avventò sulla ragazza, facendo uscire dalla bocca storta un grido agghiacciante. Spalancò le fauci e mostrò al nemico le sue bianche zanne, pronte a lacerare la carne.

Faust distolse lo sguardo dallo scettro e si accorse di quella visione da incubo che incombeva su di lei. Sul suo volto si dipinse una maschera di nuovo terrore, facendola ricredere sull’innocua natura delle bambole; d’istinto alzò lo scettro, tentando di proteggersi da quelle tenaglie, e un nuovo pentagono dai contorni rosa comparve davanti allo scettro, intromettendosi fra la preda e il predatore. Non appena la bambola toccò quel disegno, venne respinta e scaraventata lontano, finendo contro un edificio di marzapane che crollò dopo il violento impatto, seppellendola fra le dolci macerie.

Faust osservò stupita lo scettro e poi il pentagono che l’aveva protetta, fungendo da barriera. Anche se non poteva vederlo, era certa che Mephisto in quel momento stava ghignando soddisfatto: fin dall’inizio sapeva che non ci sarebbero stati problemi.

Dopo la misera fine della compagna, altre bambole carbonizzate iniziarono ad attaccarla da tutti i lati, costringendo Faust a eseguire contorti movimenti per respingere tutti quegli attacchi. Ogni bambola, al contatto con quella barriera, veniva scaraventata addosso ai palazzi o finiva in pezzi ai piedi della ragazza. Faust cercava di ignorare i resti inumani che le si ammucchiavano davanti e si costrinse a pensare che non erano persone reali e che il tanfo di carne bruciata era solo frutto della sua mente ormai spossata.

Mephisto cominciò a mostrare segni di impazienza, chiedendosi quando sarebbe comparso il vero boss della partita.

 

“Per quanto tempo vuoi restare sulla difensiva? Attaccali!” le ordinò sbuffando.

 

“E come dovrei fare, di grazia? Non mi lasciano un momento di respiro e non posso certo usare questo bastone per darlo in testa!” obiettò Faust, ansimando per la fatica e la concentrazione.

 

“Come osi chiamare questo raffinato oggetto bastone? E poi, basta che usi le fiamme come diversivo e infine lo scettro per colpirli. Ah, per la precisione, non devi darlo in testa a nessuno”

 

“Allora cosa dovrei fare?” chiese disperata Faust.

 

“Usa un po’ di immaginazione!” disse semplicemente Mephisto, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

Faust, sebbene le scocciasse ammettere che lui aveva ragione, fece quello che le aveva detto il demone: concentrò – non con poca difficoltà – le fiamme davanti a lei e le fece esplodere come un fuoco artificio, bruciando nuovamente le finte carni oramai distrutte delle bambole, che caddero con un secco tonfo a terra, estinguendosi insieme alle fiamme. Quelle poche sopravvissute si arrestarono, intimorite di subire anch’esse quella sorte. Faust ne approfittò per escogitare una strategia efficace. Osservò lo scettro, ammirando la lucentezza e la bellezza del rubino: sembrava un enorme occhio perennemente aperto sul mondo.

 

Se solo avessi un’arma più potente…

 

Le tornarono poi in mente le parole di Mephisto, così prive di senso all’apparenza: Usa un po’ di immaginazione. Forse non era del tutto folle il suo consiglio; dopotutto, era un demone esperto della magia, uno dei più forti – a quanto sapeva – dell’Inferno, dopo Satana: che non avesse progettato un’arma tanto potente da contrastare i suoi simili, le sembrava alquanto strano.

Facendo questi pensieri, non si accorse delle bambole che stavano puntando di nuovo su di lei, né degli ammonimento preoccupati di Mephisto.

 

“Pensa in fretta…” gli sentì dire, quasi in un sussurro.

 

Faust non gli prestò molta attenzione, intenta com’era a fissare quell’arcano oggetto e a rimuginare sul da farsi.

Le bambole approfittarono della sua distrazione e si gettarono nuovamente su di lei, più agguerrite di prima. Ma Faust non le degnò di uno sguardo, chiusa nei suoi pensieri.

 

“Arrivano!” urlò Mephisto, tentando di risvegliarle la coscienza, invano.

 

Se avessi un’arma…

 

Le bambole erano ormai a un passo. Una di loro si distanziò dalle altre, puntando vorace alla testa della ragazza: pochi centimetri le separavano.

 

… Sarebbe di sicuro un’arma da fuoco, visto che sono in grado di usare il tocco di Satana. Un fucile, ad esempio!

 

Non appena questo pensiero le attraversò la mente, una leggera scossa la fece fremere sul posto, eccitando i nervi; non appena la sentì svanire, lo scettro cominciò a liquefarsi, a ricomporsi, a liquefarsi di nuovo, come se cercasse una forma precisa. Faust, terrorizzata per la sua mano, tentò di lasciar andare quell’ammasso informe di metallo dorato, senza però riuscirci; una nuova scossa le pizzicò i nervi, come se stesse scavando nella sua mente alla ricerca di un’immagine. Quando infine sembrò averla trovata, ciò che restava dello scettro iniziò a prendere una forma, allungandosi, tingendosi di argento, fino a trovare finalmente la sua vera essenza: un fucile napoleonico, con una canna lunga e di peso leggero, con un piccolo pentagono inciso sul manico e un rubino incastonato al centro della stella, che se poggiata a terra l’arma avrebbe potuto superare Faust in altezza.

Era sorpresa. Alla fine, il suo desiderio era stato realizzato. Che fosse per merito di Mephisto o di qualche altro diavolo, non le importava: il solo pensiero di avere un’arma per proteggersi, per salvare Greta – e, ovviamente, i suoi genitori – le dava una sicurezza e una forza che prima non possedeva. Ogni paura venne calpestata da questi nuovi sentimenti che si agitavano nel suo animo. Sentì le fiamme blu crepitare dentro di lei, desiderose di venire nuovamente liberate e di spargere una scia di distruzione sulla solo strada.

Così, quando puntò la canna del fucile contro quella bambola e premette il grilletto, non trattenne un ghigno malefico e beffardo, con una debole scintilla di follia negli occhi. Mephisto la notò e pensò cupamente che ben presto quella scintilla sarebbe diventata una fiamma al pari di quelle di suo padre.

Lo sparo riecheggiò sinistro, facendo arrestare le altre bambole. Faust non sentì il rinculo e di questo parve soddisfatta.

 

Il mio corpo sembra che non abbia più niente di umano… Dovrei esserne felice?

 

Scacciò questo fastidioso pensiero privo di risposta e liberò del tutto la mente, concentrandosi solo su una parola che per lei stava assumendo un nuovo e incredibile significato: sterminare. Se li avesse sterminati tutti, Greta si sarebbe salvata: ciò che doveva fare era solo abbandonare ogni istinto umano e lasciarsi andare al suo nuovo potere.

Così fece. Sparò altri quattro colpi, centrando perfettamente le teste delle bambole – nonostante non avesse mai avuto un’ottima mira –, e gettò via il fucile, ormai scarico; quasi immediatamente, ne uscì un altro dal terreno, accompagnato da un nuovo pentagono, e Faust fece la stessa cosa di prima. Per quanti fucili gettasse, ne comparivano di nuovi e avrebbe potuto continuare così all’infinito se le bambole non fossero scomparse del tutto, decimate dalla forza distruttrice dell’arciduca demoniaco.

Ciò che sorprese Mephisto, osservando in silenzio il macabro sterminio, era l’agilità impressionante – mai posseduta – con cui la ragazza eseguiva i movimenti, aggraziata come pochi, ma con una forza che lo preoccupava; ma ancora di più, era la follia che lentamente stava prendendo il possesso della sua mente a intimorirlo: se fosse impazzita, quel corpo non le sarebbe più servito.

Sterminate le bambole, l’enorme porta al centro del viale si tinse di nero e si aprì all’improvviso. Faust, nonostante fosse infervorata, tese i muscoli fino allo spasmo.

 

“Eccolo… Sta arrivando il vero boss: il creatore di questo folle mondo!” pigolò eccitato Mephisto.

 

Dalla porta uscì fluttuando un piccolo coniglio bianco di peluche, malamente cucito e in pessime condizioni: la metà di un orecchio era stata strappata via con violenza, mentre il resto era cucito con toppe colorate e ricami fatta da una mano malferma ; mancava un occhio, mentre quell’altro lanciava fugaci bagliori scarlatti che non avevano niente di rassicurante; un panciotto logoro, nero, era slacciato e lasciava intravedere la cordicella d’oro di un orologio da taschino, nascosto sotto gli abiti; il tutto completato da un enorme papillon rosso e un sorriso tipico dei peluche.

Faust lo guardò interdetta e un moto di delusione la sorprese: si aspettava forse una creatura più forte solo per il puro piacere di farla a pezzi? La sua possessione aveva cambiato molti tratti del suo carattere…

Mephisto, però, era guardingo di fronte a quel nemico. Sperò solo che la ragazza, presa dai suoi poteri, non facesse qualche follia.

 

“È vero, è piccolo, ma non farti ingannare dalle apparenze. Avverto uno strano intento omicida e un intenso rancore, ma non credo che siano rivolti a te… È meglio aspettare una sua mossa, prima di…” ma non fece mai in tempo a finire la frase che Faust fece uno scatto fulmineo in avanti, raggiungendo il coniglio, e gli puntò il fucile sul muso.

 

La bestia non fece niente per difendersi, quando ricevette il colpo. La testa del peluche si aprì in due e cadde a terra, senza fare rumore, mentre una pozza di sangue si spandeva sul viale. Faust fece una smorfia di disgusto e si voltò, decisa ad andarsene. Non sentì le repliche di Mephisto sul suo comportamento, né sentì lo strano rumore – come quello di una persona che si stesse strozzando – provenire da dietro le spalle. Ancora non riusciva ad uscire da quello stato di trance.

Non si accorse del coniglio che si era rialzato e aveva spalancato la minuscola bocca, facendone uscire con un singulto di sangue un enorme verme che si estendeva per tutta la città: a strisce bianche e nere, con una maschera bianca che mostrava un ghigno malefico e due occhi storti, spalancò anch’esso le fauci e inghiottì Faust.

Il demone, essendosi mostrato per ciò che era veramente, rise sguaiatamente e iniziò a distruggere tutti i resti di quella città di torte e giocattoli, mosso da una feroce rabbia che solo un altro folle potrebbe comprendere. Ad un tratto si fermò davanti a un palazzo di ciambelle, preso da un lancinante dolore, e si erse in tutta la sua altezza, spalancando la bocca per farne uscire un rantolo strozzato.

Poi le fiamme di Satana lo avvolsero nella loro morsa mortale, bruciandolo da dentro; infine, un taglio netto lo separò, facendo cadere le due metà del corpo colossale in due punti differenti della città. Dall’apertura creatasi, ne uscì Faust con una falce dalle forme spigolose, di un rosso acceso e dalla lama sanguinante, con un enorme occhio posto in cima, la cui pupilla a spillo si dilatò al contatto con il nero sangue.

Faust, per nulla sconvolta dal viaggio nell’apparato digestivo del demone, atterrò con grazia sul viale, osservando con aria schifata il mostro. La testa era rivolta verso di lei e ogni traccia di follia era svanita da quegli occhi spiritati, adesso ricolmi di una tristezza e di una malinconia strazianti, e di qualcosa di molto più profondo: pentimento. Calde lacrime di sangue scesero da quel volto pallido e singhiozzi strozzati provenivano da quella gola vorace che tanto aveva divorato, senza mai accontentarsi.

Faust, per nulla impietosita da questa scena, alzò la falce in alto, pronta a fare l’atto estremo. Mephisto, da dentro, non disse nulla, ma guardò gli occhi della ragazza e notò la differenza dalla prima volta che l’aveva incontrata: un cieco odio e un folle desiderio, misto a una forte speranza, esprimevano quei due lapislazzuli, le cui pupille rosse rivelavano la loro natura demoniaca.

Per un attimo, Mephisto provò compassione per quel demone che stava per passare sotto la lama di quella che gli uomini chiamavano “giustizia”.

 

“Intrappolata nella tua infanzia, non sei riuscita ad affrontare il mondo crudele degli adulti e sei ricaduta negli abissi della follia. Ciò che ti resta, ora, è solo un folle odio privo di senso verso ciò che prima amavi, e che poi ti ha ridotto così: la tua infanzia, con i tuoi peluche e le tue torte, è stata la tua stessa rovina. Per questo, ora ti libero dal tuo incubo” recitò Faust, pronunciando parole che pensava non avrebbe mai detto: da dove venivano? Era forse Mephisto a suggerirle?

 

Calò la sua falce, ignorando gli occhi spaventati del demone, e compì l’atto estremo. L’incubo della donna della casa rosa terminò.

Mentre il corpo del demone svaniva, anche il resto del meraviglioso mondo  stava lentamente cadendo a pezzi, rivelando ciò che era in realtà: un’immensa landa di oscurità, ciò che ci aspetta prima del risveglio.

Ben presto Faust si ritrovò sospesa in queste tenebre, con i palazzi di torte, il viale a scacchi e i cadaveri dei giocattoli svaniti. Solo a quel punto tornò in sé, sentendo quella parte che l’aveva controllata finora nascondersi negli antri più remoti della sua anima. Solo a quel punto, si rivolse finalmente a Mephisto.

 

“È tutto finito?” domandò con un filo di voce.

 

“Mia cara, siamo appena agli inizi, e manca ancora molto all’alba! Il divertimento deve ancora venire!” disse giocoso.

 

Faust si abbandonò all’oscurità, sicura che prima o poi sarebbe finita. Allora, le tornò in mente il volto del demone: sembrava che stesse piangendo per ciò che aveva fatto, e che le stesse chiedendo scusa. E anche qualcos’altro.

Ti prego, non farlo!, sembravano dire i suoi occhi. Quando chiese di questo a Mephisto, lui non le rispose. Al contrario, canticchiò una canzone appena inventata da lui su una bambina curiosa e su un coniglio bianco: l’intento era quello di tranquillizzare l’animo inquieto della ragazza.

Faust si addormentò, cullata dalla voce del demone, e sperò nuovamente di non sognare niente, come faceva sempre. Ma aveva riiniziato a farlo in questa notte, quando il suo piccolo mondo cadde in rovina.

Forse, se qualche ora fa non avesse sognato, tutto ciò si sarebbe potuto evitare.

 

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

capitolo molto lungo e molto sofferto… Arrivata a un certo punto, tutto filava liscio ma quando sono giunta alla descrizione della battaglia contro le bambole indemoniate, mi sono bloccata. È stato difficile scegliere l’arma adatta a Faust, ma alla fine ho optato per uno scettro in grado di cambiare la materia! E non sarà solo quella una delle armi…

Vi è piaciuto questo incubo? Io mi sono divertita a descriverlo, spero che anche voi vi siate divertiati a leggerlo ^^. Per alcuni tratti mi sono ispirata a Mahou Shoujo Madoka Magica – appena finito di vedere – e per altri ai giocattoli che tengo in camera: tranquilli, non ci sono bambole assassine! Sono indecisa se mettere altri incubi, ma così rallenterei la storia… Voi che ne pensate?

Dai, commentate! Le critiche, sia negative sia positive, sono ben accettate. Ora me ne vado davvero: al prossimo capitolo!

Eins, Zwei, Drei! *puff

 

 

 

  
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