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Autore: Celest93    05/12/2011    2 recensioni
Charlene e Tyron, due ragazzi esperti di una materia che nessuno dovrebbe conoscere: l'infelicità, mischiata a tanto dolore, rabbia e paura, paura di dover rivivere i drammi che hanno caratterizzato la loro vita, tragedie che non augurerebbero a nessuno e che sperano di non dover nuovamente affrontare.
Lei a 18 anni, per la prima volta conosce la parola felicità, nonostante quel piccolo raggio di sole che ora le illumina le giornate sia nato anch'esso dal suo tormentato passato; Lui a 27 anni ha un solo obiettivo: vendicare ciò che gli è stato tolto, tanto brutalmente quanto violentemente, che non pensa più a crearsi una vita e ignorando il suo futuro, pensando a quello delle persone che deve far soffrire. Perchè l'unica vendetta possibile, è far soffrire persone a lui sconosciute, o quasi.
Le loro strade si incroceranno, ma nessuno pensa che l'altro abbia un passato degno della cronaca nera...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Capitolo 2 -



 
 
 
 
 
 
Ero stanca di fare tutto, stanca di piangere o di prendermi a sberle per la mia impotenza, stanca di vivere quegli incubi...
"Ancora non hai capito qual'è il tuo compito?" Stanca di doverlo sentir parlare, sempre con quel tono minaccioso e poco rassicurante. "Mi dispiace mia cara, ma è ciò che farai finchè io lo vorrò." Sorrise, o megliò ghignò, malefico come suo solito. Non volevo più vederlo, volevo solo poter vivere in pace, senza dovermi ogni volta spaventare per un nonnulla. Invece mi toccava penare.
"Mettiti in ginocchio." Inorridii, non potevo tollerare tanta umiliazione, ma appena aprii bocca per rifiutarmi, mi ritrovai già sbattuta con violenza contro al muro...
 
 
 
"Hey, che fai oggi?" Sbuffai, era solo la trecentesima volta che me lo chiedeva. E la risposta era sempre stata la stessa, a quanto pare era duro d'orecchi il ragazzo.
"Seth, per favore non insistere, sono impegnata." Risposi, sicura che sarebbe tornato all'attacco subito dopo. "Che cosa devi fare?" Alzai gli occhi al cielo, si può sapere dove voleva arrivare? Lui era tranquillissimo, incurante del fatto che forse poteva mettermi in imbarazzo con le sue domande. Decisi di accontentarlo, in parte.
"Devo stare a casa, a occuparmi di una cosa urgente, ti basta?" Finii il mio discorso appoggiando le mani sui fianchi, mostrandomi esasperata. Sorrise, forse pensando che non dicevo sul serio, invece avevo veramente degli impegni.
"Lo so che stai mentendo, tu non hai mai niente da fare." Presa alla sprovvista, appoggiai la camicetta che stavo piegando con cura maniacale per guardarlo stizzita, anche arrabbiata, per quello che voleva insinuare.
"Con questo cosa vorresti dire? Che non ho una vita?" Non ero più in vena di scherzi, non dopo quello che mi aveva detto. Aveva aperto la bocca deciso a parlare, quando lo bloccai, non volevo sentire delle stupide scuse, ne avevo già abbastanza di quelle farse.
"No, non dire niente, non voglio sentire una sola parola, io adesso sono occupata e non ho nessuna voglia di perdere questo lavoro." Mi allontanai, rivolgendogli un occhiata truce per il suo modo di parlarmi.
Nonostante adorassi Seth, avevo deciso di non raccontargli niente, e non era una questione di fiducia, più che altro non ne avevo il coraggio. 
Se gli avessi detto del mio passato, sarebbe stato più reale, mi avrebbe fatto più paura sapere che un'altra persona ne era a conoscenza, nonostante il peggio fosse passato.
E lui semplicemente non doveva dirle quelle parole, il problema era che mi sentivo terribilmente in colpa, avevo agito seguendo l'istinto, maledizione!
Quasi decisi di andare a scusarmi, finchè non ci pensò l'orgoglio a tenermi ferma nella mia posizione, avrebbe dovuto farlo lui il primo passo.
Passai la giornata a ordinare e spuntare le bolle, cosa che toccava sempre a me essendo nuova, o a pulire appena i clienti scarseggiavano, cosa alquanto impossibile.
Il negozio era diverso dagli altri per il semplice motivo che i commessi erano modelli, ovvero sfilavano se i clienti lo desideravano, mostrando gli abiti scelti e facendo loro vedere come sarebbero stati da indossati. Noi femmine ci ritrovavamo spesso e mal volentieri a mostrare top, maglie scollatissime, micro gonne o vestini che coprivano a malapena il necessario, anche chiamati semplicemente stracci, ma che costavano quasi quanto l'oro. Purtroppo avevo capito che la maggior parte della clientela maschile ci chiedeva di sfilare, non per vedere gli abiti ma chi li indossava, e che se ne tornavano a casa a mani vuote, ma soddisfatti per ciò che gli occhi avevano visto. Stessa cosa per i maschi, perchè neanche le femmine ci scherzavano, li facevano provare camicie, ovviamente sbottonate, o la maggior parte delle volte semplicemente stare in boxer, senza nient'altro addosso, mostrando il loro bellissimo corpo palestrato.
Un'altra particolarità del Aber&Belle era la possibilità di farsi fotografare con i commessi, e le clienti non si lasciavano di certo sfuggire la possibilità di farsi una foto insieme ad un bellissimo modello da mostrare fiere alle amiche o conoscenti. 
Terminato con la bolla ormai non mi restava che iniziare a pulire, essendo arrivati alla fine di quella giornata, bisognava lasciare tutto in perfetto ordine. Iniziai dal primo piano, passando per il reparto intimo, uomo, camicie e scendendo per fare il piano terra.  
Stavo cercando di mettere su uno scaffale una scatola, quando mi sentii tirare leggermente all'indietro, rischiando di perdere l'equilibrio e far cadere tutta la roba che avevo in mano, quando invece del freddo pavimento avvertii delle braccia forti circondarmi, impedendomi sia la caduta sia la figura imbarazzante di essere spalmata per terra. Stavo ancora cercando di capire che cosa fosse successo quando un tenero bacetto sulla fronte mi fece sorridere, ma sorridere di cuore, lo aspettavo e lo volevo. Continuò a tempestarmi la faccia di altri dolci baci, sugli occhi, sul naso, evitando accuratamente di avvicinarsi alle labbra, aveva capito cosa poteva fare e cosa no.
Finita la sua opera di perdono, mi girò lentamente il viso per mostrarmi il suo timido sorriso, in una muta richiesta, accettata da parte mia.
"Scusa, non intendevo dire quello." Era impossibile trattenersi dal saltargli addosso, infatti lo abbraccia di slancio, lasciandomi andare contro quel petto forte che mi ispirava tanta protezione, fiducia e una bellissima sensazione familiare.
 
 
Maledetta stronza, come hai potuto farmi questo, come?!?
Io non ti ho mai fatto niente, d'altronde non avrei mai potuto, sapevo quali rischi correvo se avessi anche solo immaginato a farti qualcosa.
Tu però hai fatto tutto, e dico tutto, così, senza un vero motivo, volevi solo sfogarti di una realtà che ti ha lasciata con l'amaro in bocca, con dei ricordi bellissimi - quelli si - ma che io neanche potevo sognare, non potevo perchè non li ho mai vissuti per poterlo fare.
Maledetta stronza...
 
 
Due settimane fa compivo 18 anni, due settimane fa ho trovato il lavoro di modella, due settimane fa ho conosciuto Seth, e queste sono le buon notizie riguardanti il 30 maggio; due settimane fa mi sono ritrovata il peggior regalo che qualcuno, o meglio lei, potesse farmi.
 
 
 
Dopo la visita al negozio e dopo avrer firmato tutti documenti, mi decisi a tornare a casa
Sbattei più volte le palpebre, sperando di aver visto male, mentre le lacrime tornavano a farmi visita.
Con la vista appannata, le gambe tremanti e il cuore che minacciava di uscirmi dal petto, mossi lentamente dei piccoli passi verso casa.
Continuai a camminare guardando ciò che mi aveva tanto terrorizzata, finchè non mi ritrovai per terra, inciampata nella mia borsa, malamente buttata sul marciapiede. I miei vestiti, le scarpe, gli accessori... tutti sparpagliati davanti alla porta, buttati senza il minimo riguardo nelle valigie aperte.
Alzai lo sguardo, la testa che mi girava, per assicurarmi che fosse frutto della mia immaginazione. Tutto li, era tutto vero.
Due valigie aperte, tutte le borse piene e straripanti abiti erano buttate davanti alla porta di casa. Quella che, evidentemente, non potevo più considerare casa mia.
Fu questione di un secondo, mi era bastato vedere quel pezzo di stoffa per far mancare al mio cuore un battito e ritrovarmi in piedi, a cercare disaperatamente le chiavi nella mia borsa.
"Oh Dio, oh mio Dio," singhiozzai tra le lacrime,"Fa che non è come penso, ti prego."
Mai mi era sembrata tanto distante la porta, mai avevo provato tanta paura in vita mia. La vista cominciò ad abbandonarmi, ma nonostante ciò mi ritrovai a bussare e urlare, battere pugni e tirare calci alla porta di legno. Niente. Dall' interno non proveniva il minimo rumore. 
Con il respiro corto e mani che non smettevano di tremare, provai ad infilare la chiave nella serratura. Mi risultò più complicato che mai: trovare la chiave, cercare di infilarla ma sbagliare continuamente per colpa della poca vista, e scoprire che era stata cambiata, fu un colpo tremendo.
"MALEDETTA STRONZA!" Urlai disperata, non smettendo di tirare pugni alla porta "APRI QUESTA DANNATA PORTA, KATY! GIURO CHE SE GLI HAI FATTO QUALCOSA...TI AMMAZZO!" 
Non capivo più niente, non potevo sopportare ne pensare che fosse successo proprio a me. Stavo male, mi girava la testa, ma il dolore più forte era quello nel petto: non me lo sarei mai perdonata.
Mi allontanai, con passo mal fermo, dalla porta avvicinandomi alla strada, per vedere se potevo in qualche modo salire dal balcone, quando notai una cosa in mezzo alla strada che che poco prima non avevo visto.
Ebbi il tempo di riconoscere la scarpetta azzurra, che la vista mi abbandonò definitivamente.
 
 
 
"Tesoro?" Un sospiro. Stavo sognando... mia madre? Mia madre?
"Tesoro, ha bisogno di te adesso, ascoltami e riprenditi." Riprovò, pregandomi.
Ero distesa in mezzo all'erba alta, probabilmente, perchè tutt'intorno a me era verde, e continuavo a fissare le nuvole, che pian piano cominciarono a coprirmi l'azzurro del cielo. Una normalissima giornata estiva che preannunciava temporali e maltempo.
Stavo cercando di capire cosa fosse quello stato di preoccupazione che provavo, da cosa derivasse la preoccupazione che mi stava stringendo il cuore in una morsa fortissima. Non riuscivo a capirlo. E in mezzo a questi pensieri, sentivo delle voci.
Piccole gocce d'acqua iniziarono a cadermi sul viso, accompagnando le lacrime che scendevano veloci sulle mie guance. Piangevo perchè ero in ansia per qualcosa, ma anche sforzandomi non mi venne in mente il motivo.
Vuoto totale nel cervello, un dolore lancinante al cuore.
"Non fare il nostro errore, amore. Non puoi abbandonarlo proprio adesso." La voce che desideravo sentire da diciotto lunghissimi anni, la voce che le mie orecchie aspettavano impazientemente di sentire, fosse stata solo una lettera, ma che avrei dato di tutto per sentirla, mi stava pregando di non fare il loro stesso errore. 
Papà, di quale errore stai parlando? 
Chi non devo abbandonare, papà? Non ti capisco. 
Ho sempre desiderato solo una cosa, ed era sentire la tua voce. Non potevo chiedere altro, non potevo. 
Però adesso sono felice, credo... 
Dove sei papà? Parlami, fammi sentire la tua bellissima voce, sgridami se vuoi, ma parlami. 
Ne ho bisogno...
Le lacrime continuavano il loro cammino, raggiungendo il mio collo, passando oltre lo scollo della maglietta.
"Charlene, ti prego, svegliati!" Una voce vicina, familiare, mi chiese di svegliarmi. Non ne avevo voglia. Non volevo svegliarmi per tornare alla realtà, non volevo affrontare la vita che mi aspettava li fuori. Sentire la voce dei miei genitori, quello si che era veramente importante, niente era più importante di loro. Diciotto lunghissimi, maledettissimi anni cresciuta aspettando il giorno in cui avrei sentito solo la loro voce.
"Invece si!" Perchè piangi, mamma? "C'è una cosa più importante di noi. Noi... noi ti abbiamo abbandonata, non siamo stati capaci di crescerti come si deve, però tu puoi e devi assolutamente farlo. Ti prego, non fare il nostro errore, non puoi abbandonare..."
Il mio cuore, prima ancora del cervello, aveva capito perfettamente le parole dette da mia madre, tant'è che mi svegliai di colpo.
"PETER" Aprii gli occhi, guardandomi intorno, e alzandomi di colpo. La testa che ancora mi girava, le lacrime che scendevano dai miei occhi. Ma non erano lacrime di disperazione, o tristezza, o dolore. No!
Un sorriso spontaneo, di felicità, mi nacque sulle labbra. Dall'altra parte del tavolo, sul divano, il mio angelo dormiva, incurante di tutto. Peter, una sola scarpetta azzurra ai piedini, e senza il bavaglino con Mickey Mouse che gli avevo messo la mattina, al collo,  teneva le braccia vicino alla testa, mentre un sorriso gli incurvava leggermente le piccole labbra verso l'alto.
Caddi in ginocchio vicino a lui, piangendo dall'emozione e accrezzandogli delicatamente i capelli, cercando di non svegliarlo, baciandogli tutto il viso, leggera come il suo respiro, attenta a non rovinare quel momento in cui sembrava in pace con il mondo intero. Continuai a guardarlo, toccarlo, e dirmi che avevo una cosa molto importante nella realtà che vivevo tutti i giorni: mio figlio. Nessuno mi aveva mai dato tanto affetto quanto lui, nessuno era mai riuscito a farmi sorridere di cuore, nessuno tranne lui mi aveva mai fatto provare un sentimento chiamato amore, felicità, affetto infinito. Mio figlio. La mia vita.
"Mi dispiace tanto." Mi voltai a guardare Elisa, nel suo completo elegante, cercando di non saltarle al collo per la felicità. Mi limitai ad abbracciarla, trattenendomi, riconoscente per quello che aveva fatto.
"Dispiacerti? Non oso immaginare cosa avrebbe fatto Katy al mio Peter se non ci fossi stata tu, non so come ringraziarti." Le sorrisi, ma lei non pareva contenta quanto me, sembrava tutto il contrario. Mi fece cenno con la testa di guardare la porta d'ingresso. Li vicino, due valigie pronte stavano in bella mostra.
"Lo sai che giorno è oggi, vero?" Mi domandò con tono dispiaciuto.
E purtroppo ricordai: il 30 maggio, giorno del mio compleanno, giorno in cui avevo trovato lavoro, giorno in cui quella stronza che per diciotto anni ero stata costretta a chiamare zia Katy mi aveva cacciata via di casa senza neppure avere il coraggio di in guardarmi in faccia - e aveva cambiato serratura alla porta per completare il suo regalo - era anche il giorno in cui Elisa, unica persona con cui andavo d'accordo e che mi poteva in qualche modo aiutare, partiva definitivamente per il suo paese natale: l'Italia.
Tornai con il morale a sotto zero. Dove potevo andare in una città dove non conoscevo nessuno? Chi poteva aiutarmi?
"Charlene, ascoltami... ti preparo una tazza di the come ti piace tanto, poi devo parlarti." Non mi lasciò il tempo di fiatare che sparì in cucina. 
Tornai a sedermi vicino a mio figlio, mentre aspettavo che Elisa tornasse.
Elisa non aveva vissuto una vita felice, aveva dovuto affrontare un sacco di problemi: dal suo sogno di diventare attrice non aveva più avuto un buon rapporto con i genitori, la cacciarono via di casa, la incolparono di essere una drogata (non vennero mai a sapere che apparteneva alla sua sorella maggiore quella strana busta contenente polvere bianca) non parteciparono al suo matrimonio, non volevano più vederla nè sentirla.
Elisa, quando scoprì di essere incinta, decise di mettere da parte l'orgoglio e chiamò i suoi genitori per dar loro la lieta notizia: 'non vogliamo nipoti drogati o alcolizzati' furono le uniche parole dette da suo padre. Riattaccò, e si promise che mai, mai più avrebbe messo piede in quello stato che non le aveva dato niente, se non un buon marito. Si trasferirono, allontanandosi da quella vita, decidendo di costruirne una nuova, tutta loro. 
Erano felici nella loro nuova villetta con giardino, con un bimbo di nome Nicola, lontani dal loro paese. 
Ogni estate Daniele, il marito, tornava per vedere i suoi genitori e i fratelli, con cui era rimasto in ottimi rapporti. Nicola cresceva senza aver mai conosciuto i nonni e gli zii, e arrivato all'età di dieci anni, chiese se poteva partire con il padre per poterli conoscere. Non aveva nessun problema Elisa a lasciarlo partire, perciò gli diede il permesso. 
Per dieci la storia fù sempre la stessa: Nicola partiva e tornava con un'idea che per Elisa era pura follia: voleva sposarsi. Certo, quando era piccolo pensava che stesse solo scherzando, però all'età di 20 anni non era più un bambino, sapeva quello che voleva ed era intenzionato a sposare quella dolce ragazza piena di lentiggini, a quanto ne sapeva lei. 
Unico problema? Era italiana, e Elisa non lo tollerava. Non poteva sopportare di vedere il figlio sposato con un'italiana, poteva andare bene qualsiasi ragazza, ma non lei. 
Non la conosceva, non aveva mai più messo piede in Italia, e non aveva intenzione di farlo. 
Litigarono. 
Aveva deciso tutto, lui: l'anno dopo si sarebbe sposato con Alice, con o senza la presenza della madre. Infatti si sposarono senza la madre di lui ma con il padre e la sua famiglia, fu un bellissimo matrimonio, la sposa era a dir poco bella, con quei bellissimi capelli simili al grano, occhi scuri e le lentiggini che avevano tanto fatto impazzire Nicola. 
Per un anno non si sentirono, finchè Nicola chiamò la madre nel cuore della notte per dirle che stava per diventare nonna. Stava piangendo, era al settimo cielo, voleva diventare papà. E voleva che la madre andasse a conoscere lei, la madre del suo futuro nipotino. Elisa disse di no. 
Litigarono ancora più violentemente della prima volta.
Le disse cose che non pensava, che lei non doveva più considerarsi sua madre, le disse di dimenticare di avere un figlio. 
Non parlarono più per mesi, finchè Elisa, pochi mesi fa, non se lo ritrovò alla porta che chiedeva di poter entrare. Non si staccarono, le era mancato avere il figlio in giro per casa. Nicola restò una settimana, passò quei sette giorni a pregarla, baciarla e coccolarla, per farle cambiare idea e portarla con sè a conoscere sua moglie. La promessa era che non avrebbe mai più messo piede in quel paese, con poca fatica declinò l'invito del figlio, seppur con un macigno sul cuore.
Era distrutta, Nicola era uscito di casa con due biglietti aerei, uno per sè e l'altro per il padre, senza nemmeno salutarla. D'altronde, che razza di madre era? 
Una settimana dopo la loro partenza, Nicola le telefonò per dirle poche parole, poche ma che ebbero la stessa potenza di una bomba atomica: "Mamma... ti... ti amo. Perdonami, per fav-ore pre-prenditi cura di Luca e Alice, mamma, mam..." Queste furono le ultime parole di Nicola prima di morire nell'incidente stradale in cui fu coinvolto insieme al padre. 
L'ultimo desiderio del figlio era che lei si prendesse cura del figlio Luca e della moglie, e non poteva tapparsi ancora le orecchie, aveva perso il figlio e il marito per un capriccio, aveva abbastanza rimpianti per combinare altri errori.
"A cosa stai pensando, cara?" Mi riscossi dai miei pensieri dopo aver sentito la domanda di Elisa. Stavo ancora accarezzando Peter; per non rivelarle dei miei pensieri poco felici decisi di confidarle una mia paura: "Sto pensando a dove andrò a dormire" Mormorai. Era vero, non ci avevo pensato, però era un problema, decisamente da non sottovalutare.
"A proposito di questo, vorrei dirti alcune cose." Mi guardò dritto negli occhi, e quando faceva così era perchè era una cosa seria e voleva essere ascoltata. Annuii, incapace di farlo altro.
"Tu conosci Jerry, siete stati da me parecchie volte, avete avuto l'opportunità di conoscervi," Conoscevo Jerry, aveva acquistato la casa di Elisa. "Tu devi sapere che sta mattina presto, tua zia ha buttato la tua roba fuori e ha messo Peter davanti alla porta. Non ho intenzione di dirti che cosa è successo, anche se puoi immaginarlo..." Immaginavo! Non era mai stata capace di badare o preoccuparsi per mio figlio, non le interessava minimamente. Le feci cenno di continuare, mentre le mie mani non abbandonavano per nessun istante il corpicino sdraiato di fianco a me, protetto da cuscini per non farlo cadere.   "Ecco, dopo che ho visto quello che era successo sono andata a prendere Peter e ho chiamato Jerry. Gli ho pagato un mese di affitto... non dire niente! Gli ho pagato un mese di affitto, non potevo fare altro." Io non dicevo niente perchè avevo troppo capito tardi che cosa intendeva e che cosa aveva fatto. Non potevo crederci, non poteva essersi presa questo impegno, non eravamo nè parenti nè niente, ci conoscevamo a malapena da tre mesi. 
"Non dovevi farlo..." Riuscii a malapena a sentirmi, tanto avevo abbassato la voce per la meraviglia. Lei scosse la testa.
"Si che dovevo! Non riuscirei a pensare a te e tuo figlio in mezzo alla strada. Accettalo come un regalo di compleanno." 
"Non posso, davvero. Stai per partire, devi occuparti di tuo nipote che sta per nascere e di tua nuora... non sai la gioia che ho provato nel sentirtelo dire, mai nessuno si è spinto fino a questo punto per me. Però non posso, grazie davvero, ma rifiuto!" Il mio doveva essere un tono che non ammetteva repliche, ma avevo la voce incrinata per via dell'emozione che provavo. Infatti, sembrò non avermi sentita.
"Lo sai perchè non puoi rifiutare? Perchè l'ho già fatto! Tu abiterai qui per questo mese, Jerry ha un cuore d'oro, senza fare domande ha accettato la mia richiesta. E' vero, sto per partire, ma almeno ti saprò in un luogo coperto, al sicuro. Questo è il mio regalo di compleanno per i tuoi 18 anni." Sorrise, mentre io non potei fare altro che abbracciarla, abbracciarla e abbracciarla ancora, commossa per quel gesto inaspettato. 
"Grazie, grazie di cuore." Riuscii a sussurrarle, mentre anche lei ricambiava l'abbraccio.
"Ah, ho un'altra cosa per te." Tirò fuori una busta bianca, chiusa, e me la porse. La fissai, il mio sguardo che chiedeva spiegazioni.
"Questa busta la aprirai solo alle quattro, esattamente tra... due ore." Continuò a guardarsi l'orologio al polso, mentre si mordicchiava il labbro. "Tra un pò arriva il taxi, devo andare." Mancava poco al momento dei saluti, avrebbe abbandonato il suo passato per avviarsi verso il suo futuro.
Controllò di avere tutti i documenti con sè, di non aver dimenticato qualcosa di importante e di aver lasciato in casa ciò che mi sarebbe stato di aiuto.
"Beh, arriva in tempo, a quanto pare." Mi disse, indicandomi dalla finestra l'auto che l' aspettava davanti al cancello. "Mi ha fatto molto piacere conoscerti, Charlene." Non potevo fare niente per lei, se non ringraziarla all'infinito per quello che aveva fatto per me. La abbracciai, intimandole di chiamarmi non appena fosse arrivata e quando Alice avrebbe partorito. Baciò mio figlio, prese la sua borsa mentre il tassista le portava le valigie, e andò senza mai voltarsi indietro, nè mentre si dirigeva verso la macchina, nè mentre questa era già partita. 'Non guardare mai al passato, fa solo tanto male' diceva sempre, avendo vissuto sulle sue spalle tanto dolore.
Rientrai in casa, quella che per il mese a venire avrei chiamato casa mia, anche se sapevo che dovevo già mettermi alla ricerca di qualche appartamento.
Andai in salotto, mi versai una tazza di the e cominciai a berlo a piccoli sorsi mentre i miei occhi non abbandonavano il corpo del mio piccino lì di fianco. Intanto la menta stava facendo il suo effetto: mi stavo rilassando.
 
'Tu lavori, ma a tuo figlio chi ci pensa? Questi soldi (che non puoi più restituirmi) ti serviranno per una baby-sitter. Sono il mio regalo per Peter. Mi raccomando, prenditi cura di te e tuo figlio.' Conteneva questo piccolo biglietto ma tanti soldi la busta bianca lasciatami da Elisa.
 
 
 
"Mi scusi, può mostrarmi questo completo, per piacere?" Eh già, a quanto pare il cliente che mi era stato affidato era uno della categoria 'guardo ma non compro'. Era calvo, gli avrei dato una sessantina di anni, con la pancia ben in mostra, basso e la fede al dito. 
Era... squallida la sua richiesta. Solitamente non mi lamentavo, era il mio lavoro, ma c'era differenza tra la richiesta di un ventenne o trentenne a quella di una persona che poteva essere tuo nonno. Mi sarei sentita a disagio a sfilare mezza nuda per lui. Ma non avevo scelta...
"Siamo spiacenti signore, ma abbiamo un disperato bisogno di Charlene nel reparto scarpe." Avrei costruito una statua in onore di Seth per essere intervenuto, mi sarei sentita veramente male. Il cliente se ne andò borbottando, insoddisfatto. 
Mi recai nel reparto scarpe, vuoto, siccome eravamo in orario di chiusura, ma non notai niente fuori posto. 
"Era una scusa per allontanarlo, ho visto la faccia terrorizzata che hai fatto quando ti ha chiesto di sfilare, qui ho già finito di tutto io." Era tutta una messa in scena, aveva proprio pensato a tutto pur di non lasciarmi in pasto al lupo. Come si poteva non adorarlo?
"Io ero messa male con quel signore, mentre neanche tu te la spassavi con le ragazze di sotto. Che hai combinato?" Gli chiesi, sorridendo e tirandogli un pugno amichevole sul braccio. Anche se ci avessi messo tutta la forza di cui ero capace, ero sicura che avrebbe provato un leggero solletico, altro che dolore!
"Ho capito," disse in tono provocatorio, "Sei gelosa! Chi l'avrebbe mai detto?" Il mio caro amico aveva tante di quelle ammiratrici, che se le ritrovava sotto casa a volte, e lui invece di ignorare, ci stava!
Aveva il brutto difetto di separare le donne: belle o brutte, giovani o meno, fidanzate o non, lui dava loro il numero di cellulare su cui contattarlo, incurante di tutto. Il vero problema erano le quattro sim che possedeva, due rispettivamente per il lavoro e per le persone care, le altre due erano suddivise in ragazze vecchia conoscenza - inutile specificare di letto - mentre le altre erano le possibili nuove avventure.
Per lo più erano clienti abituali, perciò vedeva sempre le stesse persone, e trovandosi in difficoltà chiedeva aiuto a me e a Marg per tirarlo fuori dai pasticci.
Era senza speranza, povero cucciolo. Perchè nonostante avesse 29 anni, lui era un bambino, quello tenerone, abbracciarlo, baciarlo e coccolarlo di continuo era un dolcissimo vizio per noi.
"Ovvio che sono gelosa, che cosa credi?" Stavamo scherzando, lo facevamo spesso, nessuno poteva toglierci quei pochi minuti di relax.
In risposta mi prese il viso tra le mani, cominciando a riempirmi di dolci, teneri baci: sugli occhi, sul naso, la fronte, le guance... Avrei pagato di tutto per poter avere ancora quelle attenzioni in futuro, riservate solo a me.
"Piccioncini, bisogna lavorare!" Effy, un nome un programma. In quelle due settimane sembrava aver dato la caccia a me e al povero Seth, ovunque fossimo, qualsiasi cosa stessimo facendo, ce la ritrovavamo a riprenderci come si fa con i bambini delle elementari. Aveva qualche problema la ragazza.
"Io ho appena finito nel reparto intimo, voi due in quello delle scarpe, che vedo è già sistemato, cosa stavate facendo? A parte sbaciucchiarvi, si intende!" Aveva un tono derisorio, ma l'espressione facciale diceva tutt'altro: era irritata. Non nascondeva il fatto di non sopportarmi, me lo aveva fatto capire già dal primo giorno di lavoro. Mentre Seth e Margaret avevano assunto delle espressioni soddisfatte, lei sembrava delusa. Da cosa, non si sapeva; le portavo rispetto essendo una mia collega, nonostante in cambio ricevevo occhiate ostili, piene di odio, ma per quel posto di lavoro, per mantenermi e mantenere soprattutto mio figlio, avrei fatto di tutto. L'avrei semplicemente ignorata, come era già successo.
"Non ci stavamo sbaciucchiando, ci stavamo semplicemente rilassando, hai presente? Quello che dovresti fare tu, non rimproverarci tutti i secondi di questo e quello." Mi difendeva sempre, il mio cucciolone troppo cresciuto, non mi lasciava mai ad affrontare qualcosa da sola. Soprattutto con Effy, non mi lasciava mai da sola in sua presenza.
"Fate come vi pare, io vi ho avvertiti." Se ne andò sculettando, mentre i lunghissimi capelli biondi sbattevano di qua e di là.
Ridacchiai insieme a Seth, mentre gli altri ci raggiunsero subito.
"Angelo, prenditi cura di lei ... Lei non sa vedere al di la di quello che da ... E l'ingenuità è parte di lei... " Sorrisi apertamente, non la sentivo da tanto tempo quella canzone. 
"Ti accorgi in un momento: Siamo soli... è questa la realta? Ed è una paura che... non passa mai" Era bellissima, la canticchiai sottovoce, senza neppure accorgermene. Elisa mi aveva fatto sentire un casino di canzoni, ma quelle che adoravo di più erano quelle dedicate ai bambini: mi ritrovavo spesso a cantarle a Peter.
Ormai non c'erano più clienti, bisognava pulire, sistemare e finire di allestire le nuove vetrine, ma eravamo tutti nel reparto per le scarpe. Mi accorsi tardi degli occhi puntati su di me.
Margaret - unica ragazza con cui avevo un buon rapporto, era stata lei ad assumermi, a costo che ''Starai lontana da Tyron, te lo chiedo per favore, non avvicinarlo e ignoralo'' voleva che seguissi quella semplice regola - aveva dipinto in volto la consapevolezza, Seth sembrava triste per qualcosa, Effy, che voleva nascondere tutto nell'indifferenza, non riusciva a nascondere una punta di delusione, Mike era allarmato, Sten sembrava agitato... Ma che avevano?
"Tu... conosci la canzone?"  Non potevo mentire riguardo una cosa tanto semplice, anche se per loro sembrava l'inizio di una catastrofe, quindi annuii nella direzione di Marg. Forse era una mia impressione, però mi era sembrato che Seth per poco non saltasse dalla gioia se avessi detto il contrario, infatti era caduto nello sconforto più totale. Strano, poi, che avessero deciso di mettere una canzone simile mentre in tutta la giornata si sentiva solo musica, se si poteva chiamare così, spacca timpani.
"Mentre voi finite qui, io vado ad occuparmi dell' ufficio, oggi tocca a me." Sorrisi, cercando di allontanarmi da quei musi lunghi, senza portarmi dietro il loro pessimo umore.
Mi incamminai verso l'ufficio e salii le scale, mentre la canzone giungeva al termine. Sospirai.
La porta dell'ufficio era leggermente aperta, doveva sempre stare chiusa durante la giornata se non vi lavorava nessuno, ma a quanto pareva, non sarei stata sola.
Sbirciai, facendo piano per non farmi scoprire e guardai all'interno: la sedia oltre la scrivania dava di spalle alla porta, qualcuno era seduto, intento a fissare una foto in mezzo a tutte le altre appese nel ufficio, foto dei commessi del negozio. La foto che stava guardando, fino al giorno prima non c'era.
Era più grande rispetto alle altre, collocata proprio al centro, e raffigurava una bimba di circa due anni, con i capelli tenuti in stile fontana sopra la testolina, il viso macchiato di quella che sembrava cioccolata, sorridente. Bellissima. Semplice, come solo i bambini sanno essere.
E lui era assorto a contemplare quella fotografia, sembrava non essersi accorto della mia presenza oltre la scrivania. 
Si girò.
E il cuore battè tanto velocemente che sembrava stesse gareggiando con qualcosa, mi sentii andare a fuoco, e purtroppo arrossii. Era li. Tyron.
E... Dio! Bellissimo sarebbe stato poco per descriverlo: aveva due occhi di un verde tanto splendente, sembravano due smeraldi, irresistibili solo alla vista, e... mi stavano facendo una radiografia. Quegli occhi, che non avrei dovuto guardare, invece mi fissavano, cercando forse di attirare la mia attenzione. Feci il grosso sbaglio di guardarli, fissarli, memorizzarli nella mia testa, nel mio cuore. Si erano già presi un posto in quell'organo che non la smetteva di battere.
Lui era semplicemente davanti a me che mi fissava, tanto intensamente, che pensai non avrei retto. 
Aveva dei capelli neri, scuri come la notte, che contornavano quel bellissimo viso d'angelo.
Però era serio. Esattamente come la foto appesa al muro, e che due settimane prima avevo guardato tanto intensamente, in quello stesso ufficio.
Io ero li, davanti a lui che era il mio capo, e non mi ero nemmeno presentata. Non si poteva parlare normalmente davanti a tanta bellezza, giusto? Mi schiarii la voce, prima di parlare.
"Salve... io... lavoro qui. Lei deve essere... il capo... immagino, giusto?" Mi sarei volentieri sotterrata, non ero riuscita a dire una sola parola senza guardarlo negli occhi, e quella era la regola numero uno: guardare negli occhi il tuo interlocutore o chi ti stava parlando. Lo sentii ridacchiare, divertito dal mio imbarazzo. Alzai gli occhi per controllare la situazione. Si era alzato, poche parole anche per il suo fisico:decisamente più alto e in forma di Seth, che nel negozio era il più richiesto tra le ragazze. Mi superava con la bellezza di venti centimetri.
Non era più serio, era diventato, forse, meno rigido verso una sconoscita che non sapeva nemmeno presentarsi decentemente.
Il suo sguardo si era fatto più... morbido, mi carezzava con gli occhi, mentre continuava a fissarmi. Le gambe non avrebbero retto tanto a lungo, me lo sentivo.
"Tyron... Tyron!" Era sul punto di dirmi forse il cognome quando si interruppe, cambiando non solo tono di voce, ma anche il suo tipo di sguardo: era più spinto rispetto agli altri: desiderio! I suoi occhi esprimevano questo: desiderio.
Abbassai per l'ennesima volta gli occhi, non potevo continuare a fissarlo, non dopo ciò che avevo visto, anche se di una cosa ne ero certa: la promessa che avevo fatto a Margaret riguardo a Tyron, ovvero che lo avrei semplicemente ignorato, era saltata. Semplicemente non potevo più stare senza guardare quei due smeraldi, avrebbero illuminato di una luce più forte le mie giornate, non avrei saputo allontanarmene, neanche se mi avessero pagata.
Rialzai timidamente lo sguardo, dovevo vederlo: mi stava ancora fissando.
"Posso sapere qualche cosa in più su una mia nuova dipendente o devo tirartele fuori con le pinze, le informazioni?" Sorrisi, imbarazzata per non essermi premurata di farlo da sola. "Accomodati." Presi posto nella sedia davanti alla scrivania, mentre lui si sedeva dall'altra parte. 
" Ecco...Mi chiamo Charlene... ho 18 anni e... avevo bisogno di lavoro, quando mi sono imbattuta in Seth. E' stato lui a presentarmi a Margaret, che mi ha assunta, due settimane fa." Sperando che ciò che gli avevo detto bastasse, fini il mio dialogo, siccome non poteva essere considerata una descrizione. 
In precedenza avevo fatto una specie di corso serale per introdurmi al mondo del lavoro, qualcosa lo sapevo a riguardo, gli andava bene.
"Mhhh, a noi bastano delle ragazze belle, che sappiano fare il loro lavoro e servano i clienti come desiderano, senza che siano troppo o troppo poco. Da quel che vedo, sei adatta a questo lavoro, almeno dal punto estetico non mi lamento..." Aveva finito quelle parole mormorandole, come a voler rendere intimo quel pensiero. Non riuscii ad impedire alle mie guance di accendersi di un rosso ancora più rosso di prima.
"Beh, direi che è tutto, che dici? Io sono tornato oggi, però, mi raccomando: se vuoi sapere qualcosa o non ti è chiaro qualche aspetto di questo negozio, io sono qui. " Mi alzai, cercando di non cadere e fare una qualche figura irrimediabile, e gli porsi la mano. La strinse con gentilezza ma allo stesso tempo con forza. Mi sorrise, accompagnandomi alla porta. Guardai un'ultima volta i suoi occhi: si, ne ero sicura, non sarei più riuscita a vivere senza di loro sul mio corpo, nel mio cuore.
Perdonami Margaret, non aveva senso quella promessa, dimenticala...
 
Era l'inizio dei problemi, anche se non lo sapevo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ed ecco il nuovo capitolo, qui si scopre un pò del passato di Charlene, e della sua vicina di casa e amica.
Le cose sono andate bene fino ad un certo punto, la giornata del suo compleanno era iniziata bene, per poi trasformarsi completamente, rovinata dall'arpia che era sua zia, che odio >.<
Spero interesserà a qualcuno questo capitolo, magari dicendomi anche  cosa ne pensate. 
Ringrazio _Lilac_ per aver inserito questa storia tra le seguite XD
A presto, se proseguirete con la lettura :D
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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