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Autore: Piccola Stella Senza Cielo    25/07/2006    3 recensioni
Questo è un affettuoso omaggio ad uno dei miei miti, il chitarrista Saul Hudson, in arte Slash. Un grande artista, al contempo torbido ed energico, che ha saputo trasmettere emozioni a più d'una generazione. Che ancora oggi fa sognare chi ama il rock. Non credo ci sia altro da dire.
Genere: Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccoci. Che lo spettacolo abbia inizio. Chissà perché la prima canzone è Sweet Child ‘o mine. Mah. Axl ha voluto così. E quando la sua personalità s’impone, c’è poco da fare. Ma il problema (è davvero un problema?) è che sono io a cominciare, con l’assolo iniziale. Ora io e la chitarra siamo una sola cosa. Che bella canzone. Axl comincia a cantare.

She’s got a smile that it seems to me
reminds me of childhood memories
where everything was as fresh
as the bright blue sky

Forse mi viene in mente una persona. Era tanto che non capitava. Non era successo neanche durante le prove. Sarà l’emozione, sarà che, quando faccio qualcosa di importante, nella mia mente appare sempre la stessa figura, quella figura che tanto somiglia al personaggio narrato nel nostro brano.

Now and then when I see her face
She takes me away to that special place
And if I stared too long
I'd probably break down and cry

Ecco. Una galleria di immagini mi ripassa davanti agli occhi. E’ strano. E’ strano di come il passato torni a macchiare il presente. E’ strano di come Lei mi torni alla mente, a distanza di anni, è strano di come la sua presenza ancora ingombri le mie giornate. E’ strano. Troppo strano. Forse perché strano è il modo in cui l’ho incontrata. Strano è tutto quello che c’è stato, e com’è finito.

“Slash, che hai oggi?”
Nella Hellhouse, la casa dove gli altri ed io vivevamo da quando avevamo formato la band, quel giorno regnava un silenzio di tomba. Izzy aveva fumato un po’ troppo, e se ne stava disteso sul divano con uno sguardo indecifrabile. Axl era arrabbiato, non era per niente contento di come le cose andassero con la band, era irritabile e bastava una cazzata qualsiasi per fargli perdere le staffe. Duff era uscito con la sua ragazza del momento(ne aveva una a settimana) e l’unico veramente lucido sembrava (stranamente) Steven. Per quanto mi riguarda ero triste, vedevo che in quel periodo eravamo buoni solo ad assumere droghe, e non combinavamo nulla, non scrivevamo canzoni ormai da tre mesi, se mettevo le mani sulla chitarra la facevo stonare, e non avevo voglia di fare nulla.
“Slash, ci sei? Ti ho chiesto che hai!!”
Io mi girai di colpo verso Steven. Dovevo avere davvero un brutto aspetto, visto che mi guardava con un’aria piuttosto stranita.
“Scendo a fare due passi” dissi, serio.
Avevo bisogno di sfogare la crisi artistica che stavo vivendo. Non riuscivo né a comporre, né a suonare. Uno strazio. Una volta in strada, estrassi il pacchetto di sigarette dalla tasca e cominciai a fumare. Ne feci fuori quattro. Camminavo, camminavo, con l’aria di chi sa dove sta andando. Ma in realtà non sapevo dove mi dirigevo, continuavo solo a camminare, finché...
Finché qualcosa non mi fermò.
Fu un attimo.
Passai davanti a una panchina, sulla quale era seduta una persona. Era una donna, o meglio, una ragazza, sui diciotto anni, non di più. Era immersa nella lettura, sembrava che non avesse alcun legame con il mondo circostante. I suoi occhi castani seguivano velocemente rigo dopo rigo, pagina dopo pagina. Fu quando la vidi che mi fermai. Sentivo un brivido scendere giù per la schiena. Che cazzo significava? Beh, comunque vada sentivo il bisogno di chiederle qualcosa – qualsiasi cosa. Una stronzata qualsiasi, pur di attrarre la sua attenzione su di me, anche solo per un istante. Le dissi la prima cosa che mi venne in mente.
“Ciao...sai non sono del posto...”(non sono del posto? Io?!)
Alzò i suoi occhi meravigliosi e mi osservò, aveva un’aria interrogativa, forse anche un po’ infastidita.
“...sai dirmi dove posso trovare un telefono pubblico?”(una scusa più idiota non la potevo proprio trovare)
In tutto questo mi ero messo a parlare con accento texano, e la cosa doveva essere talmente paradossale che la feci ridere. Il suo era un sorriso aperto e dolce, umile e sincero, insomma il sorriso della persona più pura del mondo, come si è dimostrata poi essere.
“Guarda” mi rispose, con voce armoniosa “Laggiù, al bivio, ci sono quattro cabine del telefono. Riesci a vederle?”
Io continuavo a guardarla. Lei aspettava che mi voltassi a vedere dove cavolo stessero quelle cabine. Ma non lo facevo. Così alzò un braccio e le indicò, senza smettere di fissarmi con aria interrogativa. Io allora mi risvegliai dal torpore in cui il suo viso mi aveva gettato e dissi:
“Ah, sì! Grazie”
Me ne andai. Ecco. Avevo fatto la figura dell’imbecille con la ragazza più bella del mondo. Ero molto soddisfatto di me. Sentii una voce chiamarmi.
“Aspetta!”
Mi era corsa dietro. Ora era affannata, ancora più bella.
“Ti sono cadute queste” mi disse, e mi porse il pacchetto di sigarette.
Era vicinissima. Rimasi pietrificato a guardarla.
Arrossì.
“Beh, allora ciao...” sussurrò, e scappò via.
L’avrei dovuta rivedere. Ancora. E ancora...
  
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