L’orologio
Un sonoro rumore di piatti in frantumi
invade la stanza. E poi le mie bestemmie. Fortunatamente in questo momento sono
sola, altrimenti ci sarebbe qualcuno che, come al solito, commenterebbe sulla
mia goffaggine.
Estraggo la bacchetta e con un
incantesimo – stoviglie reparo – sistemo tutto. O quasi.
Già perché il disordine non si ripara facilmente come i piatti rotti.
Mi fermo ad osservare la stanza. E’
piena zeppa di cose, nonostante non sia enorme. Ma la cosa più bizzarra è
l’orologio: un orologio senza ore e senza minuti, con una lancetta per ogni
membro della famiglia e al posto dei numeri l’indicazione di dove ogni membro
possa trovarsi – lavoro, casa, scuola, viaggio -. Ma la cosa più sorprendente è
che tutte le lancette sono ora puntate sull’unica scritta che nessuno, in
nessuna famiglia, vorrebbe mai vedere: pericolo
mortale.
Eppure io so che tutti i membri della famiglia sono lì, a casa. E stanno festeggiando un evento straordinario. Il matrimonio di Bill e Fleur. Ed ovviamente ci sono un sacco di invitati. Compresa me. Per questo ci sono tanti piatti.
Sospiro e mi siedo sull’unico posto che possa fungere da sedia, un vecchio baule che chissà come mai era finito in cucina.
Sto ancora meditando sul disordine della
stanza, o più realmente sul disordine della mia vita, quando qualcuno appoggia
una mano sulla mia spalla, chiamandomi.
- Tonks? -
Lo guardo. I capelli, un tempo biondi,
sono ora di un color cenere spento. Una nuova cicatrice gli solca il viso,
attraversandolo dalla fronte fin quasi al labbro. E’ un miracolo che i suoi
occhi grigi siano ancora intatti.
Esibisco il mio sorriso di circostanza,
ma dalla smorfia che appare sul suo viso, non riesco ad ingannarlo. In fondo,
nemmeno volevo provarci.
- Che fai qua, tutta sola? – mi
chiede.
Io mi guardo il vestito, quello stupido
vestito a fiorellini rosa che Molly e Fleur hanno tanto insistito perché
mettessi. Ne stropiccio la gonna con le mani, mentre cerco di rispondergli.
Strano. Io che sono così diretta e schietta con chiunque mi capiti a tiro,
ultimamente non riesco neppure a pronunciare una sillaba quando lui mi guarda.
Ed ora è lo stesso. Ma ci provo.
- Cercavo... ecco di dare una mano...
coi piatti... a lavarli... ne servono così tanti... e Molly non può fare sempre
tutto da sola... -.
Lui osserva la stanza e i piatti. Mi
lancia uno sguardo dubbioso, ma risponde solo: - Vedo. – poi mi fissa ancora un
po’. La sua mano si stacca dalla mia spalla e io mi lascio sfuggire un sospiro,
che non voleva essere di sollievo, ma probabilmente a lui sembra così, perché
come al solito mi chiede scusa e si allontana, dandomi le
spalle.
- Posso darti una mano? In due finiremo
prima e potremo tornare là fuori -.
Nemmeno aspetta che io risponda. Estrae
la bacchetta ed inizia l’incantesimo – Gratta e netta – che, come al
solito, gli riesce alla perfezione. Come vorrei, ogni tanto, che non fosse così
perfetto. Che fosse un pochino più maldestro, come me. Ma non sarebbe
lui.
E poi i suoi difetti li ha anche lui, lo
so. Ma in questo periodo vedo solo i miei, di difetti. Probabilmente per il mio
umore.
- Strano quell’orologio, vero? – cerca
di fare conversazione. Lo so che dovrei rispondergli, dirgli qualcosa. Ma è da
quando mi ha respinta nell’infermeria a Hogwarts che non parliamo più,
seriamente, io e lui.
- Chissà se potremmo farcene fare uno
anche noi? -
La sua domanda mi lascia scioccata. Di
cosa sta parlando? Ah, sì dell’orologio.
- Molly mi ha detto che non sa se ne
esiste un altro. – rispondo, senza sapere nemmeno quello che dico, perché ancora
sto rimuginando sulla sua domanda: qualcosa di quello che ha detto avrebbe
dovuto colpirmi, ma non riesco assolutamente ad afferrare che
cosa.
- Peccato, sarebbe stato utile. Chissà
se i nomi dei ragazzi sono stati messi durante la costruzione o li ha aggiunti
dopo Arthur... perché vorrebbe dire aspettare di sapere quanti saremo in
famiglia per farcelo fare. -
Ancora, DING-DONG, qualcosa suona nella
mia testa, ma io non riesco ad afferrarlo. Solo lo guardo con l’espressione di
chi sta cadendo dalle nuvole e non sa dove
atterrerà.
Mi alzo in piedi e mi avvicino a lui. Ma
la vicinanza è troppo oppressiva, almeno per me che sono costantemente catturata
da quegli occhi grigi. Chissà perché oggi ha sempre quel sorriso sulle labbra?
Di solito è triste e pensieroso. Per non mostrare troppo la confusione che
imperversa nella mia testolina, gli volto le spalle per fissare l’orologio. Ma
non riesco a pensare.
- Ti sta bene quel vestito. -
Un complimento. Dovrei rispondere.
Dovrei. Ma non mi esce nemmeno una parola.
- Sei ancora arrabbiata con me, vero? -
Stavolta non ce la faccio, mi volto e lo
fisso, scuotendo il caschetto fucsia che sono i miei capelli e con le lacrime
agli occhi gli chiedo:
- Si può sapere cosa vuoi? Mi hai
respinto e ti aspetti che tutto torni come prima? Che si possa fare del
cameratismo, insieme? Bhè, grazie tante, ma non ci riesco. Non riesco a
comportarmi come se nulla fosse successo... – sto quasi urlando e nello stesso
tempo sto piangendo. E questo lo mette in difficoltà, lo vedo. Fa per allungare
la mano verso di me, poi si trattiene. Tipico comportamento suo, che mi fa
uscire ancora di più dai gangheri. Mi volto diretta alla porta. Faccio per
uscire dalla stanza quando la sua voce mi
raggiunge.
- Hai ragione. Sono io che ho sbagliato
con te. Ed è per questo che sono qui. Per chiederti scusa e ...
-.
Si interrompe, come se non sapesse come
continuare. Io sono ancora troppo arrabbiata per soffermarmi su quello che sta
dicendo. Mi giro e inizio a gridare ancora contro di
lui.
- E cosa pensi che possa farmene delle
tue scu... – ma mentre sto parlando apro finalmente gli occhi a guardarlo e
quello che vedo mi lascia interdetta. DING-DONG, ancora nella mia testa,
stavolta molto più forte.
Lui è in ginocchio e mi sta porgendo una
scatolina di velluto rosso. Che diamine dovrebbe significare questo? Non può
essere quello che penso, lui mi ha sempre detto che era troppo vecchio, che era
un lupo mannaro, che era troppo povero, che non era in grado di sostenere il
peso di una famiglia, che con la guerra di nuovo alle porte non poteva
permettersi di lasciarsi andare, mille scuse ha sempre usato con me.
Ed ora?
- Ninfadora... vorresti condividere con
me quello che ci rimane della nostra vita? Lo so che quello che posso darti è
veramente poco e che ti metterò in pericolo ad ogni luna piena... ma non sono
più in grado di pensare a me stesso senza la tua allegria, senza i tuoi
rimproveri, senza ... senza di te. -
OH, MERLINO SANTISSIMO. Questa è una
dichiarazione con tutti i crismi. Sono talmente sconvolta che non riesco a
muovermi, mi sembra di essere in balia dell’incantesimo di pietrificazione. Ma
il mio cuore che batte all’impazzata, cercando quasi di uscirmi dal petto, mi
dice che sono viva. E che non sto sognando. Ed ora i DING-DONG di prima mi
tornano alla mente stranamente chiari... l’orologio, tutto è iniziato da
quell’orologio. Lo fisso nuovamente e poi, oltrepassando lui che ancora aspetta
una mia risposta inginocchiato, vado verso la parete che lo ospita. Lo tolgo ed
inizio ad osservarlo.
Lui non capisce la mia reazione.
Stavolta tocca a lui rimanere senza parole. E credo si stia anche
demoralizzando.
Finché non mi volto, con il sorriso
sulle labbra.
- Ci sono! C’è il nome del costruttore!
-
Lui mi guarda, preoccupato che io sia
impazzita. E forse lo sono davvero. Ma dalla
felicità.
- Altrimenti come facciamo a sapere se
dobbiamo scegliere ora i nomi dei figli o se possiamo aspettare che nascano?
-
Stavolta anche lui sorride. Si alza
repentino e mi viene incontro. E mi abbraccia, mentre ancora stringo al petto
l’orologio.
Poi alza il viso a fissarmi, scosta
l’orologio, appoggiandolo sul baule e mi riprende fra le
braccia.
- Ninfadora Tonks, vuoi sposarmi?
-
Io lo guardo sorniona, gli sorrido e gli
rispondo:
- Solo se la pianti di chiamarmi
Ninfadora, Remus J. Lupin. – scoppiamo entrambi a ridere finché lui non si
decide a posare le labbra sulle mie, in un lunghissimo e felicissimo
bacio.