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Autore: ottantanove    07/12/2011    0 recensioni
Collegata a Tic//Tac, prima fic del mio account. E' solo una storia un po' drammatica. Nulla di più.
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sono una ragazza omosessuale che di anni ne ha ventidue, che non è stata presa troppo sul serio dai suoi conoscenti fin dai tempi delle superiori, tranne che da Carla, ragazza che ha pressoché violentato nei bagni della scuola in prima liceo perché non credeva che lo fosse, che è stata insultata nottetempo dai suoi genitori poiché non corrispondeva alle loro aspettative, che odiava e odia le troie superficiali, le ragazze che dicono di essere bisex perché "fa figo", che odia ancora di più i maschi, assetati di fregna dal mattino alla sera e che non hanno fatto altro che incitarla a scoparsi le sue compagne di classe. Le quali, inevitabilmente, hanno iniziato a schifarla e scansarla.
Il mio coming-out ha avuto luogo in modo singolare ma ve ne parlerò tra poco.
Nonostante il mio metro e settanta di altezza, il mio stacco coscia mozzafiato, i lunghi capelli biondi, gli occhi grigio argento, tanto per esagerare con l’enfasi, e una quinta di seno, non ho mai desiderato a mostrarmi al pubblico in abiti femminili.
I miei genitori attribuivano tutto ciò a un attaccamento all'infanzia, vissuta in una fattoria in campagna, e dicevano che la città e il crescere mi avrebbero portato a volermi curare di più.
Quando ci siamo trasferiti avevo quindici anni, avevo già frequentato un anno di Liceo Artistico, nel centro Liceale vicino, e a Roma, dove mi trovai, l’unico posto disponibile, a detta dei miei genitori, era in un Liceo Classico. Il Giulio Cesare. Una merda totale, in pratica.
Niente di più diverso.
Di punto in bianco, l’Urbe mi sembrò esageratamente folle e scatenata.
Manifesti, negozi, luci, Via del Corso, le opere architettoniche che tanto amo e amavo già all'epoca, auto, traffico, sporcizia, inquinamento acustico, un appartamento microscopico in cui dovevamo vivere in cinque. Mia madre presa dalla carriera di giornalista sportiva, mio padre disoccupato, verde pubblico ridotto a un ammasso di fango ed erba sintetica, semafori, quelle maledettissime rotonde, gli autobus, il centro storico, i taxi, la connessione a internet funzionante, librerie ben fornite, concerti d’opera lirica, Sky, il tramonto sulla città eterna… tutto mi cadde improvvisamente addosso.
Bel nuovo mondo del cazzo.

Privata della mia vita libera, i miei genitori fuori di testa, mia sorella Silvia di otto anni ancora più sperduta di me, e mio fratello Carlo, di anni diciannove, occasionale fumatore di moffo, che a malapena si accorgeva di cosa lo circondasse da quando aveva scoperto che il fumo romano era meglio di quello del paese.
In più il Giulio Cesare coronava le mie giornata all’insegna della follia, del conformismo e della noia.
Non fumavo sigarette.
Non amavo l’alcol e non provai a svagarmi come fece mio padre.
Non conoscevo nessuno quindi nessuna pazzia.
Lo studio non m’interessava e non divenni una sgobbona.
Restai, quasi volutamente, anonima e grigia.
Fino ai sedici anni quando, distratta, mi ritrovai a girovagare in rete senza meta trovandomi davanti a un sito porno lesbo.
Incuriosita e assicuratami che non fosse a pagamento ci entrai.
Quando iniziai a masturbarmi capii che, forse, il mio disinteresse per muscoli, sudore e ormoni maschili aveva un qualche fondamento serio.
Rincominciai la mia vita di disadattata grigia e senza personalità con la nuova consapevolezza di essere lesbica.
Dopo qualche mese di altra inutile vita anonima commisi un errore.
Lasciai il mio diario, si esatto sono lo stereotipo perfetto di una campagnola sempliciotta lesbica con il difetto di essere strafiga, nello zaino.
E buonanotte al secchio, Giangi lesse ad alta voce in classe quanto io desiderassi scopare con Pamela Anderson quando aveva ancora il seno naturale.
Ecco il comig-out.
Ecco che la follia dell’Urbe mi travolse in pieno, peggio di prima, cancellando l’aura grigia che mi ero faticosamente costruita ad arte.
La voce iniziò a circolare, quei pariolini di cui era formata quella scuola merdosa risero a crepapelle credendomi una brutta e stupida campagnola che potevano pigliare per il culo come volevano.
Perché non è assolutamente vero che le lesbiche sono accettate, in questo misero e obbrobrioso mondo.
La gente iniziò a guardarmi, a breve lo vennero a sapere tutti ma i miei genitori, troppo presi dai loro problemi, non si presero nemmeno la briga di starmi a sentire quando dicevo che la situazione stava diventando insostenibile.
Le mie amiche del paese, quando lo confessai in gran segreto, mi risero dietro dichiarando che non potevo che essermi inventata tutto per attirare attenzioni e mi lasciarono sola del tutto, semplicemente disinteressandosi.
I miei genitori, quando finalmente capirono che forse qualcosa riguardante la mia sessualità non quadrava, si degnarono di riempirmi di botte come era giusto che fosse. Le mie compagne di classe, troie, iniziarono o a evitarmi o prendermi per il culo finché non arrivava un professore a dividere me e la malcapitata che avevo acciuffato e che stavo massacrando con calci e morsi.
Le altre ragazze grigie, con cui avevo appena instaurato un qualche legame, mi tendevano un vago aiuto senza esporsi ma io l’aiuto non lo volevo, ora che ne avevo bisogno. I ragazzi sapevano solo fare commenti volgari.
Ho ricevuto solo un aiuto in tutto questo marasma di stronzaggine.
Internet.
Sacro internet e i disadattati che ci stanno a scrivere sopra.
Trovai una ragazza, bisessuale dichiarata, che non se la passava tanto male al Tasso, un altro classico.
Ci scambiammo i contatti MSN, iniziammo a sentirci sempre più spesso e dopo circa un mese, ero ormai straconvinta di aver trovato l’amore della mia vita.
Parlare con lei era meraviglioso, ci capivamo, non esistevano argomenti tabù, c’era un grande rispetto.
Mi disse che il suo giro di amicizie era quello di Piazza Del Popolo, ci andava spesso, e ognuno di quelli che frequentava l’ambiente non si faceva nessun tipo di problema su chi fosse cosa.
Dal canto mio, sapevo che in Piazza Del Popolo si radunavano i vari gruppi di “alternativi”, che io consideravo troppo appariscenti e dai quali avrei preferito di gran lunga tenermi alla larga, ma fatto sta che un giorno decidemmo di incontrarci a Piazza.
Per l’occasione rubai un paio di pantaloni sdruciti a mio fratello, presi dall’armadio di mia madre una canotta attillata, rigorosamente nera, e rubai il vecchio paio di anfibi da pompiere di mio padre.
Non potevo certo andare lì e sperare di essere accettata da quella massa di conformisti alternativi senza amalgamarmi.
Era un mercoledì pomeriggio e io e Alice dovevamo trovarci davanti al bar Canova e restai ad aspettare lì davanti un quarto d’ora prima che una vocetta sottile mi chiamasse.
-Carmen?-
Sì, mi chiamo Carmen e sono orgogliosa del mio nome.
Mi volto e vedo questo scricciolo vestito di pizzo e raso nero che mi sorride timidamente.
Adorabile, il mio cervello è solamente in grado di andare in tilt.
Sorrido di rimando e la saluto cordialmente facendole anche un baciamano, tanto per adeguarmi al suo aspetto di damina dell’età vittoriana un po' bagascia.
La vedo arrossire, credo che sia la cosa più bella ed esile di questo mondo e mi innamoro definitivamente di lei.
Mi trasformo.
Nel giro di due settimane sputtano completamente tutti i miei soldi in vestiti neri che mi piacciono relativamente, mi tingo i capelli di verde scuro e scopro di andare matta per il metal, per l’industrial e per il goth.
La cosa strana è che non ero una poser, quella roba mi piace davvero anche ora, a distanza di anni. Vestiti a parte, che consideravo alla stregua di costumi di scena per occasioni importanti.
Rimasi comunque una scaricatrice di porto, bestemmiavo, acquisii un forte accento romano e menavo chiunque osasse portare casino nella mia nuova vita di metallara.
Alice diventa la mia musa, la mia migliore amica, la mia luce.
E tutto era perfetto.
Avevo finalmente un ruolo, avevo degli amici che mi accettavano e cambiando atteggiamento anche a scuola le cose migliorano, dato che incutevo paura. O meglio, erano i miei anfibi che facevano molto più male delle logore scarpe da ginnastica che portavo prima.
Tutto ciò mi portò a passare l’ottanta per cento del mio tempo libero fuori casa, i miei voti colarono a picco, iniziai a fumare sigarette al mentolo, a bere ogni tanto un cocktail. Tutto sommato, però, non mi drogavo, non mi ubriacavo e rimanevo una persona abbastanza normale che, però, alla gente di Piazza piaceva.
Strano. Era la prima volta da quando stavo a Roma che piacevo a qualcuno.
Intanto decisi che era ora che mi dichiarassi ad Arianna.
In fondo da anni aveva capito di essere bisex, non ci sarebbero stati imbarazzi. Così pensavo e credevo.
Così un giorno la vidi a Villa Borghese e allontanandola dal gruppo presi in mano il mio fegato e con un brevissimo panegirico glielo dissi;
-Ary, io ti amo.-
Arianna mi guardò con tant’occhi, indietreggiò impercettibilmente e non fece altro che balbettare:
-Io…Cioè…Scusami.- Per poi allontanarsi il più in fretta possibile verso il gruppo.
Il mio cervello, in quel momento, è in grado soltanto di esclamare un “Porca puttana Eva. Che cosa ho fatto?” mentale.
Beh, la morale della favola? Mai fare amicizia con la ragazza che credi di amare, soprattutto se questa dice di essere bisex.
Il risultato della mia dichiarazione a un’amica bisessuale? Non ne volle più sapere di me e io la persi, dato che lei era che un’etero della peggior specie che si dichiarava diversamente perché faceva “più fico”.
Bella roba i bisessuali di piazza.
Abbandonai Piazza del Popolo per riallacciare il mio legame, un tempo molto forte, con mio fratello Carlo.
Vissi per qualche tempo il mio tempo libero in Piazza dei Fiori ed imparai ad amare la riproduzione del monumento a Giordano Bruno, i gradini centrali, i piccoli spacciatori del giro e soprattutto tutti quelli che quasi ci vivevano in pianta stabile.
Erano sinceri, non mentivano mai o quasi, avevano un cuore grande e mi ricordavano un po’ i vecchi paesani ingenui che frequentavo un tempo, con la testa piena di sogni e la felicità nel cuore.
Almeno, questo mi pareva.
Nonostante l’ambiente, non iniziai con le droghe, nemmeno quelle più blande.
A scuola ero praticamente morta.
Il più delle volte non c’ero nemmeno e quando c’ero fissavo un quaderno intonso e pregavo che questo o quel prof la facesse finita di scartavetrare le palle.
Mi annoiavo, davo addosso ai prof e generalmente cercavo di far paura a tutti quelli che cercavano di riprendere a stuzzicare me, la mia sessualità e le tette di Pamela Anderson.
Non avevo un legame di amicizia che fosse uno.
Una domenica tornai in Piazza del Popolo per incontrare un amico del paese che, con zero senso dell’orientamento, aveva dichiarato di saper arrivare solo lì partendo dalla stazione di Termini e di non volere assolutamente che lo venissi a prendere in stazione per quello che aveva chiamato "orgoglio maschile".
Non ho mai capito cosa intendesse dire.
Non mi andava a genio tornare in quel posto ma ci andai, arrivandoci in anticipo di due ore, dato che a scuola non c'ero andata.
Finii per essere salutata per prima io, da tutti quelli che già conoscevo e trascinata al Burger King accanto per strafogarmi di gelato e frullati.
Fu così bello tornare a essere la figa del gruppo che mi dimenticai di Cristiano, buttai il cellulare nella borsa e mi lanciai per negozi alternativi con la mia ex compagnia ritrovata.
Fanculo il mondo, vivere era bello.
Mentre tornavo in Piazza del Popolo dopo essermi sputtanata tutta la paghetta che mi dava mia madre, mi prese una strana ansia la cui causa non riuscivo a identificare.
Scherzai di meno con gli altri e quando trotterellando per Via del Corso realizzai che Cristiano doveva essere arrivato ormai da tre ore in Piazza mi misi a correre come un’idiota.
Merda. Merda. Merda.
Finii fottutamente sola.
A quel punto non avevo altra scelta.
Piazza del Popolo e i suoi abitanti tornarono parte integrante della mia vita.
Insieme a qualche canna occasionale, che teneva compagnia nelle lunghe sere passate fuori dai locali della Gay Street, tutti rigorosamente sbronzi tranne la stronza di turno, che sarei io.
Le cose stavano iniziando a precipitare.
Dormivo sempre meno, non mi interessava più nulla se non del gruppo.
Il gruppo era tutto, nelle ore diurne rimanevo a Piazza, la scuola avevo smesso di frequentarla, e anche se non c'era nessuno della mia compagnia, io e le mie sigarette al mentolo diventammo le madri di centinaia di adolescenti sbandati tanto quanto me. Chissà che ci trovavano in una stronza come la sottoscritta, per raccontarle tutti i loro cazzi e i loro problemi chiedendo anche consigli nemmeno fossi una guru.
Tant'è, dicevo sempre la mia. Cercavo di aiutare gli altri, per quanto mi fosse possibile, e tutto sommato spesso ci riuscivo anche.
Iniziai a blaterare di finire il classico in qualche modo e di iscrivermi a psicologia, omettendo il dettaglio di aver ormai perso un anno di scuola causa assenze, ormai era estate. Iniziai anche a dire che mi piaceva anche il cazzo, tanto per far capire quanto le sparavo grosse.
Ci andai con uno una sera, da fatta. Perchè, ebbene sì, avevo iniziato con la maria in modo serio. Mi misi a piangere in corso d'opera. Lo stronzo, Manuele, non ci fece nemmeno caso, finendo il lavoro e venendomi pure dentro.
Vissi col terrore di essere incinta per un mese, finché le cascate del Niagara color rosso sangue non si fecero vive. A quel punto piansi di nuovo, di sollievo.
Tornai la lesbicona di prima e Manuele non ebbe più il coraggio di farsi vedere quando raccontai in giro che ce l'aveva piccolo come quello di un bambino nano con la "sindrome di Benjamin Button".
Affanculo tutto, continuavo a pensare.
Per un mesetto, dopo il fatto, non mi feci più vedere nemmeno io in piazza. Preferendo Campo dei Fiori o la pace dei fori imperiali, dove passavo il mio tempo a leggere manuali di storia dell'arte e in compagnia di sigarette al mentolo e qualche litro di coca cola. Occasionalmente un po' d'erba. Occasionalmente.
Ma non potevo continuare così.
Nel frattempo mia sorella aveva compiuto dieci anni ed era, forse, quella più sana in famiglia.
Mio padre era diventato ufficialmente un alcolizzato, mia madre guadagnava abbastanza da permetterci una vita dignitosa e permettere a se stessa qualche amante occasionale, che essenzialmente le passava altri soldi.
Quando mio fratello venne ricoverato la prima volta in ospedale per un'epatite B, quasi nessuno diede troppo peso alla notizia.
Quando successivamente venne ricoverato in prognosi riservata, mia madre pianse, mia sorella pianse, io piansi e mio padre era troppo sbronzo perfino per svegliarsi nonostante tutto il casino che facevamo noi tre.
Mia madre continuava a chiedersi a voce alta dove avesse sbagliato, mia sorella piangeva disperata ed io, dopo qualche minuto di pianto isterico, mi resi conto che rischiavo di finire eroinomane come lui, continuando su quella strada, lentamente forse, più lentamente di sicuro, ma lo sarei diventata. Senza futuro.
E quella era una cosa che non andava mica bene.
Tentai di frequentare il Giulio Cesare facendo la carina coi professori e per un mese mi riuscì, poi mi ruppi di nuovo le palle e ci rinunciai, tanto l'anno me l'ero comunque giocato del tutto.
Mi misi d'accordo con mia madre per tornare a fare il liceo artistico che tanto avevo amato anni prima ma mio padre non fu d'accordo con noi.
Tornai al classico l'anno successivo, fu una rottura di coglioni.
In mezzo a tutto questo, incontrai una trent'enne su internet che si era perdutamente invaghita di me e con cui mi sditalinavo ogni tanto. Era gentile, mi comprava sempre un po' d'erba e mi faceva regali costosi.
Ricominciai a fumare tirandomela da gran donna e continuai così per qualche tempo, studiando quanto bastava per non essere bocciata di nuovo.
Mi stufai presto anche di quello, affanculo la trent'enne e ritornai in piazza, anche se non in pianta stabile e nottetempo come prima.
Poi incontrai Sere.
Diceva che adorava il mio nome, andammo insieme a sentire qualche opera agli spettacoli pomeridiani, ci piacevano le stesse cose e mi innamorai di nuovo. Ebbi fortuna, quella volta si dichiarò lei.
Era candida e avevo paura di sporcarla.
Ero reticente a darle piacere con le mie mani luride ma vederla fremere sotto i miei tocchi mi appagava più di ogni altra cosa.
Cedevamo spesso a quella passione tutta nostra e vivemmo il nostro amore magnificamente.
Lei un giorno scappò di casa. Meglio, i suoi genitori avevano scoperto la nostra relazione e le avevano dato un ultimatum: O ti allontani da lei, la puttana che ti ha deviato, o te ne vai da questa casa.
Aveva optato per la seconda scelta. E io rimasi sconvolta dalla gioia. Chi mai nel mondo avrebbe pensato di fare una cosa simile.. per me?
Visse qualche settimana in casa mia, finché mio padre non si accorse che non ero sola nel letto, di notte.
Allora andai nei casini anch'io e ci trasferimmo a casa di mio fratello, che nel frattempo viveva da solo in un monolocale lontano dal centro, socialmente impegnato con il Sert.
Lei si trovò lavoro come fiorista e io, spalleggiata da mia madre, andai all'università dopo la maturità pagata profumatamente a un istituto privato.
Trovai altri tipi di amici e di persone, meglio di piazza e meglio del Giulio Cesare e mettemmo tutt'e due la testa a posto.
La vita aveva finalmente un senso.
Eravamo felici, bene o male, ogni tanto però piangeva, le mancava la sua famiglia.
La consolavo come potevo e ci riuscivo il più delle volte, finendo a fumarci una Black Devil, alla vaniglia, le sue sigarette preferite. Colpa sua se ho abbandonato il mentolo.
Non mi disse mai che era colpa mia quella sua tristezza ma mi sentivo in colpa comunque.
In realtà, ancora adesso, sono convinta di averle rovinato la vita. E faceva tanto male. E lei, quando stava male per la sua famiglia, mi consolava mentre la consolavo. Erano momenti tristi eppure speciali. Soprattutto silenziosi, non c'era bisogno di parole.
Si integrò facilmente col mio gruppo di amici della facoltà, passavamo molto tempo insieme, a fumare e parlare e ascoltarci, sugli scalini dell'ingresso all'università e prendevamo momenti solo nostri sulle altalene, unici giochi rimasti ancora in piedi, dei giardinetti dietro il nostro e solo nostro appartamento, da quando mio fratello era partito coi medici senza frontiere per l'Africa.
Quel giorno, dopo aver inscatolato insieme a mia madre tutti gli averi di mio fratello e averla vista partire in macchina alla volta della mia vecchia casa, salimmo le scale lentamente, arrivammo al terzo piano, ci guardammo e lei disse solo una parola:
-Nostra.-
Entrammo nella casa mezza vuota stringendomi per mano. Mai nella mia vita sono stata così bene come in quell'istante.
Tutto stava diventando davvero perfetto.
Ma dovevo aspettarmelo, tutto era troppo perfetto.
E quando le cose sono troppo perfette succedono sempre delle catastrofi vere e proprie.
Solo, non avrei mai creduto che ne succedesse una di tale portata.
Una sera, io la stavo aspettando con la cena pronta, era il nostro quarto anniversario e avevo organizzato le cose alla perfezione, non mi era nemmeno bruciato l'arrosto, quando ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto.
Risposi, era sua zia.
Mi disse di fare presto, che mi aspettava in ospedale.
Venni assalita dall'ansia e dal panico. Mentre correvo, piansi senza sapere cosa pensare, il trucco nero mi sporcava le guance, le piaceva quando mettevo il mascara.
Ebbi ragione a disperarmi senza sapere.
Era morta.
Sul lungo Tevere, un autista di un autobus aveva sbagliato pedale accelerando invece di frenare e lei, che attraversava in quel momento, venne travolta in pieno.
Stava tornando a casa prima perché voleva farmi una sorpresa per il nostro anniversario.
Ancora una volta, non potei far altro che pensare che fosse solo colpa mia.
Non poteva essere, non volevo crederci.
Volli vedere il cadavere.
Dopo una scenata da dramma greco mi ci portarono davanti.
Piansi, piansi ancora, piansi tutte le mie lacrime.
La baciai, baciai il suo corpo freddo, poco mi importava che fosse cadavere, con tutta la tenerezza che potessi donarle, per un ultima volta. Il medico presente non disse niente ma capii che gli stavo facendo schifo vedendo come mi, ci, guardava.
Me ne fregai e uscii da quella stanza gelida.
Ad oggi, ho ancora dubbi sul cosa avessi fatto per metterci quattro ore per arrivare a casa nostra.
So di essere stata davanti al teatro, sul Pincio, alla gay street e di sicuro in tutti quei luoghi piangevo, troppo importanti, troppo belli per non toccarmi.
Non piansi più.
Mi rintanai in casa senza uscire e senza farmi viva con nessuno.
Avevo barricato la porta. Quei miei pochi amici che provarono a sfondarla non ci riuscirono e mi lasciarono sola.
Poi scrissi una mail inviandola a tutti i miei conoscenti, amici e nemici, tutti.
Lo feci per scrivere e tramandare la nostra storia.
Lo sto facendo ora in realtà.
E' questa la mia ultima mail al mondo.
E' questo il prequel di quel che ho scritto su efp dieci minuti fa, immaginando la mia morte.
Così farò, l'ho già scritto. Non sono una codarda.
E poi la mia vita non ha più senso.
Ora saluto. Chiunque tu sia, oh lettore.
Pubblico anche qui. Che questo scritto sia testimone di noi, di me.
Vorrei che qualcuno ricordasse di tutto questo, nel caso io me lo dimentichi una volta dall'altra parte.
Addio mondo, buonanotte Italia.












Ogni riferimenti a persone o a eventi realmente esistenti o accaduti è puramente casuale. Forse. [?]


  
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