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Autore: Malvagiuo    08/12/2011    2 recensioni
Breve racconto thriller in quattro capitoli.
Un uomo penetra di notte all'interno di una casa immersa nel buio. E' determinato a compiere un efferato delitto, spinto dalla sua fede incrollabile e da un fanatismo che sfocia nella follia. Ma qual è la relazione tra questo misterioso assassino e la vittima? Perché è così determinato a fare scempio del suo corpo in maniera tanto brutale? Attraverso quattro capitoli, quattro storie all'apparenza scollegate, scoprite il mistero del cerchio di morte.
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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3
 
“Gli occhi hanno qualcosa di diabolico” non poteva fare a meno di pensare Mary Dewey, quel giorno a scuola.
Non possono toccare fisicamente un corpo, ma basta che si focalizzino su di esso perché la pressione esercitata dallo sguardo sia percepibile. Due occhi che fissano sono opprimenti. Decine di occhi sono intollerabili. Centinaia sono un supplizio.
Mary camminava svelta, mantenendo il capo più basso che poteva, quasi a formare un angolo retto con il petto. Tutto ciò che vedeva era il nudo pavimento che scorreva sotto di lei, come un fiume privo di forma e vita. Si sentiva come prigioniera in una pressa, schiacciata a morte da ogni lato, senza via di scampo.
Con la testa abbassata, poteva concentrare la propria attenzione sull’unica cosa in grado di darle coraggio. Il piccolo crocifisso d’argento che portava intorno alla collottola oscillava su e giù, complice la foga dell’andatura. Sembrava scappare al suo fianco.
«Ehi, piccola ritardata!»
Eccola. La voce del demonio.
Mary aumentò la falcata dei propri passi. Un movimento di poco più accentuato, e sarebbe stata una corsa in piena regola.
«Idiota, ce l’ho con te!»
Il corridoio si fece sempre più stretto. Capì che si stava infilando in un vicolo cieco, anche se la mente si ostinava a suggerirle di proseguire il cammino. Un rumore di passi pesanti la seguiva. Questa volta erano ancora di più. Ma anche se si fosse trattato di un solo demonio, in ogni caso non avrebbe avuto via d’uscita.
“Dolce Signore, aiutami... ti prego” supplicò Mary.
Il miracolo, per un istante, parve compiersi: di fronte a lei apparve una porta. Dava sull’esterno. Sulla Jefferson Street. Un posto pieno di persone, affollato. Da lì non sarebbe stato un problema scappare. Sciolse un braccio dalla morsa con cui stringeva i libri di scuola al petto e lo diresse verso la maniglia di sicurezza davanti a lei. Riuscì persino ad afferrarla.
Poi qualcos’altro afferrò lei. Una presa ben più forte e crudele. Quella stessa forza che le si era avventata sulla spalla la costrinse a voltarsi. Smossa con brutalità, Mary si trovò faccia a faccia col demonio: Jane Nalcott. Alta, enorme e con quegli occhi in grado di congelare il cuore fino all’ultima fibra. Vedendola, non poteva non rievocare il paragone con la storia di Davide e Golia. Solo che lei non era la prescelta del Signore.
«Volevi scappare, puttanella?»
Un altro strattone e i libri scivolarono dalla sua stretta, crollando a terra.
Un coro di risate seppellì il gemito di Mary. Sette ragazze la circondavano, imponenti quanto Jane. O forse non erano affatto imponenti, era Mary nella propria esilità a vederle come mostri.
Un torrente di insulti la ricoprì. Avrebbe voluto coprirsi le orecchie con le mani, perché quelle parole erano la voce di Satana, come suo padre le aveva insegnato. Ascoltarle era peccato mortale. Ma anche parlare con le altre ragazze lo era. E indossare pantaloni come gli uomini. Tutto era peccato, tranne quello che diceva il babbo.
Mary portava una lunga gonna di lana che chiunque possedesse un minimo di senso estetico avrebbe definito orripilante. Non che il resto del suo guardaroba fosse diverso: abiti scoloriti, sgualciti, disadorni, che chiunque altro si sarebbe rifiutato persino di vedere nel proprio armadio. Tuttavia, quegli abiti l’avrebbero resa meno repellente agli occhi del Signore. Lei era donna, nell’età in cui si diveniva impure, e pertanto destinata a essere repellente agli occhi di Dio. Ma se avesse seguito la Sua parola, se la sua vita fosse stata consacrata alla cieca devozione verso Colui che salvò il mondo, probabilmente la sua anima sarebbe stata salva. Queste erano le parole di suo padre, cui lei doveva prestar fede.
“Altrimenti brucerai all’Inferno come tua madre” aggiungeva sempre, alla fine di una predica.
Mary non aveva mai osato parlare con lui di quello che le succedeva a scuola. Non era difficile tenerglielo nascosto, dal momento che assai raramente se ne interessava. Tutto ciò che importava a suo padre, era che Mary recitasse correttamente le preghiere, fosse devota e adempiesse ai suoi doveri verso il Signore. Il resto era polvere, o peccato.
Non gliene aveva mai parlato perché sapeva che, in qualche modo, quello che le accadeva era colpa sua. Attraverso vie che ignorava, commetteva peccati, gravi peccati, in grado di ripercuotersi sulla sua vita, punendola tramite la persecuzione da parte di questi messaggeri del demonio. Se il babbo ne fosse venuto a conoscenza l’avrebbe punita a sua volta, e Mary temeva le punizioni di suo padre più di qualsiasi umiliazione potesse subire da Jane Nalcott e il suo branco.
«Guardate cosa si è messa oggi!» esclamò Barbara Larson, da un punto imprecisato dietro le spalle di Jane.
«Sembra un sacco di patate!» si unì al coro Rebecca Stemper.
«E se gliela togliessimo? Secondo me non porta neanche le mutande!» suggerì Alice Robbins.
Un’ombra di sadico divertimento illuminò il volto di Jane.
«Perché no? Facciamo prendere un po’ d’aria a quelle gambette!»
Le furono addosso prima che potesse accennare una reazione, ammesso che una ragazzina fragile, sola e confusa come Mary Dewey fosse in grado di trovare la forza per reagire. Cadde brutalmente sul pavimento del corridoio, mentre il branco le strappava a forza la gonna, mettendole a nudo le cosce e le parti intime che, per fortuna, non erano nude come si era aspettata Alice Robbins.
«Chi la vuole come souvenir?» urlò Jane, sollevando e brandendo l’indumento come se avesse tra le mani il trofeo del torneo scolastico di volley.
Nessuna reclamò il bottino. Rebecca Stemper, però, adocchiò qualcosa che le altre parevano non aver ancora notato.
«Carino quell’affarino».
Quando Mary capì che lo sguardo di Rebecca stava puntando il suo crocifisso, una scarica di terrore la pervase come mai prima di quel momento. Non perse tempo a riflettere sul da farsi: agì e basta.
Con uno scatto che nessuno avrebbe immaginato possibile per un corpicino tanto delicato, la ragazzina forzò l’assedio del branco di bullette e si precipitò nella sola via libera di fronte a lei. Non badò alle imprecazioni e alle voci sollevatesi alle sue spalle, pensò solo a correre.
Correre. Correre. Correre.
E corse, Mary. A lungo, a gambe scoperte, senza badare agli sguardi attoniti degli alunni della scuola. Troppo pochi per aiutarla, troppo saggi per mettersi contro Jane Nalcott e il suo gruppo. Mary era sola. Come sempre era stata, nella sua vita. Aveva un padre, ma a volte si domandava se il Signore non l’avesse lasciato al suo fianco al solo scopo di torturarla per i suoi peccati. Mary accettava il dolore perché ne comprendeva la ragione. Sua madre era affogata in un lago di sangue per partorirla, un peccato così tremendo – essere venuti al mondo con un tributo di morte – che andava espiato giorno per giorno. La sofferenza era necessaria. Il dolore era la via per la salvezza.
 
Senza capire come, Mary si ritrovò in un posto buio e freddo. L’umidità le bagnava il volto, e non appena gli occhi si furono abituati all’oscurità cominciò a distinguere delle sagome: tubature gocciolanti e manovelle arrugginite. Era finita nella caldaia. Il boiler, gigantesco e minaccioso alla sua sinistra, confermò l’ipotesi.
Non il migliore dei rifugi, ma per un po’ sarebbe rimasta lì, al sicuro.
Si accovacciò in un angolo, cingendosi le ginocchia con le braccia e avvicinandole il più possibile al petto. Non era più facile come una volta. Fastidiose protuberanze di carne le sporgevano dal torace, benché si fosse resa conto che tutte le ragazze le avessero. Suo padre non sopportava di vederne il profilo sotto i suoi abiti. Mary ricordò con terrore quella volta, pochi mesi prima, in cui, irrompendo in camera sua, il babbo l’aveva sorpresa a fissarsi allo specchio, svestita dalla cintola in su. Quel giorno, Mary aveva provato dolore come mai prima. Ricordò il sangue scorrerle sui seni appena delineati, macchie rossastre sull’addome fin dentro l’ombelico, tagli ovunque. Aveva tremato, mentre suo padre la copriva di sputi rabbiosi. Rammentava ancora perfettamente il bruciore della saliva sulle ferite.
All’improvviso tornò alla realtà. Si ricordò di essere praticamente nuda dalla vita in giù e comprese di non avere nessuna possibilità di recuperare la gonna. Se fosse tornata a casa a quel modo, papà l’avrebbe massacrata come quel giorno di tre mesi prima. Non poteva tornare. Aveva peccato di nuovo. Però... però...
Però... porca puttana!
Aveva appena pensato una brutta parola. Anzi, due bruttissime parole! Portarsi tempestivamente la mano destra alla fronte per segnarsi non fu sufficiente a placare la sua collera, così come non bastò la paura di peccare.
Porca puttana, Cristo, questa volta non è colpa mia! Io non ho fatto niente! Niente!
Aveva nominato il nome del Salvatore invano. Questo era peggio, molto peggio, di qualsiasi altra cosa mai fatta prima. Suo padre le aveva insegnato che, per un simile crimine, avrebbe trascorso una settimana all’Inferno anche in caso di pentimento e assoluzione.
Eppure, dentro di lei stava accadendo qualcosa di nuovo. Di nuovo e, forse, irripetibile.
Nonostante la gravità dei pensieri formulati poc’anzi, la collera continuava a infuriarle dentro. Un’emozione più potente di tutte quelle mai provate finora. Più potente persino di un’estasi religiosa. Mary non capiva cosa le succedeva, ma lo sfogo di quella rabbia repressa, seppure rimasta dentro la propria testa, le stava facendo un gran bene. Lo percepiva nitidamente, proprio come percepiva i passi pesanti che riecheggiavano sugli scalini che portavano alla caldaia.
Jane Nalcott. Il demonio.
Sola.
Evidentemente la sua premura di trovarla era stata tale da mandare le altre del branco in esplorazione altrove. Anche se doveva vedersela con la sola Jane, la situazione per Mary non migliorava granché. Contro una o contro dieci, la sproporzione di forze era comunque enorme.
«Ti nascondevi qui, puttanella?»
Jane sorrise. Ghignò, anzi. Già si sfregava le nocche, pregustando il momento in cui avrebbero massaggiato le guance di Mary.
«Lasciami in pace» mormorò quest’ultima.
Jane arrestò di colpo la propria avanzata. Non certo per timore, solo per sbigottimento. Mary aveva parlato. Sapeva parlare. Incredibile. Era curioso. Un po’ come parlare con l’agnello cotto al forno nel piatto.
«Come vuoi, tesoro. Desideri altro?» replicò, assumendo un’espressione contrita.
Prima che Mary potesse rispondere, un gran destro si abbatté sul suo muso e la fece sbattere con violenza contro le tubature dietro di lei.
Il sangue. Era tornato. Un fiotto caldo e dal sapore sgradevole, che le scorreva sulla bocca facendola quasi annaspare e inzuppandole la maglia. Dopo una botta del genere, la capacità di coordinazione di Mary diminuì notevolmente. Anche solo capire dove si trovasse e ricordare il proprio nome divenne difficoltoso. Così, quando afferrò una delle tubature cadute a terra dopo l’impatto, a malapena si rese conto di stringere qualcosa nella mano. La vista era sfocata, ma comprese che Jane si stava avvicinando. Una figura che si stagliava sullo sfondo, enorme, nera, minacciosa. Fu l’istinto di sopravvivenza a guidarla, nient’altro. Sollevò un braccio con le forze residue e questo produsse un rumore sommesso, soffice, quello di un corpo duro che colpisce una superficie morbida. Sapeva che si trattava di un gesto inutile e ridicolo. Perse conoscenza qualche secondo più tardi.
 
Quando si risvegliò, era nelle stesse condizioni di prima. Sdraiata per terra, dolorante, circondata da tubi. Si accorse di essere bagnata, in basso. C’era un peso considerevole sul suo ventre. Non appena ebbe recuperato un poco di lucidità, vide che l’oggetto in questione era coperto di folta peluria.
Capelli.
I capelli di Jane Nalcott.
Era la sua testa a essere appoggiata sulla sua pancia. Il resto del corpo riverso per terra, inanimato, immobile. Un sacco di liquido rossastro e appiccicoso sporcava la sua testa e colava sulle gambe di Mary.
La ragazzina non pensò a niente. Non badò al bullone sporgente che aveva perforato il cranio di Jane, né al suo bacino lordo di sangue. Pensò solo a sfilare i jeans della sua carnefice e a indossarli, dopodiché uscire. Uscire e fuggire. Fuggire e uscire. Due parole che riecheggiavano di continuo, rimbalzando da una parte all’altra della sua testa.
Questa volta, non incontrò resistenza nell’allontanarsi dalla scuola. Uscì senza essere notata, nonostante gli enormi jeans che indossava e le sformavano vistosamente le gambe minute. Cominciò a correre prima di accorgersene, e la percezione dell’entità di ciò che aveva appena commesso iniziò a sfiorarla. Questo era più che pensare brutte parole, persino peggio che bestemmiare.
Aveva ucciso.
Un crimine irrimediabile, un’onta incancellabile.
Sfiorando il piccolo crocifisso, ebbe l’impressione che fosse rovente, come se il metallo fosse orripilato dal contatto con la sua pelle. E capì di essere condannata all’inferno.
«L’inferno» sussurrò.
Un velo di lacrime le imperlò gli occhi.
«L’inferno... l’inferno...»
Continuò a mormorare la stessa parola, a lungo. Al culmine della disperazione, pochi istanti prima di entrare nello stato catatonico in cui Tommy Hambrook l’avrebbe ritrovata di lì a qualche ora, urlò.
«L’inferno! L’inferno! L’INFERNO!»
   
 
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