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Autore: Rigel und Betelgeuse    11/12/2011    2 recensioni
«Essere Auror è diventato superfluo (...)A parte il fatto che la carestia di Mangiamorte è davvero qualcosa di deprimente, anche se se ne trovasse qualcuno sono tutti talmente infiacchiti che non c’è nemmeno più gusto»
Ronald aveva pensato che fosse da perfetti idioti fare un discorso del genere ad uno che, in un passato non eccessivamente remoto, non solo si era trovato in mezzo ad una carneficina, ma ci aveva anche rimesso un fratello.

Un'ipotesi. Dopoguerra cominciata nel 2008, che ho ritrovato, riletto e mi ci sono riaffezionata. Per un po' è apparsa anche su EFP, ho voluto rimettercela.
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Famiglia Weasley | Coppie: Angelina/George, Harry/Ginny, Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Trilogia dei Non Scritti'
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1. Avere vent'anni



Harry Potter si alzò dal tavolo coperto di velluto blu al quale era rimasto seduto fino ad adesso, mentre il salone si svuotava lentamente, un brusio entusiasta in sottofondo.
La Conferenza era andata bene, tranquilla come al solito; anzi, molto più che tranquilla. Erano poco più di sei mesi che si era lasciato trascinare in quel circolo vizioso, ma gli era stato subito chiaro che genere di clima avrebbe dovuto affrontare ogni volta. E, di fatti, in tutti e cinque i simposi tenuti fino ad ora (quasi uno al mese) lo scenario era sempre quello: uno stuolo di un centinaio di maghi e streghe che, imbambolati come bambini babbani davanti ad un numero da prestigiatore, guardavano con venerazione a colui che aveva sconfitto la minaccia più grande di tutti i tempi, quasi che ogni sua parola fosse oro colato. C’erano momenti in cui Harry non era nemmeno sicuro che la gente ascoltasse quello che diceva; sicuramente nessuno guardava la sfilza di nozioni teoriche che apparivano alle sue spalle come cucite nell’aria da fili argentini, riassumendo le relazioni che lui si prendeva la briga di esporre circa le nuove soluzioni operative adottate dal corpo degli Auror per garantire massima sicurezza alla popolazione magica.
Non che non fosse consapevole del fatto che la gente lo considerasse un eroe, ma aveva cominciato a chiedersi se fosse effettivamente utile andare in giro per l’Europa a fare discorsi che la gente, probabilmente, ascoltava con un orecchio solo.
«Ottimo lavoro, Harry» Fleur gli poggiò una mano sulla spalla, un sorriso composto a dipingersi sul suo bel volto di giovane mamma «Mia madre ha assolutamente apprezato ton intervento. Vorrebbe rimanessi a scena»
«Sì, dai Harry, rimani» gioviale Bill, mentre supportava sua moglie in quell’invito, la bambina al collo che sonnecchiava.
Fleur e Bill avevano approfittato delle ferie di lui per scendere in quel di Parigi in una meritata vacanza a casa dei genitori di lei. Sebbene si sarebbe potuto pensare che non ci fosse occasione migliore per dedicarsi all’ozio, Harry colse nel tono del più grande dei Weasley una sfumatura particolarmente solerte, che gli fece pensare che, forse, Bill avrebbe preferito rimanersene placidamente a casa sua, magari stravaccato sul divano con la piccola Victoire che giocava ad acconciargli i capelli, piuttosto che andare a far visita ai suoceri. E, in quelle quattro parole, gli parve di leggere una velata richiesta d’aiuto.
Harry sorrise un po’ traballante, assolutamente sicuro circa quello che avrebbe voluto rispondere, un po’ meno a riguardo di quello che avrebbe effettivamente detto.
«Ma, ecco…veramente io…» la partenza non era delle migliori. L’esperienza gli aveva insegnato che, se si vuole ottenere udienza, cominciare tentennando è la scelta più sbagliata.
Non è che Harry avesse nulla di particolare contro la Francia, ma da quando si era ritrovato (con una passaporta in mano) di fronte ad un funzionario che gli dava il benvenuto con un marcato accento francofono, bèh, era da quel momento che non vedeva l’ora di levare le tende da lì. Lo sapeva qual era il problema, anche se preferiva fare finta di nulla.
«Avanti Harry, non ti farai mica pregare!» Fleur rise in modo molto francese, portandosi una mano sulla bocca perfetta «In fondo siamo quasi paronti!»
Nulla di quello che il fantomatico Harry Potter disse o fece riuscì a dissuadere la coppia dal trascinarlo nella bella casa che i Delacour possedevano a Boulogne-Billancourt.
Mentre veniva respinto dalla signora Delacour in un tentativo di aiutare ad apparecchiare la tavola, Harry pensò che quella di Fleur non era una famiglia poi troppo diversa da quella di Bill.
C’era stato un periodo della sua vita in cui Harry aveva amato moltissimo le famiglie. Avrebbe dato qualsiasi cosa per potere essere adottato a tutti gli effetti da Arthur e Molly Weasley in quegli anni, e non c’era momento migliore che quei Natali passati nella cucina di quella truppa lentigginosa a mangiare leccornie fiabesche.
Harry aveva amato ancora di più le famiglie quando aveva finalmente aperto gli occhi e si era accorto che Ginny Weasley non era solo la sorella del suo migliore amico, ma era anche una ragazza. A sedici anni è presto per pensare in grande ad un futuro, ma Harry era cresciuto circondato da solitudine, e non aveva desiderio più grande che quello di avere un paio di marmocchio con occhi verdi e lentiggini sul naso. Poi, un anno dopo, era accaduto l’Irripetibile.
Harry aveva pensato che, una volta usciti da tutta quella storia, le cose avrebbero potuto sistemarsi. Il suo rapporto con Ginevra avrebbe dovuto stringersi come un nodo in una corda bagnata, e loro avrebbero finalmente potuto mettere su la loro personalissima famiglia. Ma non aveva messo in conto che, nell’Irripetibile, ci sarebbero potute essere delle Vittime. E con la V maiuscola.
Che Ginevra se n’era andata dalla Tana e dall’Inghilterra, ormai erano tre anni. Perché avesse scelto la Francia non si sapeva, anche se era semplice pensare che lo ritenesse il posto sentimentalmente più vicino a Casa, sebbene i suoi parenti acquisiti stessero da tutt’altra parte rispetto alla fiorita Camargue, nella quale lei aveva scelto di rifugiarsi.
All’inizio, sebbene non si fossero lasciati ottimamente (lui assolutamente allibito dalla scelta di lei, e combattivo nel dirle ”resta, ci sono qui io”, e lei che sembrava sia sorda che cieca, e non si era mai rivelata più determinata che in quel momento), si erano scritti, per un po’. Ma quando le risposte lente e lontane di lei cominciarono ad evitare quelle frequenti e accorate di lui, anche Harry si stancò di quel rapporto effimero.
Il motivo per cui, adesso, si sentiva così a disagio, anche a chilometri di distanza dalla Camargue, era che aveva amato troppo Ginny e aveva sofferto troppo nel smettere di amarla. E, anche se era convito di esserci riuscito, avrebbe voluto raggiungere casa al più presto.



«Essere Auror è diventato superfluo» così aveva esordito Dwane Morrison qualche sera prima, mentre lui e Ronald Weasley passeggiavano sotto Marble Arch.
«A parte il fatto che la carestia di Mangiamorte è davvero qualcosa di deprimente, anche se se ne trovasse qualcuno sono tutti talmente infiacchiti che non c’è nemmeno più gusto»
Ronald aveva pensato che fosse da perfetti idioti fare un discorso del genere ad uno che, in un passato non eccessivamente remoto, non solo si era trovato in mezzo ad una carneficina, ma ci aveva anche rimesso un fratello. Ma non aveva nemmeno fatto in tempo a scaldarsi che un guizzo di luce rossa aveva quasi rifilato la rasatura alla mascella di Morrison.
Bazzicare nel quartiere sbagliato, allungando un po’ la ronda per ingannare il tempo, aveva effettivamente portato i suoi frutti e, contemporaneamente, aveva offerto il pretesto per contraddire Dwane riguardo alla presunta perduta forma fisica dei Mangiamorte.
Il motivo per cui, adesso, Ronald se ne stava seduto alla scrivania di Duff, aspettando irrequieto la consegna del calendario dei turni, era che sia lui che Morrison avevano frequentato diligentemente i corsi di pratica durante il tirocinio e, ora che erano di ruolo a tutti gli effetti, non mancavano nemmeno un corso d’aggiornamento.
Se l’erano cavata con un paio di ustioni superficiali e un’iniezione d’adrenalina che la metà sarebbe bastata. E, ora come ora, che tutto l’entusiasmo per la cattura di Beckett era sfumato, Ron covava un’ansia al centro del petto che gli pesava come un macigno.
Erano dieci minuti buoni che se ne stava lì seduto, senza spiccicare una parola, osservando lo scartabellare di Duff, in attesa che gli venissero rilevati i nuovi turni di ronda.
La nomina di Rappresentante dei Cadetti era suonata molto meglio la prima volta che l’aveva sentita, quando ancora non era a conoscenza di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi compiti. Se avesse anche solo lontanamente immaginato che si trattava di un titolo puramente formale, e che i suoi unici privilegi sarebbero rimasti circoscritti ad un piacevole tête à tête settimanale col suo capo reparto, non avrebbe aspettato nemmeno un nano secondo per cedere l’incarico a qualcun altro.
Una sonora schiarita di voce lo strappò via dalle sue commiserazioni, facendolo sobbalzare.
«Dunque, dunque, dunque» bofonchiò Duff, che sembrava finalmente aver trovato l’unico foglio utile in mezzo a quella del tutto rispettabile risma «Ecco i suoi turni, Weasley. È libero di discuterne con i suoi compagni per apportare eventuali modifiche, ma ricordi che una Recluta va sempre, e sottolineo sempre, appaiata a due Cadetti»
«Sissignore» borbottò Ron, allungando una mano per prendere il foglio che Duff gli porgeva.
«E si ricordi che qualunque cambiamento, e sottolineo qualunque, deve essere riportato nei registri»
Nell’annuire una seconda volta, Ron si era già messo avanti con i convenevoli, alzandosi dalla sedia prima ancora che il suo superiore ufficializzasse il congedo dal suo ufficio. La verità era che Ronald voleva squagliarsela di lì prima che Duff scivolasse nell’argomento Marble Arch, perché, se lo conosceva anche solo un minimo, sapeva perfettamente che non l’avrebbe fatto per profondersi in congratulazioni.
«Ah, prima che se ne vada, Weasley» il tono discorsivo di Duff, che riportava gli occhi sulle sue carte, funzionò su Ron meglio di un Pietrificus Totalus «Mi è giunta voce che lei e Morrison vi trovavate nei pressi di Marble Arch, ieri sera…»
Weasley deglutì, due occhi tondi come due palline da golf, mentre qualcosa di pesante gli cadeva sullo stomaco.
«A-ahm…» balbettò, lo sguardo fisso sui turni «sì…si, signore, eravamo lì…»
«Nonostante vi fosse stata assegnata la zona di Elephant&Castle» continuò Duff come se non ci fosse stata nessuna risposta.
Ronald si schiarì la voce, mentre le orecchie cominciavano a prendere una tonalità più accesa di rosa.
«S-sissignore…»
«E mi risulta che il vostro intervento, nonostante tutto, si sia rivelato piuttosto fortunato»
«Ah, bèh…» per un momento la tensione si allentò, tanto che gli angoli della bocca di Ron scivolarono verso l’alto, un po’ traballanti «ci…ci è andata bene…»
«Si rende conto che quello che avete fatto lei e il suo compagno è di una gravità non trascurabile?»
«S-sì signore, ma…»
«Che solo fortuitamente nel quartiere che avete lasciato scoperto non è accaduto nulla di rilevante?»
Weasley aprì e richiuse la bocca più volte, senza riuscire ad emettere qualcosa di più dettagliato che «…c-certamente signore…»
«E che, data la vostra inesperienza, potevate anche trovarvi in serio pericolo intervenendo nella cattura di due Mangiamorte?»
Ron annuì con lentezza, mentre il discorso vanaglorioso di Dwane gli si riaffacciava in testa, così come tutti gli anni di scuola che avevano seguito il quinto. Probabilmente anche Duff, nel suo intimo, si rendeva conto di quanto la parola inesperienza fosse inappropriata. Ma Weasley era sempre stato un tipo che si faceva intimorire dai toni autorevoli e dai gradi alti, e non ebbe il cuore di mettere superflui puntini sulle i.
«Siccome si dà il caso che lei e Morrison sembriate essere particolarmente baciati dalla fortuna, per questa volta lasceremo correre»
Il cuore del rosso riprese a battere regolarmente, mentre lui tratteneva un sospiro di sollievo.
«Un’altra volta, però» riprese Duff, alzando finalmente lo sguardo dalle sue scartoffie «non sarò così clemente. Lo faccia presente anche al suo amico. È congedato»
Prima ancora che il suo superiore avesse finito di parlare, Ronald aveva fatto il saluto militare, e con un flebile sarà fatto, signore, era uscito dall’ufficio, richiudendosi la porta alle spalle.



Hermione Granger sbuffò irrequieta, le iridi color cioccolato che si muovevano tra i tavoli vuoti della mensa, un dito a tormentare una ciocca crespa di capelli.
Di fronte a lei, Morrison sfogliava la Gazzetta del Profeta, alla ricerca di quel ritaglio di pagina che mostrava Beckett in manette, il suo nome e quello di Ron a guizzare trionfanti nel trafiletto affianco.
Seduti al loro stesso tavolo – l’unico popolato in tutta la sala a quell’ora del pomeriggio – c’erano altri due dei loro compagni che, come loro, stavano aspettando l’arrivo dei turni. Paul Kurtis era intento a divorare un libro dalla copertina talmente logora che risultava difficile distinguerne il colore, mentre di fronte a lui, seduto accanto ad Hermione, il capo reclinato sulle braccia, Enea Rice sembrava aver colto l’attimo per schiacciare un silenzioso pisolino.
Un’energica manata sul tavolo fece sussultare Kurtis e sobbalzare Rice, mentre Dwane portava gli occhi sul componente femminile di quella flemmatica brigata.
«Accidenti» borbottò tra i denti Hermione guardando in direzione dell’ingresso «perché ci mette così tanto?»
«Si sarà perso in chiacchiere con qualcuno» suggerì Paul facendo spallucce.
«Ma sono quasi venti minuti che è in giro» rispose nervosa la ragazza, ricacciando dietro le spalle il ciuffo di capelli con cui stava giocherellando «Non ce ne mette mai più di cinque…»
Di cosa fosse successo a Murble Arch la notte prima se ne mormorava in giro da tutto il giorno. Appena archiviato un caso all'Uso Improprio delle Arti Magiche, Hermione si era fiondata come una scheggia al Quartier Generale Auror, setacciando i locali fin quando non aveva incontrato Rice.
Lo aveva guardato minacciosa e, minatoria, gli aveva chiesto secca dove potesse trovare Ron. Enea aveva balbettato che in effetti anche lui doveva vederlo per l'assegnazione dei nuovi turni, e che sarebbe andato ad aspettarlo in mensa, come era uso fare. Lei gli si era appiccicata addosso come una zanzara, mettendolo in un disagio epocale poiché sembrava più elettrica di una torpedine. Ora se ne stavano lì, tre Auror e un Agente, ad aspettare di sapere di che morte dovessero morire - chi per paura a seguito della sfuriata che la Granger con tutta probabilità avrebbe fatto a Weasley, chi per un aneurisma conseguente alla stessa azione.
«Stai tranquilla Hermione» intervenne Dwane, chiudendo il giornale «non può essergli successo nulla di…»
«Ah no?!» eruppe lei, questa volta una nota spazientita nella voce «Vuoi sapere cosa penso io, invece?! Penso che Ron si stia prendendo una bella strigliata per quello che è successo l’altra sera a Marble Arch! Penso che Duff stia considerando tutti i possibili provvedimenti da prendere nei suoi confronti e nei tuoi confronti…e non guardarmi con quella faccia, Dwane, sai benissimo come la penso anche a proposito di questo!»
Prima che il ragazzo potesse replicare, passi ritmici e frettolosi riportarono l’attenzione dei quattro sull’entrata.
Ron teneva gli occhi fissi su un foglio, la fronte aggrottata e un broncio degno di un bambino di sette anni in faccia. Senza nemmeno un cenno di saluto raggiunse i suoi compagni e si lasciò cadere pesantemente sulla panca accanto a Rice.
Tutti quanti lo fissarono senza parlare, in attesa di un decreto di qualche genere.
«Allora?!» a rompere il silenzio fu ancora una volta Hermione, che aveva rivolto lo sguardo in direzione della finestra e ostentava un’aria scocciata.
«Allora ecco i turni» sbottò secco Ron, piazzando il foglio sul tavolo «Weasley e Rice in Oxford Circus con Martins e Sergant; Potter e…»
«Cos’è successo?» interruppe la ragazza, voltandosi appena per tirargli un’occhiataccia. Ronald sbuffò, lanciando ad Dwane uno sguardo disarmato. Hermione di schiarì la voce.
«Non avrei voluto dire ve l’avevo detto, ma--»
«Oh, ma lascia perdere!» eruppe il rosso seccato, incrociando le braccia «Se non fosse stato per noi, a quest’ora Beck--»
«Sì sì, va bene, è stato tutto molto eroico» tagliò corto lei, gesticolando nervosamente con una mano «ma poteva costarvi…»
«Ah, non cominciare anche tu, Hermione! Non venirmi a dire che data la nostra inesperienza, potevamo anche trovarci in serio pericolo! Ma per favore! È da quando avevamo quindici anni che abbiamo a che fare con dei Mangiamorte!»
«Non è questo il punto, Ron!» vociò la ragazza, sbattendo un piede per terra «Voi due dovevate rimanere dove vi era stato detto di essere!»
«Ma…»
«Salve a tutti!» la voce squillante di Korea Duncan che prendeva posto al tavolo mise fine a quella disputa «Scusate il ritardo, c’era…ma è successo qualcosa?»
Hermione distolse gli occhi con stizza, accavallando le gambe ed irrigidendosi sulla panca.
«Assolutamente» sibilò fissando la finestra.
«Diamo un’occhiata a questi turni» sospirò stancamente Ron, mentre Dwane cercava di soffocare un inappropriato scoppio d’ilarità.



Ci aveva provato, per un po’: prima ad accettare le cose così come stavano, poi a fare finta di nulla. Ma alla fine aveva dovuto arrendersi davanti all’evidenza che non era roba per lei. L’avevano sempre creduta molto forte, tanto che lei stessa aveva finito col crederci. E, forse, il rendersi conto che non era così aveva un po’ amplificato il malessere che le era cresciuto dentro con la morte di Fred.
I suoi tentativi per passare sopra all’accaduto erano durati due anni, il tempo necessario per diplomarsi ed iscriversi all’accademia per Auror, i cui corsi smise di frequentare molto presto.
Ai suoi genitori non aveva mai detto nulla, ma tutti i suoi fratelli sapevano che stava così, e non aveva mai litigato tanto con George come in quel periodo.
”Piantala di stare male” le aveva detto lui ”Se ce la faccio io, devi farlo anche tu”
Quel devi, a Ginevra, non era piaciuto. Perché, alla fine, sapeva che George aveva ragione. Sapeva che, per quanto fosse dura, doveva riuscire a mandarla giù, per rispetto a chi era rimasto. Ma non ce l’aveva fatta, e aveva preferito andare via.
In quel periodo sembrava che tutto quello che faceva non avesse senso, ma, per come stava, continuava a farlo.
Troncare con Harry era stato uno strazio. Lui aveva lottato con le unghie e con i denti, aveva protestato, urlato, imprecato, ma lei, almeno in questo, si era dimostrata forte a sufficienza da non muoversi di un passo dalla sua posizione. Così, col tono di chi ha chiuso per un po’ l’anima in un cassetto, gli aveva detto ”Domani me ne vado, non lo so quando torno”. E così, dopo tre anni, non era ancora tornata.
A settembre la Camargue era bella, tutta d’oro e champagne quando la luce del sole scendeva a fare solletico ai contorni nelle cose, ombre lunghe e contrasti forti durante quei dieci, dodici minuti che precedevano il crepuscolo.
L’aria era sufficientemente fredda da richiedere un golfino, cosicché Ginny se ne stava sulla veranda a vedere tutto quel miele, avvolta in un poncio di cotone spesso che Luna Lovegood le aveva regalato il giorno dei diplomi. Adesso, a vederne la sagoma bruna e aurea, sfaccettata dal tramonto, infossata in quella poltrona di vimini, le si sarebbe dato qualche anno di più dei suoi ventuno, e gli occhi un po’ mesti avrebbero contribuito a quell’aura di inconsueto atavismo che l’avvolgeva.
In quei tre anni Ginevra aveva imparato a smettere di pensare a quello che era stato. Lontano da quelli che amava, dai ricordi che aveva, dai posti che conosceva, si era allenata a fingere che la dimensione del passato non esistesse e, piano piano, aveva esteso questo atteggiamento anche al futuro. Viveva giorno per giorno, goccia per goccia, lavorando in una serra magica nel paesino che aveva scelto come nascondiglio, dividendo la vita con l’anziana proprietaria del vivaio.
La donna si chiamava Brigitte, e aveva allargato la sua ospitalità tanto da affittare a Ginevra una camera nella sua grande casa di campagna. Una casa tanto grande per così poche persone. Di stanze, lì dentro, ce n’erano sei, e solo tre erano occupate. Nella terza, quella che non era né di Ginny né di Brigitte, dormiva Maurice, che aveva diciannove anni ed era il nipote della padrona di casa. Era piombato a casa della nonna un anno dopo Ginevra, entrando come un ossesso mentre imprecava in gergo stretto (molto poco chiaro alle orecchie inesperte dell’ospite di sua nonna) contro i suoi genitori. Quella che doveva essere una fuga di casa non tardò molto a trasformarsi in routine, tanto che, dopo qualche tempo, Maurice finì per trasferirsi da Brigitte in pianta stabile.
Adesso, mentre Ginevra guardava la campagna affogare in un bagno di sole, Maurice guardava gli occhi di lei strabordare di tutto quell’oro, mentre tornava su dal paese dopo le commissioni per sua nonna.
«Ehi» la sua voce bruna arrivò bassa alle orecchie di Ginny, abbastanza discreta da farsi attendere prima di essere capita. La ragazza ci mise un po’ per reagire, e anche il modo in cui si voltò verso di lui risultò decisamente lento.
«Ehi» ripeté, una bozza di sorriso sul viso chiaro. Maurice la guardò stranito, grattandosi la nuca. C’erano delle volte in cui pensava che Ginevra fosse bella. Non sempre, molto spesso la trovava normale, tutt’al più carina, o graziosa. Ma, ogni tanto, gli capitava di pensare che fosse veramente bella.
Quella era una di quelle volte.
«Tutto a posto?» le chiese, con quel suo accento dialettale che lei aveva imparato a comprendere col tempo «Sei strana»
Era il suo modo per dirle che la trovava bella.

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Doveroso angolo dell'autrice:
Buondì, tanto per cominciare! Allora, ci tenevo a dire ciò: è parecchio tempo (più o meno da quando ho cominciato questa ff, poi interrotta, parliamo quindi di tre anni fa) che non mi affaccio a questo ilare mondo scrittorio della fanfiction. Poi, boh, è successo che ci sono tornata, ed evidentemente mi ha preso bene.
Questa ff, come già detto nella descrizione, ha cominciato ad essere scritta nel 2008, e lì si è fermata. Ha fatto anche un'apparizione di un considerevole lasso di tempo su EFP, poi ho pensato bene di rimuoverla, considerando il suo stato di latenza. Poi è successo questo: sto leggendo un dopoguerra di orual (che andatevi a leggere se vi piace il genere, io la trovo piacevolissima), e mi è venuta voglia di tornare a scrivere questa, vediamo se sarà il caso di farlo.
Il titolo con il quale era stata inserita questa ff sul sito era orribile, e recitava dicevano che era la fine, poiché erano presenti degli stralci, nella storia, che facevano riferimento ad una vicenda che però, considerando che non sono più sicura di come gestire, ho provveduto a lasciare in sospeso per il momento.
Da ultimo: il titolo del capitolo, Avere vent'anni, è indicativo della fascia d'età in cui quasi tutti i personaggi citati si trovano, anche se in effetti sono già tutti più che ventenni: sono cinque anni che è finita la guerra. Detto ciò non so se gradirete, ma io ammetto che mi sono divertita a rileggere il primo capitolo. Ho finito di blaterare.

EDIT: Ho modificato qualcosa in questo capito per quanto riguarda il personaggio di Hermione. Prima ne parlavo come se fosse anche lei un Auror, cosa che pare non essere mai stata. Ho voluto uniformarmi il più possibile alla traccia che ci ha dato la Row, almeno all'inizio. Detto questo, però mi riservo il diritto di potere muovere questo personaggio (e tutti gli altri) diversamente in futuro, per vedere di dare un filo coerente a quello che scrivo
  
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