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Autore: Eloise_Hawkins    12/12/2011    3 recensioni
Quando aveva tre anni, Claire ha deciso che sarebbe diventata una ballerina. E, data la sua testardaggine, non c'è stato verso di farle cambiare idea. Dopo quindici anni, sembra che il suo sogno stia per essere realizzato: l'Opéra National de Paris ha spalancato le sue porte ai sogni di centinaia di aspiranti. Ma il destino ha sempre qualcosa da ridire: non si fa scrupoli a spezzare la felicità di un'adolescente, strappandole l'unico amore che per lei contava davvero qualcosa.
Questa storia ha partecipato al contest "Paris mon amour", indetto da Primavera Rouge, classificandosi quarta e vincendo il premio per la Miglior Parigi Introspettiva.
Questa storia ha partecipato al contest "Dramatic", indetto da Gufetta 96 e giudicato da Calypso, classificandosi prima.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Toujours


Nickname autrice: Eloise_Hawkins
Titolo: Toujours
Genere: Drammatico, Introspettivo
Rating: Giallo
Avvertimenti: One-shot
Note dell’autrice:Presenti a piè di pagina, per chiarimenti su elementi della storia.

 

***

 «E gli occhi han preso il colore del cielo,
 a furia di guardarlo»

 

 
12 Luglio 2010.
Parigi.
Nel perfetto e minuzioso compasso che la luce del riflettore lanciava sul palcoscenico, danzava una ballerina parigina: come sospesa a pochi centimetri, viveva emozioni, e lanciava sogni silenziosi, lei, unica stella brillante di quella competizione. I giudici, sedotti dalla sua grazia e dal suo volteggiare, si riscossero nel guardarla, come se una magia avesse cancellato dai loro occhi scettici il velo di freddezza con cui avevano finora esaminato le altre. Ma lei, ignara di tutto ciò fosse estraneo all’universo della sua mente, e al palcoscenico su cui danzava, ostinatamente continuava a vivere, in quel seppur approssimativo rettangolo di legno. 
 
Claire, i capelli biondi raccolti nell’ordinato chignon che la disciplina della danza classica le imponeva, percorreva l’enorme atrio dell’Opèra de Paris con un largo sorriso sul volto, che si rifletteva nei chiari occhi azzurri, accesi dalla gioia della vittoria. Senza degnare di un’occhiata lo sfarzo che la circondava – né quei preziosi lampadari che mandavano lampi di arcobaleno, né quelle colonne barocche così finemente cesellate, né quel pregiato pavimento di marmo che faceva riecheggiare i suoi aggraziati passi di velluto – marciò dritta, ricca di contegno e decoro, verso l’ingresso, e, una volta giunta sull’uscio, accolse con un sospiro l’aria tiepida dell’estate parigina. Se l’avesse vista, il viso dalla pelle candida leggermente baciata dai raggi del sole, le labbra dischiuse in quella felicità ebbra, e il nasino all’insù – tipicamente parigino ma non per questo sinonimo di sprezzante alterigia – Erik, che abitava in tempi passati l’edificio Garnier, si sarebbe certamente innamorata di lei – altro che Christine, e altro che cantante! -.
La ragazza, il torace esile fasciato da una semplice canotta dal colore anonimo, respirava affannosamente, e non certo per la stanchezza: quella era scivolata via nel momento in cui Madame Jordan aveva appeso alla bacheca le votazioni dei giudici, che l’avevano decretata, senza risparmiare complimenti né applausi, la nuova Aurèlie Dupont. Benchè a Claire non fossero mai piaciuti i paragoni – Parbleu, je suis Claire Jouetont, non Aurèlie Dupont, ou Eleonora Abbagnato!– non poteva fare a meno di notare una briciola di compiacimento accendersi nel suo cuore, a quelle parole. Così, mentre con passo delicato costeggiava la strada, senza riuscire a smettere di sorridere, ripensava a quel nome – il suo nome – scritto una decina di righe sopra la fatidica e temuta linea rossa.
«Spero che quel sorriso porti anche buone notizie» Una voce gioviale, ma ben conosciuta, fece eco al rombo della moto verde acido che le si accostò; il suo cavaliere – chi ha mai detto che il principe azzurro deve arrivare in sella a un cavallo bianco? – si tolse con gesto teatrale il casco in tinta, rivelando una zazzera disordinata, della stessa tonalità bionda della ragazza, nonché occhi dello stesso colore. Il taglio era diverso, molto più mascolino, eppure ugualmente dolce; l’unica differenza, era che il suo sguardo gentile era contornato da piccole righe che si dipartivano dagli angoli in cui le ciglia si univano, per formare una piccola ragnatela sulle tempie.
«Ottime notizie!» Claire si era fermata, avendo riconosciuto quell’inconfondibile moto, e si era lanciata tra le braccia di suo padre, lasciando cadere con un tonfo secco il borsone che giaceva abbandonato sulla spalla ossuta. Quella lacrima di felicità aveva infine abbandonato le sue ciglia, ed era scivolata sulla gota morbida e arrossata dall’emozione. Lui aveva riso, le aveva porto il casco, e l’aveva lasciata salire; poi aveva messo in moto, e mentre sfrecciava tra le strade di Parigi, i capelli biondi scompigliati dal vento, con un occhio guardava la strada, con l’altro gioiva per il trionfo, per lui indubbio, della figlia, felice almeno quanto lei. E scalando di marcia, le diceva di quanto fosse stato certo della sua ottima riuscita; e in parole mai dette, c’era tutto l’affetto incondizionato di un padre che ha piena fiducia nelle capacità della figlia, sapendo quando innalzarla e quando, invece, stringerla a sé per consolarla. Che quella piccola vittoria fosse solo il primo gradino di una lunga scalata verso la gloria degli applausi di un pubblico caloroso, non l’aveva minimamente accennato; per ora si limitava ad esaltare quel piccolo successo come se fosse un’enorme conquista.
«Quando Monsieur Jordan mi ha stretto la mano… credevo di morire da–
 
Adesso.
Sulla spiaggia.
Claire fissava le onde del mare incresparsi sotto il riflesso argenteo della luna, i capelli biondi al vento, gli occhi azzurri ancora lucidi e colmi di lacrime, spenti e privi di espressione. L’acqua era troppo calma, e quei ragazzi sulla spiaggia troppo quieti. Perché non urlavano? Perché non si disperavano? Perché il mare non era in tempesta? In quel momento avrebbe voluto distruggere tutto, sarebbe voluta scappare lontano... avrebbe desiderato ballare. Dentro di sé una ferita che non si sarebbe mai potuta rimarginare bruciava dolorosamente. Come quel giorno... quell’orribile giorno, quando tutta la felicità che provava si era trasformata in un attimo in una dolorosa e lancinante sofferenza che le avrebbe cambiato la vita per sempre.
 
12 Luglio 2010.
Parigi – Rue de Charenton, esattamente all’incrocio con Avenue Ledru-Rollin
Al Tempo piace giocare a nascondino. O forse, gli piace giocare, e basta. Si nutre di suoni e colori e si appropria di attimi privati, facendosi beffe dello scorrere dei secondi e gestendo a suo piacimento le vite altrui. Quando, alle quindici e cinquantatrè di un pigro e afoso Lunedì pomeriggio, una moto verde acido passò sfrecciando a quell’incrocio, ignara della tragedia che di lì a poco si sarebbe consumata, il Tempo ritenne opportuno mascherarsi, e avvicinandosi di soppiatto alla chioma bionda di una ragazzina abbracciata al suo più grande amore, prolungò il suo dolore beandosi della segreta sofferenza che le stava provocando.
Il Tempo è crudele, ma il Destino è beffardo.
 
Pochi minuti prima.
Sulla spiaggia.
Non è che Alberto non gli piacesse, è che proprio lo odiava. Quella sua camminata tronfia, e il ghigno soddisfatto e apparentemente ammaliatore – almeno a suo parere – che aveva sempre stampato su quella sua faccia da schiaffi, nonché il modo in cui volutamente lasciava i capelli ribelli, come se volesse far intendere che in lui c’era un non so che di anti-conformista, le dava il vomito. Era semplicemente esagerato in ogni sua mossa, così pieno di sé che era certa che prima o poi sarebbe scoppiato. Ed era falso.
«Francesina, mi passi quella birra, per favore?» E dato che era falso, nella sua affettata gentilezza c’era per forza qualcosa di drasticamente sbagliato. Guardandolo con scetticismo, gli allungò la bottiglia di Heineken e lo osservò mentre poggiava le labbra sul bordo liscio, fissandola con la coda dell’occhio. Cosa che a lei non sfuggì, e che confutava l’unico dubbio rimasto ad aleggiarle nella testa. Non era paranoica.
«Sai, non ti facevo un tipo da birra? Pensavo più allo champagne» Alberto, con il suo solito tono saccente e sprezzante, le rivolse un sorriso palesemente ipocrita, citando con enfasi e un orrendo accento francese la bevanda più conosciuta dell’Hexagon. Per tutta risposta, Claire fece spallucce, arricciando le labbra in modo da nascondere per un momento il particolare neo che le macchiava la pelle a sinistra del filtro.
«Questo dimostra ancora una volta quanto tu poco mi conosca» dichiarò con un sorriso falso almeno quanto quello del ragazzo che le stava di fronte, che ghignò in un modo che non le piacque affatto.
«Evidentemente per seguire le orme di famiglia va bene qualsiasi alcolico» continuò lui con arroganza, fissandola negli occhi: il castano dei suoi occhi brillò, per un attimo indefinito, di qualcosa di molto simile alla cattiveria. Claire, non riuscendo a intuire dove volesse andare a parare il giovane, e disprezzando ancora di più il suo fare spocchioso, inarcò un sopracciglio sottile, esternando così la sua perplessità.
«Di cosa stai parlando?» domandò dopo qualche minuto, riempendo il silenzio che aveva ricevuto in risposta alla sua muta domanda. Lui ridacchiò.
«A quanto ne so, Clà» quell’appellativo le tinse le gote di collera «tuo padre ci andava giù pesante, con l’alcool» chiosò crudelmente, regalando quelle verità alle orecchie avide dei loro compagni di classe, che spostarono lo sguardo da Alberto a Claire, sul volto espressioni sconvolte. La ragazza, cieca a quell’improvviso interessamento da parte di quegli adolescenti troppo sciocchi per capire davvero, cambiò totalmente espressione; e il ragazzo che la stava provocando, capì di aver toccato un nervo scoperto quando lei sillabò, con calma glaciale e voce tremante, due semplici parole.
«Non-Osare» Claire deglutì, mentre un uragano imperversava nel suo cuore: le sembrava di sentire le crepe silenziosa che cominciavano a spezzarlo. Dentro di lei stava per scoppiare qualcosa, e Tea, evidentemente, se ne accorse poiché disse: «Alberto smettila, non è bello quello dici!». Parole che riecheggiavano silenziose nella testa di una ragazza troppo sola in mezzo a quella folla; non sentiva più nulla, se non il sordo suono del suo cuore, che batteva disperatamente contro il petto, come un tamburo.
Ignorando l’avvertimento dell’amica, Alberto, ebbro di quella vendetta che stava riscattando il suo orgoglio ferito, continuò: rivolse tutta l’attenzione su di lei, vittima designata di un gioco troppo grande perché ne potesse capire appieno le conseguenze.
«Guida in stato di ebbrezza. Atti osceni in un parco. Aggressione a pubblico ufficiale» elencò con poco riguardo, fermandosi solo per bearsi crudelmente della reazione di Claire; ma la ragazza era in un’altra dimensione, e quelle parole le giungevano come un’eco indistinta, soffocata dal battito del cuore. Si alzò di scatto dalla sedia e respirò profondamente. Faceva caldo. Una goccia di quello che sperava fosse sudore scese calda sulla sua guancia.
«Cosa c’è, Claire? Hai paura della verità? Ti fa male? E sì, la realtà può fare male, a volte» continuò Alberto, falsamente comprensivo, spietato nella sua folle rivincita. I loro amici guardavano silenziosamente la scena. Claire era di spalle, quindi loro non potevano vedere le numerose lacrime che le rigavano il volto, ma, forse, avvertivano il dolore che si celava dietro quelle esili spalle, improvvisamente scossi da un tremore inconsulto, impossibile da celare.
«La verità... tu non sai neanche qual è, la verità, Alberto!» rispose, la voce spezzata dal pianto; si voltò con uno scatto che esprimeva una rabbia repressa ampiamente tradotta nel rossore del viso.
«La verità è che tuo padre è un ubriacone, e tu finirai come lui!» Il ragazzo le puntò un dito contro, con un gesto incredibilmente teatrale, suscitando grida di sgomento e urletti increduli da parte degli spettatori.
«Non ti permetto di insultare mio padre! Sei spregevole!» urlò Claire, in preda a un’ira cieca. Fece un passo verso di lui, e la sua mano fendette l’aria prima che il suo cervello gli ordinasse di farlo: il palmo impattò contro la guancia di Alberto con una violenza che lasciò un segno rossastro sul volto del ragazzo. Lui tacque. Tutto parve spegnersi, intorno. La parigina, provata, ansimava, il respiro pesante e gli occhi accesi di rabbia e di qualcosa di meno definibile, in fondo all’anima.
La quiete prima della tempesta.
«Ti ha mai picchiato, Claire?» il sibilo furioso di Alberto non fece fatica a giungere alle sue orecchie: il ragazzo le aveva artigliato con forza il polso, avvicinando il viso al suo. Si guardavano, entrambi colmi di rabbia e rancore, e respiravano l’uno la collera dell’altro.
Le parole taglienti di quel crudele e spocchioso adolescente che della vita non sapeva nulla, penetrarono nel cuore di Claire con indebita violenza. Lei si liberò dalla sua presa salda, il polso che scottava dopo quel contatto feroce; si allontanò di un passo, e si tappò le orecchie, in un inconsapevole gesto di disperata difesa. Non voleva ascoltare. Quelle che diceva il ragazzo erano solo cattiverie, e lei non era disposta a dargli la soddisfazione di vederla distruggersi sotto i suoi occhi. Così, il viso rosso di dolore trattenuto, e rigato di lacrime, cercò di non scoppiare.
«Chissà… forse ha anche stuprato qualche ragazza, e nemmeno se lo ricorda» constatò Alberto, con sguardo quasi indifferente, mentre i loro compagni, ammutoliti, osservavano la scena come se stessero seguendo una partita di tennis.
«Smettila... ti prego, basta... finiscila. Non è vero, non è vero» bisbigliava Claire, mentre lui continuava a parlare. Dentro di lei si agitava qualcosa; sentiva che stava per esplodere, che non poteva sopportarlo ancora per  molto quelle parole taglienti. Era così crudele da parte sua; e lei non ce la faceva più. Il suo cuore batteva forte, troppo velocemente: un fiume in piena che stava per tracimare. Il suo silenzioso pianto era diventato rapidamente un assordante singhiozzare convulso.
«È così. Puoi nascondere la realtà dietro false intenzioni, ma la verità è che tuo padre...» Alberto non finì mai la frase, perché a quel punto Claire esplose in tutto il suo dolore. Raccolse tutto il fiato che aveva in gola e urlò: «Alberto mio padre è morto!».
Silenzio.
La realtà di quelle parole la ferì forse più dell’insensibilità finora dimostrata dal suo aguzzino. Il ragazzo impallidì al brusco impatto con la realtà: la sua espressione crudele si trasformò in colpevole sorpresa. Claire lo guardò, gli occhi appannati dal pianto, il viso rosso nell’inutile sforzo di contenersi, nel vano tentativo di celare quell’afflizione così terribile, quella perdita tanto sofferta, gli occhi spaventosamente colmi di disperazione. Senza dire una parola si girò e corse via, il più lontano possibile da quel luogo, cancellando dalla sua vista e dalle sue orecchie le parole di Alberto, il quale era rimasto fermo lì, senza sapere cosa fare, cosa dire, esterrefatto dalla sua crudeltà. Ma come poteva sapere? Lo sguardo di Claire era stato terribile... non spaventoso, terribile. In fondo ai suoi occhi c’era un’angoscia malcelata, l’incapacità di vivere davvero, e l’afflizione disperata di una vittima condannata al patibolo. Come aveva potuto essere così stupido? Come aveva potuto essere così infantile? E adesso...
Cercò Claire con lo sguardo. Doveva scusarsi. Quel loro gioco si era spinto troppo oltre.
 
12 Luglio 2010.
Parigi – Rue de Charenton, esattamente all’incrocio con Avenue Ledru-Rollin
Lo scoppio arrivò alle orecchie della ragazza molti minuti dopo rispetto a quando avvenne realmente. Nell’istante che al cervello occorse per tradurre quel suono in realtà, Claire si era trovata a bruciare contro l’asfalto, i capelli sparsi attorno alla sua testa, e qualcosa di caldo, rosso e vischioso che le contornava il capo, tetra e macabra corona di una lucidità ben presto infranta. Il suo sguardo appannato colse lo schiocco con cui il casco verde acido rotolò a pochi metri da lei: ne osservò con patetica cura la traiettoria, terminata su piedi calzate da costose Louboutin – sua madre avrebbe adorato quei sandali dorati.
Un istante dopo, l’udito riuscì anche a cogliere urla terrorizzate e grida disperate; l’olfatto intuì il vago ed acre odore di gomme bruciate; la pelle avvertì il contatto bruciante dell’asfalto reso bollente dal sole estivo. Mentre, con la vista offuscata, percepiva passi frettolosi, amplificati sotto di lei dal potere conducente della terra, intuiva sagome che si chinavano, mani che la sfioravano, e occhi che la guardavano, colmi di apprensione e di una certa, vaga, paura. L’eco indistinta di un ricordo veleggiava placidamente nella sua mente, che cercava, con una calma che in un momento come quello non avrebbe dovuto avere, di ricostruire l’esatta sequenza di eventi che l’aveva portata sulla strada. Quando, dopo minuti che le parvero ore, udì le sirene dell’ambulanza giungere da chissà quale strada, l’ondata di dolore che le avvolse la gamba destra e, un attimo dopo, lo stomaco, fu talmente intensa da offuscarle la vista, impedendole di sentire le parole che qualcuno, non sapeva bene chi, le stava rivolgendo.
In un ultimo lampo di lucidità, come se una mano invisibile avesse guidato il suo sguardo un tempo brillante di gioia, ma ora velato di una confusione palpabile, la ragazza voltò lentamente la testa dalla parte opposta: nei minuti – forse erano ore – che le occorsero per compiere quel semplice gesto, c’era tutto l’orrore che aveva sentito attorno a sé. Divenne reale non appena l’ultimo bagliore del sole rese sana la sua vista. E Claire vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere.
 
Adesso.
Sulla spiaggia.
«Ehi...» la voce preoccupata di Alberto la raggiunse da una dimensione distante dalla sua. Claire tornò bruscamente alla realtà, ma non rispose al richiamo del ragazzo.
«Senti... mi dispiace per quello che è successo, io non sapevo, non potevo sapere...» Lui cominciò a giustificarsi, e il suo tono imbarazzato e remissivo rendeva quel dolore che le artigliava la gola ancora più difficile da soffocare. La fanciulla tacque ancora, accucciata sulla battigia, l’acqua gelata che le sfiorava i piedi nudi, la sabbia che si insinuava fastidiosa nel costume.
«Questo gioco è diventato troppo pericoloso. Finiamola qui, ok?» Quella che per Claire era l’incapacità di parlare, lui l’aveva scambiato per un muto assenso, ma ancora incerto, e sicuramente vinto da un senso di colpa che superava persino il suo orgoglio, si avvicinò ancora di qualche passo, e si chinò verso di lei. La ragazza non rispose, e nemmeno lo guardò: qualcosa artigliava la sua gola, e graffiava la trachea, rendendole impossibile parlare, o anche solo muoversi. Cullata tra le braccia di quel dolore, sarebbe morta; ne era certa.
«Immagino che ora vorrai stare sola... bè, io vado. Se hai bisogno...». Alberto si rialzò facendo leva sulle mani, e dopo averle lanciato un’ultima occhiata, si avviò a lenti passi insicuri verso il luogo della festa. Ma quando era già lontano fu costretto ad arrestarsi.
 
12 Luglio 2010.
Parigi – Rue de Charenton, esattamente all’incrocio con Avenue Ledru-Rollin
Una folla di gente urlava e indicava qualcosa. Qualche metro più avanti una vecchia macchina grigia fumava indisturbata, appiattita contro un palo della luce; dentro, una vecchia signora si lamentava ad alta voce, gemendo. Distanti suoni di un’ambulanza che correva cercando di farsi strada tra la moltitudine di persone che ostruivano la via. L’anziana donna fu caricata su una lettiga. L’ambulanza partì a sirene spiegate, mentre un’altra ne giungeva a velocità folle.
In quel caleidoscopio di suoni ovattati e confusi, Claire, cercando in lei una forza che in quel momento non aveva, annidata chissà dove in cellule nascoste e vigliacche del suo corpo, fece leva sui polsi doloranti, ed alzò il busto nel chiaro tentativo di rimettersi in piedi. Una forte vertigine, e l’intenso senso di nausea che avvertì dopo quel semplice gesto, la convinsero che non era stata una buona idea, e la fecero precipitare per qualche istante in un dolcissimo stato di incoscienza dimentica. Quando il suo cuore cominciò ad accelerare i battiti, si rese conto di essere ancora viva, e lucida, e una seconda ondata di dolore, del tutto dissimile dalla prima, pugnalò il suo cuore. La consapevolezza si fece largo nella sua mente, spingendo con davvero poca cortesia la dolcissima incoscienza che fino a quel momento aveva fatto da scudo a una sofferenza troppo intensa per essere anche solo raccontata, figuriamoci vissuta. Non era possibile. Non a lei. Perché? Era suo padre quello lì? Le lacrime le appannavano la vista. Non poteva essere lui. Si stava sbagliando.
Un uomo la prese in braccio dolcemente e la poggiò su una barella; con le ultime briciole di una forza che non aveva, Claire si oppose a quella delicata stretta, ma le sue energie furono vinte con facilità dallo zelo di un triste paramedico. Contro la sua volontà, nonostante le urla disperate che uscivano dalla sua gola, lui la adagiò sulla lettiga dell’ambulanza, pur avvertendo ciò che quella ragazza provava. Lei non credeva nemmeno di aver tutto quel fiato, o quella forza; gridava, ma non sapeva cosa dire. Si opponeva, ma non sapeva cosa fare. Urlò, e mentre l’ambulanza la portava via dal luogo dell’incidente, qualcosa le si spezzò dentro. Non c’era più niente da fare.
 
Adesso.
Sulla spiaggia.
«Sai, mio padre era un uomo meraviglioso. Un genitore esemplare. Non devi pensare che fosse…» si fermò un attimo, incapace di continuare; trasse un respiro profondo, e continuò. «Aveva solo un piccolo difetto: era un uomo debole. E quando aveva qualche problema, qualsiasi problema, si rifugiava nell’alcool. E di problemi ne aveva spesso» puntualizzò lei con tono incolore. Faceva scivolare con apatia quelle informazioni dalle labbra, fissando un cielo troppo terso perché potesse essere vero, punteggiato da stelle troppo luminose perché potessero essere giuste. Alberto le fu accanto in un istante; non avendo confidenza con lei, e non sapendo bene cosa fare, si limitò a sedersi vicino a lei, e ad ascoltarla.
«Però... quel giorno era lucido, era sobrio... non doveva succedere, non a lui...» La voce di Claire si spezzò e la ragazza seppellì il viso tra le braccia, piangendo disperatamente. Lui deglutì, ed osò poggiare una mano, tremante e titubante, sul polso che prima le aveva afferrato con tanta violenza, e che ora cingeva con altrettanta dolcezza. Quando la ragazza parlò di nuovo, il suono giunse soffocato.
«Non è stata colpa sua. Ma è successo. E quando poi mi sono girata...» Una lacrima si infranse sulla spiaggia, preda destinata alla spugnosa avidità della sabbia. Alberto, stavolta senza più remore, le cinse dolcemente le spalle, con delicatezza le accarezzò i capelli, e con una cura quasi maniacale, come se avesse paura di rompere quella preziosa porcellana che aveva tra le dita, prese il viso della ragazza fra le sue mani, asciugandole le gote umide con il morbido lembo della sua maglietta.
«Non occorre spiegarlo... non adesso» la sua voce suonava innaturalmente tenera, in netto contrasto con la crudeltà che fino a poco prima aveva sputato. «Quando ti sentirai pronta ad affrontare l’argomento, se ne avrai voglia...» le sussurrò nell’orecchio, gli occhi castani che si perdevano nelle onde di quel mare azzurro e infinito dei suoi. Claire gli fu silenziosamente grata per quelle parole: stentava a crederci, anche se in quel dolore irreale persino un’eventualità improbabile diventava vera. Da quando, tre mesi prima, era arrivata a Roma, Alberto non era mai stato suo amico; non era nemmeno mai stato gentile con lei, né tantomeno lei si era premurata di esserlo con lui. Non riuscendo a intuire il personaggio che si celava dietro quell’indifferente maschera di orgogliosa vanità, aveva archiviato il suo nome e la sua persona sotto il concetto di “indesiderabile”, e da allora nessuno dei due si era premurato di cancellare quell’idea che si erano fatti l’uno dell’altra. Mentre si giocavano tiri sempre più crudeli, e facevano leva sulle più insensate paure, o i più segreti dolori, erano stati tristemente consapevoli del fatto che solo fiele aveva avvelenato il loro rapporto. Ma lì, nel cerchio imperfetto di quella spiaggia infinita, dove la fine del mare si confondeva con il principiare della terra, lui, suo giurato nemico, l’aveva ascoltata; e l’aveva compresa laddove altri non l’avevano capita, e nel momento in cui ne aveva più bisogno. E questo valeva più di mille, inutili parole. Ripensò quasi sorridendo alla psicologa che aveva preteso che lei si sfogasse, che parlasse del decesso del padre con naturalezza, come fosse la lezione di storia, nonostante Claire le avesse più volte ripetuto che, sebbene quella dicesse che era sicura che la ragazza ne avesse bisogno, non ne aveva voglia, che non si sentiva ancora pronta, che non ne voleva parlare con lei.
«Sei l’unico a cui l’abbia mai detto...» bisbigliò singhiozzante, tenendo la testa appoggiata sul petto del ragazzo, gli occhi chiusi, per tenere tutto dentro di sé, per evitare che sfuggisse qualcosa dal suo sguardo, per non lasciare che quel dolore la abbandonasse – doveva tenerlo, o sarebbe diventato drasticamente vero.
«In realtà l’hai gridato a mezza spiaggia...» ammise il ragazzo, con un sorriso coraggioso ma piuttosto imbarazzato. Poi entrambi si abbandonarono a una risata: lei piuttosto stancamente, fredda nel suo dolore, ancora lontana dalla gioia; lui con tenerezza e calore, come se volesse sciogliere quella sofferenza sottile, incastonata tra le ciglia di una ragazza che fino a quel momento non aveva mai considerato sotto un diverso aspetto. Rimasero per ore lì, a contemplare in silenzio le onde del mare che si infrangevano placidamente sulla battigia, entrambi consapevoli che quella nottata aveva cambiato le loro vite, allacciando i loro destini per sempre.
 

***


24 Dicembre 2010.
Parigi –Da Boulevard Saint-Germain a l’Opéra National de Paris.
Parigi sembrava più illuminata del solito quell’anno, ma forse era solo la sua immaginazione a suggerirle luci che non aveva visto per troppo tempo. Adorava la sua città, e ancora di più la adorava a Natale: Parigi si accendeva di luci, colori e odori. Il V arrondissement era particolarmente suggestivo in quel periodo dell’anno.
Camminando per le fredde strade coperte da un soffice manto di neve, Claire si rese conto con stupore e orrore di quanto poco si ricordasse della sua città natale. Solo tristi e malinconiche memorie sbiadite la legavano a quella metropoli troppo affollata, a quella magica Parigi illuminata a festa che le aveva portato via il suo più grande amore, insieme al sorriso che illuminava i suoi occhi. Quella città alla quale, per un funesto scherzo del destino, non sentiva più di appartenere.
Mentre il gelo le si insinuava nei polmoni come un coltello in cerca di una vittima, la ragazza fissò con sguardo spento le sgargianti decorazioni di Place Saint-Germain-des-Prés: aveva dimenticato come i Marché de Noël punteggiassero vivacemente la piazza, riempendo di un chiacchiericcio soffuso l’etere fredda del rigido inverno francese. Il desiderio di fare un giro tra quelle bancarelle di legno e luci, colme di dolciumi, spezie dagli intensi profumi, artigianato locale e marmellate, desiderio che l’aveva animata sin da piccola, si era spento insieme alla vita del suo accompagnatore preferito. Gettò uno sguardo a una donna, che camminava a testa bassa, un basco adagiato sulla testa e una lunga baguette sotto braccio, e inaspettatamente fu colta da una nostalgia dolcissima, ma dolorosa. Il delicato aroma di pane appena sfornato solleticò le narici di Claire; respirò a fondo e, con le mani in tasca e le gote arrossate per il freddo, si avviò per il gelido viale che portava a casa di sua nonna, dalla quale avrebbe passato le feste. Passò davanti uno dei tipici carretti che si trovavano disseminati per le strade della città: che fosse Natale o meno, quelli non mancavano mai. Dietro il bancone, un enorme uomo dal viso gentile le chiese se voleva una crèpe; quando lei scosse il capo con un sorriso forzato, lui le propose una gaufre; Claire scosse ancora il capo, e proseguì. Aveva cercato per ore una strada alternativa, pregando sua madre di passare avanti, dicendole che l’avrebbe raggiunta più tardi. Ma in un modo o nell’altro, pur volendo evitare quella via, i suoi passi l’avevano portata davanti a quel luogo.
L’edificio maestoso e imponente dell’Opéra de Paris, il teatro dell’audizione, comparve davanti alla sua vista in tutta la sua magnifica opulenza. Si immobilizzò, incapace di muovere un altro passo; se avesse spostato lo sguardo solo di qualche metro, era certa che un’ondata di ricordi fin troppo dolorosa l’avrebbe avvolta. Gli occhi azzurrini si spostarono così sulle Galeries Lafayette: i grandi magazzini sembravano invasi da uno sciame impazzito di gente, indaffarata a concludere rapidamente gli acquisti dell’ultimo minuto. L’enorme edificio era ornato da luci dorate e perlacee; nonostante l’austera semplicità dell’Opéra, poco distante, contrastasse fortemente con quell’accecante sfarzo di addobbi natalizi, il teatro attirava Claire molto più di quanto fosse lecito. La ragazza, stringendosi nel suo cappotto, ferita tanto dal freddo quanto dai ricordi, aveva lo sguardo fisso su quell’imponente e storica costruzione; sembrava incapace di guardare altro che non fosse l’antica fonte di una felicità ben presta cancellata. Poi, come attirata da una calamita invisibile, le sue iridi chiare si spostarono sull’incrocio poco distante. E il dolore la avvolse come una scomoda, soffocante coperta.
 
Luglio 2010.
Hôpital Bretonneau.
Claire aveva sempre odiato gli ospedali. Odoravano di morte, di malattia, e di sofferenza. Intorno a lei avvertiva solo gemiti e lamenti, odori vaghi, colori piatti. Le infermiere correvano indaffarate da una stanza all’altra; i medici camminavano austeri con uno stetoscopio attorno al collo. C’erano anche sorrisi, di tanto in tanto; ma, più spesso, c’erano espressioni tristi, pianti disperati, urla di dolore; pena e compassione. Sensazioni che scivolavano addosso a Claire come acqua. Lei provava solo odio. Odio per la vita, e odio per la morte. Disprezzo per il dolore di quelle persone che non avrebbero mai potuto soffrire come stava soffrendo lei in quel momento. Disperazione. Strazio. Afflizione. Impotenza. Orrore. Paura. Era come se qualcuno le avesse infilato prepotentemente una mano nel petto e le avesse strappato con forza il cuore. E allora cos’era che le premeva forte e veloce contro il petto?
E giù lacrime. E lacrime. E ancora lacrime. Sempre e solo lacrime. Per ore. Per giorni. Per mesi. Avrebbe mai potuto essere di nuovo felice? La risposta le sembrava lontana e mestamente negativa.
 
24 Dicembre 2010.
Parigi –Rue de Charenton.
Parigi era diventata solo l’assassina di suo padre. Non era più la città in cui era nata, non era la metropoli che l’aveva vista crescere, non era la capitale della sua più grande passione. Era solo una via; un incrocio, più precisamente, quello stesso che ora guardava con sguardo improvvisamente appannato. Lacrime salate si infransero sull’asfalto, rigando il bel volto di Claire. Lievi singhiozzi la scossero. Una lama penetrò nel suo cuore impazzito. Ricordi.
 
Luglio 2010.
Hôpital Bretonneau
Dopo quel giorno Claire andò a trovare ogni giorno la vecchia signora che aveva causato l’incidente, nonché la morte di suo padre. Usciva solo per qualche ora, ed esclusivamente per andare a trovare l’anziana, per la quale il sinistro era stato quasi fatale. Era in coma, e sembrava destinata a non svegliarsi più. Acuti dolori laceravano il suo corpo provato dal tempo, e gravi emorragie interne minacciavano la sua vita. Claire avrebbe tanto voluto odiarla, ma non ci riusciva. Era solo un’anziana signora, una vedova, reduce di liti familiari e perdite sofferte, l’ultima superstite di una famiglia rimasta nell’ombra. Aveva pochi parenti, ma nessuno di questi la andava mai a trovare. E nel suo viso si distinguevano chiaramente dolcezza e gentilezza. Il suo vecchio cuore, provato da mille fatiche, sebbene battesse debolmente contro il suo petto, lottava una battaglia instancabile contro la morte, e si appigliava a quello spiraglio di luce che le avrebbe permesso di sopravvivere, quello stesso raggio che per il padre della giovane ragazza si era spento.
Quella donna era l’unica con la quale Claire parlava, anche se quella non poteva sentirla. Le diceva che le voleva bene, che le sarebbe stata vicina, che non avrebbe permesso alla morte di venirla a prendere, che non la colpevolizzava per la perdita subita. E si autoconvinceva anche lei che la vecchia ce l’avrebbe fatta, continuando ogni giorno a ripetere la sua promessa. Ma ruppe il patto dopo qualche settimana. Forse l’aveva fatto apposta, quell’anziana signora, a spirare durante la notte, quando le stelle brillavano e nessuno la poteva vedere. Forse aveva sentito la presenza di Claire, aveva avvertito l’odore dei fiori sempre freschi che la ragazza si curava di cambiare di giorno in giorno. Magari se n’era andata apposta in punta di piedi, perché non voleva che soffrisse ancora, quella giovane alla quale aveva fatto involontariamente un enorme buco nel cuore. Forse sperava di alleviare quell’afflizione. Ma era una speranza vana. Perché quel dolore non si sarebbe mai placato in lei, e avrebbe continuato a bruciare per sempre.
 
24 Dicembre 2010.
Parigi – Rue de Charenton, esattamente all’incrocio con Avenue Ledru-Rollin
Claire deglutì. Una donna le passò accanto guardandola stupita. Le sorrise, incerta, con quel calore che si riserva agli estranei scoperti in pratiche poco comuni, come quella del pianto. La ragazza cercò di ricambiare senza molto successo. La testa china e il viso bagnato, continuò a camminare diretta a casa di sua nonna, mentre qualche fiocco di neve cominciava a volteggiare nel cielo. Insieme a fiumi di ricordi.
Guardava la strada con occhi vuoti, e nel cuore serbava lacrime, ed echi lontane di una sirena. Accanto a lei c’erano i pallidi fantasmi di volti sconosciuti, di grida confuse. Attorno a lei c’erano odori di medicinali mai presi, per paura che quel dolore che doveva provare se ne andasse via. E c’erano scalpiccii sommessi, infermiere affaccendate, medici sorridenti – ipocriti. Rimbombavano nella sua testa inutili parole di conforto che altro non erano se non il fiammifero della sua collera. Alla fine non ce la fece più. La nausea era troppo forte, la sofferenza troppo potente. Mentre le gambe cedevano sotto il suo peso, vomitò tutto il suo dolore.
 
24 Dicembre 2010 – qualche ora dopo
Parigi – Boulevard Diderot n° 57
La porta si aprì nel silenzio dell’ingresso illuminato; la ragnatela di rughe che si inerpicava sul viso di un’anziana dal sorriso sottile venne sfiorata da un fiocco di neve dispettoso, che lei scacciò con un gesto della mano, per poi far spazio a Claire, cosicché entrasse.
«Salut» disse lei stancamente, donando alla nonna un delicato bacio sulla guancia. Lo sguardo castano che ricambiò quel pallido saluto, la diceva lunga sulla capacità, appannaggio esclusivo delle madri – e, di conseguenza, anche delle nonne – di intuire emozioni e leggere pensieri.
«Claire, ma petite ange, qu’est-ce que tu as? Tu es très pâle...»commentò, una nota di preoccupazione a incrinare la voce già tremante a causa dell’età. Claire la guardò negli occhi: vide riflessa la sua immagine nel suo limpido sguardo; aveva il viso pallido e sudato. La ragazza scosse la testa, e sorrise nel notare l’espressione premurosa sul volto della vecchia donna, che si rasserenò, almeno apparentemente, mentre Claire la superava, salutando flebilmente la madre seduta nel salotto; si chiuse con fretta malcelata nel bagno, prima che la donna potesse farle una qualsiasi domanda. Poi, silenziosa, il cuore a pezzi a causa dei troppi ricordi, si accasciò sul pavimento e pianse finché tutte le lacrime che aveva in corpo non furono finite.
 
Claire tacque durante la cena, ascoltando paziente i fitti discorsi tra la nonna e la madre. Discorsi di vita quotidiana, racconti di Roma, risate di questo o quel buffo comportamento, storie vere o false, chissà. Sembravano complici, unite ancora di più dalla morte del rispettivo figlio e marito. E la ragazza sapeva che prima o poi la conversazione sarebbe andata a finire lì. A quel discorso. Quello che non sapeva e non voleva affrontare. Forse era uno sbaglio. O forse no.
Ogni tanto sua madre cercava di farla inserire nella conversazione, ma lei si limitava ad annuire stancamente, e continuava a tenere la testa bassa, osservando senza in realtà vederla la sua fetta di quiche ai carciofi. Con la coda dell’occhio realizzava gli sguardi furtivi che le due donne si scambiavano, preoccupate: sapevano cosa c’era che non andava, ma nessuna delle due aveva il coraggio di parlarne direttamente con lei. Così, dopo qualche pallido intervento della ragazza, lasciarono che mangiasse da sola, e parlarono tra di loro senza più interpellarla. Claire fu sollevata dalla loro indifferenza, almeno fino a quando il suo cuore non mancò un battito, a causa delle parole della nonna.
Sapeva che sarebbe successo, anche se sperava il contrario. Ma alla fine rimaneva solo quell’argomento da discutere. Argomento evitato con giri di parole inutili: tentare di eludere il dolore, di affogarlo in false risate e sorrisi forzati. E alla fine l’imbarazzante silenzio che segue un argomento sviato. Teste chine. “Vuoi del pane, un po' di vino?”. Vane domande. Esiste una medicina per il dolore? E se esistesse sarebbe così forte da far sparire tutto?
«Il me manque beaucoup»la sua voce suonava rotta dal pianto, era come un sospiro soffocato dall’amarezza crudele di un affetto strappato senza remore da un destino troppo malvagio.
La rabbia che Claire aveva trattenuto fino a quel momento esplose insieme a quelle parole. Strinse i pugni, e irrigidì le spalle, cercando di contenersi, mentre nella sua testa le emozioni si confondevano tra di loro, mescolandosi in un assurdo caleidoscopio di suoni e colori tetri.
C’era, in lontananza, una voce ovattata – sembrava quella di sua madre – che la chiamava alla vita. C’era, in una dimensione lontana, un sorriso. Insicuro, falso, quasi una smorfia. C’era, su un volto di porcellana spezzato dal tempo, una lacrima. Poi due. E ancora giù altre. E ricordi. Ricordi.
Claire deglutì, e chiuse gli occhi, intimandosi la calma, mentre quella voce la strappava con violenza alla sua mente, riportandola a un presente in cui non voleva più vivere. “Claire...” Forse sarebbe potuta rimanere in quel limbo ancora per un po’, là dove il dolore si confondeva con la rabbia, e la felicità nemmeno esisteva. Fece un respiro profondo. “Claire...” Aprì gli occhi, ma li richiuse subito, succube di un forte senso di vertigine. “Claire...” Le due donne la guardavano preoccupate, la ragazza lo sapeva: sentiva i loro occhi addosso, i loro sguardi preoccupati, lucidi, avvertiva il loro cuore in tumulto. Mai come il suo.
Alla fine, con uno sforzo che le costò una fitta al cuore, Claire sorrise. In silenzio si alzò da tavola e si allontanò. Uscì dalla sala da pranzo più lentamente che poteva; non si rese conto che stava correndo. Alzò la cornetta del telefono, e con mano tremante compose un numero. Una voce maschile, profonda, rispose dall’altra parte, a chilometri di distanza. Poi passi lontani; la cornetta passò di mano. Claire si sedette sul divano. Tacque. Sospirò. La voce le tremò.
«Pronto?»
«Albi, io non ce la faccio. Ho bisogno di te» era un mormorio di muta implorazione, che fu rotto dal pianto. E mentre lei si sfogava con il suo migliore amico, la madre la ascoltava silenziosa, nascosta dietro lo stipite della porta, maledicendo il cielo, che gli aveva portato via quell’amore così prematuramente, e la forza di sua figlia, decisa a non farsi vedere debole, e se stessa, che l’aveva portata a rivivere quei momenti.
 
25 Dicembre 2010.
Tourre Eiffel – Ristorante Jules Verne
Il dolore è un curioso alleato, ma anche un pericoloso nemico. Scava con assidua cura nel cuore degli uomini, e avvelena la vita con insolito riguardo. Non può essere cancellato, non può essere semplicemente dimenticato; rimane appiccicato addosso come miele, e uno non può far altro che vestirsi della sua sofferenza, e portarsela a spasso con muto orgoglio.
Persino guardare la vita da 125 metri d’altezza non serviva ad anestetizzare il cuore. Quella sera Claire non riuscì a festeggiare. La tradizione di famiglia voleva i parenti riuniti in quel costosissimo ristorante al secondo piano della Torre Eiffel; e loro, infatti, erano lì, raggruppati intorno un lunghissimo tavolo, chiacchierando animatamente, dimentichi del dolore di qualche mese prima. Antoine masticava rumorosamente ostriche e salmone, Clementine si serviva di escargot con la solita grazia che la contraddistingueva, Isabeau cullava il suo nuovo nato con un sorriso materno sulle labbra, Felix raccontava l’ennesima barzelletta mal riuscita. E lei, estranea a tutta quell’allegria natalizia, guardava la città sottomettersi al suo sguardo. Le sembrava di intuire il profilo lontano dell’Opéra, a molti metri di distanza; ma non era nemmeno sicura che quella fosse la direzione giusta in cui guardare.
«Non potresti almeno provarci?» Sua madre le poggiò una mano sulla spalla, e le porse un bicchiere di champagne. In silenzio, spostò lo sguardo dal volto della figlia alla città sotto di loro: Parigi era splendida, illuminata di un bagliore dorato e magnifico. Ma a lei sembrava di non vedere davvero quelle luci che punteggiavano la metropoli dell’amore.
«Il primo Natale senza di lui. È così...» mormorò la ragazza sospirando, gli occhi chiusi per evitare che qualsiasi emozione fuggisse via dal suo sguardo. Non era tanto il volersi tenere dentro il dolore per sentirsi viva; il desiderio di sopravvivenza era stato spento in lei nel momento in cui il suo sguardo aveva incrociato quello privo di vita del padre, esanime su un asfalto che era l’unico colpevole della sua morte. Era più il desiderio di ricordare come quella sofferenza rendesse giustizia a quella perdita; non poteva permettersi di smettere di soffrire, semplicemente perchè avrebbe significato dimenticare. E lei non poteva dimenticare. La donna al suo fianco sembrava persa nelle stesse elucubrazioni, ma in modo molto più distaccato della figlia.
«Non è facile per nessuno...» Claire guardò sua madre, poi gettò un’occhiata dietro di sé: parenti allegri e scherzosi, risate, tintinnii di posate. Quella scena la disgustava.
«Se ne sono già dimenticati. Tutti quei pianti falsi, le espressioni ipocrite, le condoglianze. Tutto finto. Dopo il funerale sono tornati a casa come se niente fosse accaduto, hanno continuato la loro vita come prima, nella solita routine...» rispose con lo sguardo perso nel vuoto, già fastidiosamente appannato.
«Perché la vita continua, Claire...» replicò la donna. La sua voce era ferma, e fredda; dal suo viso sembrava non trasparire nessuna emozione; eppure c’era qualcosa, in fondo al suo sguardo, che sua figlia conosceva troppo bene, e che la rendeva consapevole dell’intima lotta che lacerava il cuore della madre.
«Sì, ma non è la stessa cosa. Non possono… fingere.» marcò con enfasi quella parola, e sul suo viso sbocciarono rose cremisi che le imporporarono le gote di collera repressa. «E la nonna? La odio» sputò con rabbia parole di fiele, convinta di potersi liberare di quell’incubo; convinta che il tempo avrebbe cominciato a scorrere al contrario, fino a tornare a quel giorno. Avrebbe dato tutto, per tornare indietro; avrebbe persino rinunciato al sogno che le accendeva gli occhi da quando era poco più che una neonata.
«Per nessuno è semplice, Claire. A volta nella vita succedono delle cose terribili, e ingiuste; magari non te lo meriti, ma non puoi farci niente. E dopo non è più come prima. Puoi solo continuare a vivere, a sorridere se puoi, ma non tornare indietro. Non si può. Anche tu tenti di essere felice. Nascondi il tuo dolore come tutti. Non credere che non sappia che la sera piangi per lui, e la mattina non ti svegli con il sorriso sulle labbra. Non credere che io non riesca a vedere le tue risate spente, prive d’allegria. Ti conosco, so cosa provi. Perché lo provo anch’io...» La voce dolce della madre tremò per un attimo; fu costretta ad abbassare lo sguardo, vinta da sensazioni che, come la figlia, cercava di celare. Claire tirò su col naso, ma tacque.
«Tua nonna cerca di tenerlo dentro di sé. Non è bello per una madre vedere andare via il proprio figlio prima di lei. Darebbe qualsiasi cosa per essere al posto suo, lo sai. Era suo figlio...» continuò la donna, la voce incolore e priva di espressività.
«Èmio padre!» urlò Claire, scoppiando in un pianto a dirotto. Singhiozzò forte, mentre nella sala retrostante calò il silenzio; tutti gli occhi si puntarono su di lei, ma la ragazza pareva cieca a tutto. Guardava dritta negli occhi una madre da cui aveva preso solo la forza del carattere.
«Perché non lo capisci? Lui mi manca. Io non ci riesco, non posso continuare. E tu mi hai portato qui. Io odio questo posto. Odio tutto di questa città. Odio le strade, le case, i palazzi. Odio te, la nonna, e tutti loro, i loro ingannevoli sorrisi, le falsità. Vorrei solo che tornasse indietro, da me. Che cosa ho fatto per meritarmi questo?» Claire aveva continuato a gridare e a tremare, piangendo forte, il corpo scosso da singhiozzi spaventosi, e il viso rigato di lacrime. Lei stessa si meravigliò di averne ancora; pensava di averle prosciugate tutte, ormai. La gente nell’altra sala guardava la scena con gli occhi sgranati; alcuni abbassarono gli occhi, imbarazzati e colpevoli. La madre di Claire, ignorando quelle occhiate, fissò la figlia con sguardo duro. La sua mano si levò in aria e raggiunse, veloce e potente,  la guancia della figlia, che la guardò con disprezzo.
«Le difficoltà ci fortificano. Ma l’odio corrode l’anima. Qualsiasi rabbia, qualsiasi parola, qualsiasi lacrima… non lo riporterà indietro. Rifletti su questo, Claire...» La sua voce era poco più che un sussurro, eppure non c’era rabbia, nell’intonazione, e non c’era severità; era una stanca constatazione, forse una lezione di vita, forse l’esternazione di dolore di una donna distrutta dalla perdita del suo uomo. Quando le sue parole si estinsero, voltò le spalle alla figlia, e rivolse sorrisi falsi e indifferenti agli ospiti che, lentamente, stavano riprendendo a parlare tra di loro, ancora scossi dall’avvenimento.
Claire era rimasta immobile, la guancia dolorante e rossa, e il viso umido. Odiava tutto e tutti, è vero. Ma odiava anche se stessa, perché si comportava esattamente come loro: celava il dolore dietro una maschera di falsi sorrisi ipocriti; odiava se stessa perché non era morta, perché era sopravvissuta all’impatto, perché se l’era cavata con qualche osso rotto mentre suo padre periva. Perché non l’aveva accompagnato fino alla fine. Perché l’aveva lasciato solo. E, forse, perché se quel lontano Marzo di quindici anni fa suo padre non l’avesse portata all’Opéra de Paris a vedere lo Schiaccianoci, quel sogno non sarebbe mai nato in lei; non sarebbe mai andata a fare quell’audizione, e ora lui sarebbe stato accanto a lei. E questo non riusciva a sopportarlo. Mentre guardava Parigi morire sotto di lei, si rese conto con orrore che si sarebbe portata dietro quel senso di colpa per sempre.
 

***

 
12 Luglio 2011.
Opèra de Paris – Edificio Garnier
Nel perfetto e minuzioso compasso che la luce del riflettore lanciava sul palcoscenico, danzava una ballerina parigina: come sospesa a pochi centimetri, viveva emozioni, e lanciava sogni silenziosi, lei, unica stella brillante di quello spettacolo. Il pubblico, sedotto dalla sua grazia e dal suo volteggiare, si riscosse nel guardarla, come se una magia avesse cancellato dai loro occhi scettici il velo di freddezza con cui avevano finora guardato le altre. Ma lei, ignara di tutto ciò fosse estraneo all’universo della sua mente, e al palcoscenico su cui danzava, ostinatamente continuava a vivere, in quel seppur approssimativo rettangolo di legno. Sembrava di poterle toccare l’anima, nuda di qualsiasi difesa che non fosse quel lieve sorriso che le arcuava le labbra sottili. È quello l’unico fragile scudo al dolore di una figlia privata del suo unico amore, in quel giorno d’estate di un anno fa, quando ogni cosa sbiadì sotto il tocco impietoso del destino. Quel giorno in cui quella stessa anima che ora danzava avvolgendo il suo esile corpo, aveva smesso di brillare.
E in quella segreta sofferenza,  si sentiva la luna di un cielo troppo vuoto per essere vero. Illuminata dalla luce accecante dei riflettori, non si era mai sentita più fuori luogo in quel mondo che le era sempre appartenuto, e che ora le sembrava estraneo, lontano da tutto ciò che avesse un senso. Ma lei continuava a danzare, e nei suoi occhi riluceva la volontà di compiacere quel grande amore che le era stato prematuramente strappato dalle braccia; lei volteggiava in quel minuscolo universo, e il pubblico osservava la minuta disfatta di una ballerina che riusciva ancora a emozionarsi ballando; i suoi passi erano seta, e nei suoi occhi brillavano lacrime di cristallo, che nel silenzioso istante che seguiva l’estinguersi della musica e precedeva lo scroscio degli applausi, scivolavano roventi sulle sue guance; quelle stesse che, un anno prima, a quell’ora, suo padre aveva baciato dicendole che era fiero di lei. E lo sarebbe stato, per sempre.
 
 
Note dell’autrice:
~ Il direttore dell’Opéra National de Paris è Philippe Jordan. Non so se esiste una Signora Jordan nella realtà; nella mia finzione letteraria, esiste eccome, e aiuta il marito nel suo lavoro.
~ La “fatidica e temuta linea rossa” si riferisce alla riga che separa le vincitrici dalle non idonee. I risultati delle audizioni nelle Accademie di danza classica si svolgono secondo criteri che non sto qui a spiegare; al termine di ogni esibizione, i giudici assegnano un punteggio. Le candidate che raggiungono un certo punteggio (e non le prime a classificarsi, c’è un minimo richiesto per poter accedere) vengono segnate in ordine di gradimento in una lista; questa lista è interrotta da una riga rossa, al di sotto della quale ci sono i nomi di quelli che non hanno passato l’audizione. Spero di essere stata chiara :)
~ L’Opèra National de Paris è il più famoso edificio storico della città, ed è attualmente costituito da due edifici: Opèra Garnier e Opèra Bastille. L’edificio è così bello da mozzare il fiato; ha davvero un’architettura barocca, e l’atrio è qualcosa di così fantastico, che è impossibile descriverlo e rendergli giustizia.
~ Erik altri non è se non il famoso Fantasma dell’Opera. Si narra che durante la costruzione dell’Opèra Garnier, sotto il teatro fu scoperto un piccolo laghetto, visibile ancora oggi, che si vociferava fosse proprio il nascondiglio di questo spirito, che si innamorò della cantante Christine non-mi-ricordo-il-cognome. Per maggiori informazioni sulla sua storia – che sconosco, se non per grandi linee – vi rimando a Wikipedia :)
~ L’Hexagon è il nome con cui i francesi definiscono la loro nazione, che ha, approssimativamente, la forma di un esagono.
~ Presupponendo che Google Maps non menta, tutte le vie (e i luoghi) menzionate sono realmente parigini; l’unica cosa che non ho esattamente rispettato sono le distanze (Claire percorre a piedi parecchi chilometri, ma nella finzione letteraria ho immaginato che la sua mente fosse così occupata a ricordare, che lei nemmeno se rende conto).
~ Parigi, come altre città francesi, è divisa in venti quartieri, che prendono il nome di arrondissement.
~ “Claire, mio piccolo angelo, che cos’hai? Sei molto pallida” disse la nonna alla nipote…
   “Mi manca tanto” continuò sempre lei.
~ Il Ristorante Jules Verne esiste davvero: si trova al secondo piano della Torre Eiffel, a circa 125 metri d’altezza. 

   
 
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