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Autore: Hiromi    13/12/2011    8 recensioni
"Tesoro, è finita l'era dell'anti-innocenza: qui le persone girano come trottole ventiquattr'ore al giorno per lavorare, studiare, e per fare sesso - hai capito bene: Sesso! - Cupido è volato via dal condominio sdegnato e il principe azzurro per la disperazione è diventato gay!"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Hilary, Mao, Mariam
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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And you singing the song thinking this is the life
And you wake up in the morning and your head feels twice the size
Oh where you gonna go, where you gonna go,

where you gonna sleep tonight?

This is the life Amy MacDonald

 

***************************

 

 

Sicuramente Marzo era per lei il periodo più impegnativo dell’anno ma, riuscendo a destreggiarsi tra i vari impegni e portandosi avanti con i cosiddetti compiti a casa, era riuscita a prendersi un giorno libero, che voleva assolutamente dedicare al maschietto che più adorava: Freddie.

Camminando per raggiungere il parco, si strinse nella sua giacca: quel giorno faceva abbastanza caldo, e in quel periodo in cui la primavera doveva arrivare da un giorno all’altro, non erano rari i casi in cui il meteo decideva di impazzire, scandendo giorni di pioggia e sole a fasi alterne. Fortuna che il suo cucciolo resisteva bene alle intemperie, o sarebbe stato un bel guaio.

 

Svoltando l’angolo notò immediatamente Raùl e Mathilda, ed era strano perché parevano parecchio stanchi e provati, tanto che non si accorsero nemmeno del suo saluto.

Inebetita, scrollò le spalle, decidendo di concentrarsi sulla passeggiata e pensando che probabilmente doveva esserci una ragione per il loro comportamento.

 

Lei e Freddie entrarono nel parco lì vicino, e il cucciolo si divertì subito a scorrazzare tra l’erba e a fare pipì ad ogni angolo che più gli piaceva, facendola ridere per come alzava la zampetta posteriore e si guardava intorno sospettoso.

Dopo qualche minuto si diressero verso quella parte dove stavano le panchine libere, intenti a cercarne una che fosse all’ombra. Trovatone una Hilary vi si sedette sopra, accavallando le gambe, e il cucciolo vi balzò su con un saltello agile, accoccolandosi accanto alla padroncina e poggiando il mento sul suo fianco.

 

Che dolce che sei…

 

Era parecchio tempo che non si godeva l’aria di New York, e non quella caotica, agitata e pressante che respirava ogni giorno, ma quella genuina, pacifica, vitale che non poteva assaporare se non stando ferma qualche minuto. E da quant’era che non stava ferma, lei?

 

 

Freddie  alzò il musetto di scatto, tendendo le orecchie come a captare suoni talmente fini e sottili che lei non poteva nemmeno sperare di sentire.

Prima di potersi anche solo guardare intorno, il cucciolo focalizzò lo sguardo davanti a sé, e tempo una frazione di secondo, partì a tutta velocità per una destinazione ignota, portando con sé il suo guinzaglio, facendo cacciare a Hilary un’esclamazione a dir poco colorita.

 

La ragazza si gettò al suo inseguimento, e incurante di calpestare le aiuole e le creazioni dei giardinieri, proseguì, ma si arrestò bruscamente quando vide la scena che le si parò davanti.

In uno spiazzale nascosto da quattro mura d’erba, Freddie stava abbaiando allegramente inseguendo una trottola blu, e poco distante un ragazzo alto lo osservava con un sorriso a metà tra il dolce e il divertito.

 

Kai

 

Non lo aveva mai visto sorridere in quel modo, eppure ciò che stava vedendo le causava uno sconvolgimento interiore non da poco. Pareva trovarsi perfettamente a suo agio in quella scena dove Freddie era il protagonista indiscusso, e quando Dranzer saltò delicatamente sulla fronte del cagnolino, non smettendo di roteare, quello abbaiò, spaventato, nascondendosi dietro le gambe del ragazzo, che per tutta risposta gli sorrise e lo accarezzò.

 

Non seppe per quanto tempo rimase lì, nascosta, con il cuore che batteva forte e le guance che scottavano, bollenti; sapeva soltanto che la scena alla quale aveva appena assistito l’aveva emozionata più di qualsiasi altra avesse mai visto prima.

 

 

…E poi Freddie abbaiò nella sua direzione, facendole cadere la faccia a terra e smascherandola. Uscì dal suo nascondiglio, cercando di mantenere il punto ed esibendo almeno una parvenza di dignità ed autocontrollo.

“Pensavo fosse scappato.”

 

Kai la squadrò come se volesse farla sciogliere. “Deve aver sentito il sibilo di Dranzer.” Spiegò, riprendendo con sé il beyblade.

 

“Gli piace parecchio, eh?” all’abbaiare del cucciolo, sorrisero entrambi, dopodiché si fissarono, pensando la stessa cosa nello stesso istante.

 

 

 

Hilary sospirò pesantemente, lanciandogli un’occhiataccia. “Sei un testone di prima categoria, Hiwatari.” Borbottò, raccogliendo con il cucchiaino parte del suo gelato.

 

“E’ una delle mie qualità migliori.” Ribatté lui, laconico, individuando una panchina ed indicandola a lei con un cenno del capo.

 

“La prossima volta offro io.” Puntualizzò, conducendo il cagnolino nella loro direzione; Freddie, però, non aveva occhi che per i gelati presi dai ragazzi e, non appena si sedettero sulle panchine, zompò su in loro compagnia, scodinzolando ed annusando rumorosamente per far capire che ne avrebbe gradito un po’.

“Stai giù!” esclamò la giapponese, fintamente severa. “Poi ti fa male il pancino e dobbiamo andare dal dottore.”

 

Il cagnolino mugolò in risposta il suo dissenso, poi, saltò via e si mise accovacciato come a voler esternare tutto il suo essere offeso. Hilary sbuffò, alzando gli occhi al cielo, e Kai fece del suo meglio per non sorridere; tirò fuori Dranzer e il suo caricatore e lo puntò verso un luogo sicuro. Quando il bey prese a correre, il cucciolo si rianimò, correndogli dietro e facendo morire dalle risate la bruna, visto lo spettacolo insolito che le si presentò davanti.

 

“Oddio, ci vorrebbe una digitale per immortalare il momento!” chiocciò, con tono di rimorso per averla dimenticata. “Guardali, sembrano Willy il coyote e Beep Beep!”

 

Kai inarcò un sopracciglio con aria sarcastica. “Che metafora....”

 

Hilary trangugiò un po’ del suo gelato per poi voltarsi a fissarlo con aria furba. “…Assolutamente perfetta? Lo so. Sono la donna che studia troppo, a qualcosa dovrà pur servire.”

 

“Come procedono gli studi?”

 

Lei annuì con aria metodica. “Dovrò dar fuoco alla Columbia.” Al suo sguardo incuriosito, scrollò le spalle. “Eh, sì, che vuoi farci? Il professore di arabo e quello di cinese non danno tregua a me e io ho deciso di vendicarmi. Ma d’altronde la vendetta può essere superba, non trovi? Voglio dire-”

 

Kai non seppe esattamente grazie a quale impulso del cervello decise di agire; forse fu solo spinto dalla consapevolezza che odiava le frasi troppo lunghe e le conversazioni a macchinetta senza un fondamento ben preciso.

Quando la attirò a sé e la baciò, non aveva nemmeno premeditato di farlo, e sentire il gusto del gelato sulle labbra di Hilary fu meglio di come avesse mai potuto ricordare da quella sera.

La bocca della ragazza si muoveva dolce contro la sua, e le sue dita si tuffarono nei suoi capelli, attirandolo a lei e minacciando di fargli perdere il controllo.

“Sai cosa stavo pensando?” mugugnò lei, ad un centimetro di distanza dalle sue labbra. “Che è una fortuna che abbiamo denti ordinati tutti e due.” Lui annuì, riprendendo a baciarla, cosa che durò poco meno di trenta secondi, perché un’espressione pensierosa si disegnò sul viso di Hilary. “Ci pensi se avessimo l'apparecchio?”

Talvolta non sapeva se definirla pazza o un genio. “Sarebbe stato un bagno di sangue.” ammise, riprendendo da dove aveva interrotto.

Si baciarono come due teenager alla prima cotta, e il bello era il fatto che non sussistevano pressioni di alcun genere né paure di alcun tipo, tranne quelle naturali e scontate. Vi erano loro, solo loro e i loro sentimenti che, man mano passava il tempo, crescevano sempre più. Non se la sentivano di dar loro dei nomi, non sarebbe stato naturale; a tempo debito, quando con precisione avrebbero capito cose più precise, tutto si sarebbe aggiustato, ma in quel frangente ogni cosa andava bene come stava.

Hilary lo fissò, sciogliendosi dal suo abbraccio, e sorridere le venne naturale. “Sai, forse come maschio non sei poi così male.”

Lui inarcò le sopracciglia, ostentando un’espressione divertita. “Beh, grazie, suppongo.”

La ragazza gli pizzicò il naso tra le dita. “Dai, che-” venne interrotta dall’esclamazione di due ragazzetti poco distante, che si avvicinarono a passo spedito verso di loro. La riconobbero come cantante delle Cloth Dolls e pretesero foto, autografo e anche una sottospecie di interrogatorio che in teoria doveva essere una specie di intervista per il giornalino della scuola.

Kai fissò nervoso Hilary che rispondeva pazientemente a tutte le domande che le ponevano quei tipi foruncolosi; erano sopraggiunti lì, li avevano interrotti e lei non faceva il minimo cenno per mandarli via. Cos’era, una congiura? Si voltò a fissare Freddie che sbadigliava, laconico, come a dirgli che lo capiva: beh, almeno aveva man forte da parte di qualcuno.

“Non mi ispiro, sono più le situazioni che ispirano me.” Rispose la ragazza all’ennesima domanda a lei posta. “Quando vedo che può uscirne qualcosa di buono, ecco in arrivo una canzone.”

Il ragazzino stava per aprire bocca e porre l’ennesima domanda, quando Kai intervenne. “Andiamo a pranzo o no?” la domanda fu posta con un tono così scontroso da farla arrossire fino alla punta dei capelli e  in modo da far guardare i ragazzini tra loro, a disagio.

“Okay, allora noi andiamo… Desolati per averti tolto tanto tempo.” Balbettarono, lanciando delle occhiate prima a lei e poi a Kai; infine girarono sui tacchi, andandosene. Hilary fece del suo modo per ricucire la cosa, essendo più gentile che poté, ma quando si voltò verso il responsabile, gli occhi le fiammeggiarono per la rabbia.

“Che cos’era quello?” sbottò, ponendo le mani sui fianchi. Allo sguardo interrogativo di lui, pestò i piedi per terra, livida. “E’ stato uno sbaglio trattarli così, erano solo dei ragazzini!”

Lo sguardo di lui si fece pericolosamente torvo. “Sbaglio? È così che lo chiami?”

“Beh, ho provato a chiamarlo Charlie, ma risponde solo se lo chiamo sbaglio.” Ribatté, a braccia conserte.

“Quei due ci avevano interrotti.”

“Quei due sono fans. Ora, non so come tratti tu i tuoi, ma io sono parecchio gentile con i miei.” Chiarì, scandendo le parole.

“Anche troppo.” All’ultima frecciatina di lui, Hilary ridusse gli occhi a due fessure, per poi piantare su un ghigno sarcastico volto a fargli perdere il lume della ragione.

“Sai cosa? Mi sembri un fidanzato geloso.”

Lui non perse il contatto visivo nemmeno per un secondo, lanciandole uno sguardo di puro fuoco. “Certo: ti piacerebbe.”

Lei inarcò le sopracciglia per poi cominciare ad incamminarsi. “Oh, no: a te piacerebbe.”

 

 

“Dovresti darmi una risposta. A preparare la valigia posso pure pensarci io.”

 

Alla stoccata di Kurt non poté far altro che arrossire e boccheggiare, tentando inutilmente di parlare. Ma cosa poteva dire se la risposta vera e propria, in realtà, era un diniego assoluto?

“Ma dai, non voglio che ti affatichi.” Borbottò, abbassando la testa e lasciando che i suoi lunghi capelli divenissero uno scudo con il quale ripararsi.

 

“Mao.” Il ragazzo incrociò le braccia, scocciato. “Non sei per niente credibile, lo sai, vero?”

 

La ragazza prese un profondo respiro. “E’ che credo che tutto questo sia così… Affrettato!” disse infine, mordendosi le labbra. “Ci conosciamo da meno di un mese, e io non credo che venire con te a Miami sia la soluzione ideale.”

 

Era pronta a sentirlo alterarsi nei peggiori dei modi, invece ciò che le rivolse fu uno sguardo curioso. “…Forse hai ragione.”

 

Davvero?

 

“Sì, dai, andiamoci piano.” Sospirò lui, sorridendo. “Sarai sempre la mia ragazza?” quella domanda tenera e dolce, che avrebbe fatto sciogliere qualsiasi essere femminile esistente sulla terra, ebbe il potere di provocarle una voragine nello stomaco e farla sentire un qualcosa di abominevole.

 

Si costrinse a piantarsi sulle labbra un sorriso forzato, cercando di sembrare quantomeno credibile. “Certo.”

 

 

 

Stette bene attenta a non bruciare il pollo che stava cucinando: non poteva mica dare al suo Freddie delle schifezze! Controllò più volte l’andamento del gas e le indicazioni che le aveva lasciato Mao su un post-it, pregando di non dover prendere un estintore per sedare il tutto. Quando tolse dal fornello la piccola padella, rovesciò il pollo nella ciotolina, lo fece a pezzetti, e lo condì con un filo d’olio per poi metterlo sotto il naso del suo cucciolo affamato, che dimostrò di gradire molto la sua cucina – almeno lui!

Si allontanò verso la portafinestra, che spalancò del tutto iniziando a prendere il suo posacenere e una sigaretta; aveva pranzato non appena tornata dal parco, e ne stava approfittando per restare da sola, cosa che di tanto in tanto non le dispiaceva affatto. Si appoggiò alla ringhiera del balcone, finendo comodamente la prima sigaretta della giornata e notando quanto in quel periodo stesse fumando di meno. Si ravviò i capelli, lasciando andare ogni possibile pensiero che potesse portarla ad un certo russo di sua conoscenza ed andò ad aprire quando sentì l’abbaiare di Freddie, segno che aveva appena bussato qualcuno.

…Mao.

“Io non ce la faccio più: prima Kurt, e sono decisa a rimanergli accanto, poi vedo lui e mi sciolgo! Voglio bene all’uno e amo l’altro, senza contare che… Ma hai fumato?”

Hilary incrociò le braccia con aria ironica. “Vedo che il tuo senso del dovere non se ne va a puttane nemmeno quando sei isterica.”

L’orientale entrò nell’appartamento della sua amica, con un diavolo per capello. “Hilary! Ho un ragazzo che ha bisogno di me e io mi vado a sbaciucchiare con l’amore della mia vita! Che persona di merda sono?”

La giapponese ostentò un’aria divertita. “Hai sniffato colla? Mi sembri un po’ sfasata…” quando l’amica le lanciò un’occhiataccia, la bruna alzò le mani con aria di resa. “Senti, secondo me per tutto questo tempo ti sei risposta da sola. Rei è l’amore della tua vita, non puoi accantonarlo per-”

“Lo so!” Mao la interruppe vivacemente, mordendosi le labbra. “Non so che mi prende, davvero, è solo che…” sbuffò sonoramente per poi scuotere la testa, decisa. “Io amo Rei, ma poi c’è Kurt che ha bisogno di me, che non fa altro che ripetermi quanto sia felice di avermi vicino, che mi vuole a Miami, che mi dice frasi dolcissime…”

Hilary roteò gli occhi. “Vado in attimo in cucina… A tagliarmi le vene.”

“E dai!” sbottò la cinese. “Vuoi aiutarmi o no?” la bruna alzò le mani in segno di resa, come a scusarsi. “Non so che cosa diamine devo fare, dove sbattere la testa”

“Tesoro, la situazione è molto meno complicato di quanto tu non possa pensare. Non devi rimuginare su quello che vuole Kurt, o quello che vuole Rei, o quello che voglio io. Tu cosa vuoi?”

Mao si morse le labbra. “E’ difficile.”

“Non lo è. Devi solo far chiarezza dentro te stessa.” Quando la castana la fissò con un’espressione indecifrabile, Mao ammutolì, non sapendo che altro dire. “Non so che dirti se non di scegliere, perché star sospesa così non ha senso.” Esordì, dopo qualche secondo di silenzio. “Puoi scegliere Kurt e andare con lui, dimenticando per sempre colui che rappresentò il tuo primo amore, come puoi scegliere Rei andando a parlare con lui e facendo chiarezza su ogni punto del vostro rapporto. Ma devi prendere una decisione.”

Mao annuì lentamente, dopodiché rilasciò un lungo sospiro. “Lo farò… Lasciami solo ponderare per bene la situazione.” Hilary annuì, sedendosi sul divano accanto a lei. “Hila?”

“Uh?”

“Stai facendo impazzire Kai Hiwatari?”

“E’ lui che fa impazzire me.” Allo sguardo interrogativo dell’amica non passò molto che le raccontasse l’episodio del parco, e una volta finitolo di narrare, Mao non poté far altro se non scoppiare a ridere, sotto lo sguardo interrogativo della giapponese. “Se mi spieghi, ti ringrazio.”

“Tesoro, devo farti una domanda, solo una.” Fece Mao, ricomponendosi. “Ti piace Kai?”

Vederla arrossire fu qualcosa di assolutamente impagabile, specie dopo anni che non lo faceva più. “Non ci ho mai veramente pensato.” Borbottò. “Cioè, fisicamente sì. Mentalmente anche.” Sbottò sbrigativamente, scrollando le spalle. “Oh, merda!” esclamò, coprendosi la bocca con le mani e facendo scoppiare nuovamente l’amica in grosse risate.

“No, tranquilla. Ti facevo questa domanda perché a me pare che tu gli piaccia, e anche tanto.”

La rivelazione parve colpirla alla velocità di un proiettile, perché restò senza fiato per poi aggrottare le sopracciglia e scuotere la testa, come se si fosse trattata di un’idea balorda. “Ma che dici?”

Mao non smetteva di sorridere. “Pensaci; credo che tu lo attragga molto, e che lui abbia cercato di fartelo capire – uno come lui non si dichiara di certo! – Ma stavolta, tesoro, hai esagerato.” Fece, scuotendo la testa. Ai suoi occhi allucinati Mao rise per l’ennesima volta. “E dai, flirtare amabilmente con quei tuoi fans sotto i suoi occhi per poi mandarlo a quel paese… Povero Hiwatari! Minimo, lo rivedi in fotografia!”

“Io non flirtavo: quelli erano ragazzini, avranno avuto sì e no quindici anni! Se lui si è innervosito, non posso farmene un cruccio, okay?” sbottò, livida. “Lo rivedrò in fotografia? Meglio!” sibilò, cercando di dare quel punto al suo tono di voce che lei stessa non si trovava.

 

 

Tutto ciò che si sentì di fare mentre affondava ripetutamente in lei fu chiudere gli occhi e concentrarsi sulla pelle tra la clavicola e le spalle, lambendola piano con le labbra per poi subito dopo alternare piccoli morsi. La sentì gemere sotto di sé, inarcarsi contro di lui, rovesciare indietro quella massa di capelli ramati tanto focosi come lei.

Con uno scatto repentino, di colpo le posizioni si invertirono, e lei  prese a fissarlo ironica dall’alto, quasi trionfante, per poi stenderlo e metterlo a tappeto.

C’era tutto in quel suo modo di fare che non lasciava spazio a nulla; tutto e niente: Julia lo confondeva, lo inibiva, lo trascinava in un vortice di pura follia dove poi, uscire, sarebbe stato un azzardo.

Il perché avesse corso – e perso – questo pericolo proprio con lei proprio non lo sapeva, ma era successo, e ormai l’unica cosa che poteva dire era che sindacare non sarebbe servito proprio a nulla.

Quando Julia premette delicatamente il suo seno contro il suo petto, la cosa lo mandò in visibilio a tal punto da spingerla contro di sé per baciarla voracemente; voleva stringerla a sé, sentirla fremere sotto le sue dita, voleva-

Non calcolò che la loro passione a letto era indirettamente proporzionale all’area del letto, perché quando si ritrovarono con il sedere sul pavimento e gli occhi sgranati, la prima cosa che fecero fu guardarsi; dopodiché Julia rovesciò la testa indietro e scoppiò a ridere della grossa, appoggiandosi al materasso ed attirando le ginocchia a sé.

“No, questa aquì ce mancava.”

Yuri la osservò alzarsi ed infilarsi gli indumenti intimi con gesti pigri e vagamente insonnoliti: quella mattina, quando le aveva detto che nessuno della sua squadra era in camera, erano stati rintanati per ore in quella suite, e in quel frangente, ad ora di pranzo inoltrata e probabilmente passata da un pezzo, la stanchezza si faceva sentire eccome.

Ahora è meglio que vado.” La spagnola nascose uno sbadiglio alla bell’e meglio, rivestendosi. “Ci vediamo.”

Ogni volta, ogni dannata volta i suoi compagni di squadra gli facevano notare quanto fosse freddo, calcolatore e schematico in tutto tranne che nei sentimenti e lui li mandava puntualmente al diavolo. Ma le occhiate maliziose di Boris, le frecciatine di Sergey, i sorrisini di Kai… Erano tutti rivolti a lui e stavano a significare qualcosa.

“Rimani.” Sorpreso da quella sua stessa parola, si ritrovò a fissare la ragazza che lo stava guardando come se si fosse bevuto il cervello. “Siamo stanchi, è meglio tu non vada a zonzo per la City, Fernandéz.” Borbottò, fissando con una certa intensità il muro davanti a lui. “E poi hai appena battuto la testa.”

E lì Julia sorrise.

 

 

Rimase ancora una volta senza parole dinnanzi quello che aveva di fronte e colui che aveva accanto. Non sapeva cosa dire, cosa esprimere, e a ragione. Da appassionata di storia dell’arte, aveva sempre desiderato visitare la storia inerente alla città di New York, ma conosceva bene il ragazzo con cui era uscita e sapeva che per i suoi gusti la storia dell’arte si poteva tranquillamente sopprimere, quindi non aveva fatto commenti.

Di tutto si sarebbe aspettata, tranne che essere portata in giro per tutta New York e, tra autobus e metropolitana, visitare i luoghi e i musei storici per poi arrivare lì.

Empire State Building.

Il più famoso grattacielo di New York e, probabilmente del mondo, era davanti a lei; non bastava alzare lo sguardo di tutta testa per osservarlo tutto. Lo aveva studiato, visto al cinema e in fotografia, ma mai così da vicino.

“Entriamo?” per esibire un sorriso così divertito, la sua espressione doveva essere impagabile.

Mariam annuì freneticamente, preparandosi alla fila da sostenere ed avanzando verso la folla di gente pronta ad acquistare i biglietti, quando Max la prese per mano, facendola andare da un’altra parte. Al suo sguardo interrogativo rispose con un sorriso, e ne ebbe risposta qualche secondo dopo quando, nel corridoio in fondo, trovarono una signorina in uniforme pronta a far fare loro il giro.

“Pronti?”

L’irlandese inarcò le sopracciglia. “E questo che significa?”

Max sorrise, furbo. “Che abbiamo la corsia preferenziale.”

La ragazza roteò gli occhi, sbuffando. “Raccomandato.” Lui rise.

La signorina si presentò e diede loro dei depliant da poter visionare mentre spiegava la storia di quell’importante struttura. “…E’ stato il grattacielo più alto del mondo fra il 1931 ed il 1973, quando furono inaugurate le Torri Gemelle del World Trade Center. In seguito al crollo di queste ultime negli attentati terroristici dell'11 settembre, è tornato ad essere l'edificio più alto della città ed il secondo più alto degli Stati  Uniti.”

“È stato proposto come una delle Sette meraviglie del mondo moderno, vero?” Mariam alzò lo sguardo, fissando quegli strani interni ed il panorama che si visionava dalle finestre.

“Esatto.” La signorina li condusse verso uno dei settantatre ascensori disponibili. “L'Empire State Building fu progettato in stile Art Deco dagli architetti Lamb e Harmon, iniziato nel 1930 e completato a tempo record, anche allo scopo di togliere all'elegante Chrysler Building il titolo di edificio più alto del mondo. ”

Max cercò a stento di trattenere uno sbadiglio. Sapeva quanto lui e Mariam fossero differenti – lui amava andare in giro a divertirsi con cose più pratiche, mentre lei era per quelle teoriche – ma sapeva anche quanto ci teneva a portarla lì.

“Il 24 giugno 2011, quando è stata approvata anche nello stato di New York la legge che legalizzava i matrimoni Gay, l'Empire State Building è stato illuminato con i colori della bandiera rainbow, simbolo della comunità Glbt.”

Quando la signorina lo disse, Mariam sgranò gli occhi, estasiata: adorava essere lì, aver avuto la possibilità di visitare quella struttura simbolo di New York e dell’America stessa.

“Dove stiamo andando?” chiese, vedendo che ormai avevano iniziato ad andare oltre il centesimo livello.

La signorina sorrise. “All’ultimo piano: la terrazza.”

Una cosa che senza dubbio l’irlandese non si aspettava, era che la dipendente dell’Empire State Building li conducesse fino all’ultimo piano per poi tornare indietro, lasciandoli lì. Mariam fissò il biondo americano con aria interrogativa; quello, per tutta risposta, scrollò le spalle, noncurante.

“Sai che da qui puoi vedere i confini di quattro stati differenti?” esordì, avvicinandosi di poco al panorama.

Mariam lo fissò, accigliata. “Sì.”

Max ridacchiò. “Che palle, mai che ti si possa sorprendere.”

La mora incrociò le braccia, con aria quasi di sfida. “Il punto è che tu mi sorprendi; forse troppo.” Al suo sguardo interrogativo, proseguì. “Non ti è sembrato un po’ troppo prenotare due posti qui solo per noi e addirittura portarmi all’ultimo piano?”

L’americano si strinse nelle spalle, ostentando un sorriso di scuse. “Mi dispiace, ma vedi… Ero pronto a tutto pur di farti passare una bella giornata, per ricordarci anche di quello che siamo insieme. Quello che contava più di tutto era ciò che pensavi di me: il sol pensiero che mi definissi alla stessa stregua di mesi fa-”

“Non ho mai cambiato il mio pensiero su di te.” Rivelò, mordendosi le labbra. “Ci ho provato, ma non ha mai funzionato. C'è qualcosa di te, sul quale non posso mettere mano. E c'è qualcosa dentro di me che non vuole lasciarti andare.” Scrollò le spalle, sbuffando. “Forse è per questo che ero tanto arrabbiata con me stessa e con te.”

Lui la fissò, serio. “Quello che è successo tra di noi è stato importante, ma non voglio che finisca. Definiscimi pure stupido-”

Mariam lo fissò per un istante, dopodiché si lasciò andare ad un sorriso. “Ma tu sei uno stupido.” Osservarono il panorama che si poteva vedere da quella terrazza per ancora un po’, dopodiché andarono via, richiamando l’ascensore. Dirottando l’argomento sul beyblade e sulla cucina, Max e Mariam potevano avere un bel po’ di cose in comune: entrambi erano degli sportivi e delle buone forchette; all’irlandese piaceva da morire sperimentare nuove ricette e all’americano… Mangiarle.

“E dopo questa me ne vado!” la mora si mise le mani in testa, roteando gli occhi. “La maionese sul cioccolato non me la dovevi fare, ora sì che voglio morire.”

Max se la rise: erano appena scesi dall’autobus che li aveva lasciati a due isolati dall’appartamento di lei, e si stavano dirigendo, a passi misurati, verso il suo condominio. L’irlandese, nonostante fosse di natura silenziosa e taciturna, non aveva fatto altro che ciarlare e ridere, ma era normale: quando erano insieme esplodevano come fuochi d’artificio, si completavano nel senso migliore che potesse esservi.

“Ti avevo mai detto che prima di conoscerti ero parecchio annoiato?” la mora arrestò il passo, fissandolo in maniera curiosa. “Le ragazze americane sono tutte così… Frivole, oppure cibernetiche, come Emily. Io ne sognavo una che fosse bellissima, sensuale, accattivante, che con una battuta mandasse in visibilio il mio essere.” Raccontò, prendendola per mano ed attirandola a sé dolcemente.

Mariam si sentì arrestare il respiro, ma cercò di darsi un contegno. “E poi?”

“E poi la mia anima ti vide ed esclamò: Oh, eccoti qui! Ti stavo aspettando.” Fece per diminuire la distanza tra le loro labbra, ma si sentì il naso stretto tra le dita di lei, e spingere indietro. Mariam gli sorrise, scosse la testa e andò di corsa a rifugiarsi dietro il portone di casa, a poco meno di due metri di distanza. Lui dapprima rimase allucinato, non aspettandoselo affatto, poi scoppiò a ridere e scosse la testa.

 

 

Era l’ennesima volta che non sapeva come diavolo avesse fatto a cacciarsi in quella situazione. Le guance arrossate, il cuore che le batteva forte, le labbra che si muovevano sicure contro quelle di lui, le mani allacciate dietro il suo collo… Probabilmente alla fine si sarebbe sentita come al solito – cioè una poco di buono, una traditrice – ma in quel frangente voleva solo assaporare quella sensazione di puro oblio che le piaceva tanto.

 

Quella volta era stato tutto un equivoco: si era recata al Plaza per incontrarsi con Raùl, che a quanto sembrava, le doveva dire qualcosa di importante. Peccato che dopo un’ora in cui era stata ad aspettarlo avesse deciso di mandarle un sms scrivendo che aveva avuto un impegno all’improvviso. Nell’andare via, in chi si era imbattuta?

 

“Non possiamo andare avanti così.” quando lui si sciolse delicatamente dal suo abbraccio, prendendo le mani tra le sue, poté giurare di aver sentito qualcosa far le capriole nel suo stomaco.

 

Mao si mordicchiò le labbra gonfie per i troppi baci, e per un istante non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo. “Lo so, è sbagliato.” Borbottò, non sapendo esattamente che cosa dire.

Lui la inchiodò con lo sguardo. “Non intendevo dire questo.” Nel fissare così apertamente quelle iridi dorate che conosceva a memoria, Mao si sentì sciogliere pezzetto dopo pezzetto. “Tra me e te non c’è nulla di definito.” Sussurrò, come se nemmeno lui sapesse esattamente cosa dire. “E tu stai con...”

Capì che aveva lasciato la frase in sospeso per permetterle di continuare, ma tutto quello che seppe fare fu ravviarsi i capelli, cercando qualcosa di intelligente da dire. “Non è una situazione comoda.” Borbottò. “Kurt ha bisogno di me, e mi sentirei una stronza a…” quando si rese conto che quelle parole non convincevano nemmeno lei, le venne da piangere.

 

Lui roteò gli occhi, fissandola seriamente. “E allora che si fa?”

 

La domanda la lasciò in sospeso per qualche minuti, fino a quando la risposta, giusta o meno, si fece largo nella sua testa con la velocità di un proiettile. “Io… Io potrei partire.” Saltò su, come punta da un’ape. “Posso andare a Miami, posso ricominciare da capo!”

 

Sentirla vaneggiare in questo modo circa la possibilità di trasferirsi all’altro capo del mondo rispetto alla Cina, era qualcosa di sconcertante ed assurdo insieme. “Perché trasferirti?”

 

Di colpo, Mao scattò a fissarlo, decisa. “Dammi una buona ragione per non farlo.”

 

E lì si ritrovò senza parole. Quella ragazza lo aveva sempre lasciato senza parole, eppure in quel momento non seppe dirglielo. Dirle quanto per lui contasse. “P-Per il villaggio, no?” balbettò, pentendosi delle parole dette non appena le pronunciò. “Tutti lì hanno bisogno di te.”

 

Gli parve di intravedere, in quegli occhi color caramello, rabbia e disillusione. Quando la ragazza si alzò, stizzita, capì di aver fatto centro. “Allora che imparino a cavarsela da soli.” Sibilò, prima di andar via.

 

 

Seduta sul tavolino più appartato di un caffè, Hilary badò bene a concentrarsi sulla nuova canzone: le note erano pronte e suonavano pure piuttosto bene. Il sound era qualcosa di puramente rock firmato Cloth Dolls, ma mancavano le parole. Per ispirarsi batté il beat con le dita, andando a tempo e cercando nella sua mente qualcosa che la ispirasse. Si irritò molto quando l’unica cosa che le venne in testa fu Kai Hiwatari e la loro lite.

Maledettissimo idiota!

Digrignando i denti, scosse la testa come se facendolo potesse scacciar via dalla testa quel pensiero, invece si ritrovò a pensarlo più di prima. Kai; Kai e la sua rabbia; Kai e il suo carattere che faticava a capire; Kai e i suoi occhi viola che lanciavano bagliori quando faceva qualcosa di sbagliato…

I suoi occhi

“Musicista, eh?” sobbalzò all’udire quella voce così vicina, e fu intimidita nel ritrovarsi un ragazzo a pochi centimetri da lei. “L’ho capito da come tieni il tempo. Che cosa suoni?”

Hilary accavallò le gambe, trattenendo a malapena uno sbadiglio. “Canto.”

“Avrai una voce splendida.”

No, mi fanno cantare per compassione. “Così mi dicono.” Replicò, annoiata.

“Conosco un piano bar veramente fantastico dove ci si esibisce in soul e jazz. Se ci stai, ti ci porto.” Fece lui, sorridendole largamente.

Lei inarcò le sopracciglia. “Non si può certo dire che tu perda tempo.” Stava per rifiutare seccamente quando il ricordo di una lite con un certo ragazzo le attraversò la mente, facendola inacidire. “Perché no?”

“Io sono Sam.” Hilary  gli porse la mano dicendogli il suo nome pensando che forse la sua idea non era malvagia.

 

Un’ora dopo, avrebbe voluto tagliarsi le vene il più lentamente e dolorosamente possibile, tanto per fare qualcosa: quel piano bar era un disastro, e la compagnia di quel ragazzo una noia mortale. Che poi vi si mettesse pure il suo cervello facendo continuamente paragoni tra lui e un altro russo di sua conoscenza, allora stavano a posto; certo, indubbiamente vi erano cose di quel Sam che non poteva dire di trovare sgradevoli: era molto più logorroico e di compagnia di Kai, e sapeva fare battute di spirito ma… Ma vi erano cose per le quali il russo lo batteva su tutto il fronte.

Non poteva immaginare di intrattenere una conversazione più intelligente e motivante di quelle che aveva intrattenuto con Kai: lui sapeva stuzzicarla con un solo sguardo, facendola andare in visibilio e cominciare a sproloquiare. Insieme erano capaci di parlare per ore, e la cosa era preoccupante, visto che di per sé lui era un tipo che non amava affatto parlare.

Ma, pensandoci bene, non è solo il fattore conversazione

Hilary si rese conto che Kai vinceva sugli altri ragazzi anche per come si sentiva lei in sua presenza: sicura, protetta, bellissima, assolutamente sicura di sé. Quando erano insieme era come se si fondessero, e prendessero ad essere invincibili.

Oddio, ma io… Da qualche parte tra le risate, le lunghe discussioni, gli stupidi scontri sconsiderati e le battute perse… Mi sono innamorata.

Alzandosi dal tavolino del piano bar dove stava, capì di non poter più restare lì con quel ragazzo sconosciuto, non poteva più prenderlo in giro. Gli sorrise appena, fornendogli una semi-spiegazione raffazzonata e volò versò l’uscita del locale, individuando la prima fermata autobus.

Takao. O Kai. O tutti e due. Non sapeva chi avrebbe trovato prima, ma non sarebbe stato così importante: aveva bisogno di entrambi in quel momento, e li avrebbe avuti. Voleva Takao per abbracciarlo e porre fine a quell’assurda lite che vi era stata, e voleva Kai per scusarsi con lui, per guardare dentro i suoi occhi viola e finalmente avere la conferma che sì, era per lui che aveva una cotta gigantesca.

Arrossì al suo pensiero, salendo sull’autobus; armeggiò con il cellulare mandando un sms al moscovita, dicendogli di dovergli parlare, dopodiché fremette per tutto il viaggio, contando le fermate che la separavano dal Plaza e quando scese, si diresse dritta sparata verso l’entrata dell’albergo, prendendo l’ascensore e dirigendosi verso la suite della BBA.

Il cartello “Do not Disturb” fece capolino spiaccicato lì di fronte a lei, ma decise di non badarvi: bussò in maniera testarda ed ostinata, e si stranì quando una serie di rumori all’interno della stanza le confermarono che, in effetti, c’era qualcuno che doveva essere parecchio impegnato.

Bussò nuovamente più volte, e sobbalzò quando una serie di passi le confermarono che qualcuno si stava dirigendo verso la porta per aprirle. Quando Takao spalancò la porta, sorpreso di trovarsela davanti, Hilary gli gettò le braccia al collo, sorridendogli. “Mi dispiace tanto per l’altra volta, ho reagito come una stupida facendoti una sfuriata e partendo in quarta come al mio solito.” Cominciò, sproloquiando e entrando nella suite prima che lui potesse fermarla. “Ma ero così arrabbiata, così nervosa, così preoccupata… Mi dispiace tanto.” Fece, voltandosi verso di lui e rimanendo stranita dal fatto che la fissasse come fosse una bomba ad orologeria. “Takao?”

“Ehm… Sì, okay, va tutto bene, Hila, tranquilla.” Balbettò il ragazzo, pallido come se lo stessero soffocando.

“Stai bene?”gli lanciò un’occhiata preoccupata, sbattendo le palpebre: mai lo aveva visto in quello stato, e probabilmente il suo pallore stava raggiungendo un livello tale da starlo facendo sudare.

“Sì, benissimo.” Annuì freneticamente, fissando un punto oltre lei come fosse spaventato, quasi terrorizzato. “Senti, ora io vorrei… Dormire, sì, sono parecchio stanco. Se non ti dispiace…”

La giapponese annuì lentamente, fissandolo in maniera strana. “Allora... Vado.” Lanciandogli delle strane occhiate, andò via, sotto lo sguardo quasi impaurito dell’amico. Scese le scale velocemente consolandosi con il fatto che, qualunque cosa fosse, l’avrebbe saputa a tempo debito. O almeno lo sperava.

Il vibrare del suo cellulare la fece sobbalzare ed arrestare: lo cacciò fuori e premette il tasto di accettazione messaggi automaticamente.

Accetterò di parlare con te ad un’altra condizione. Sai che non faccio mai niente per niente…

Sorrise istintivamente e fece per rispondere, ma sobbalzò quando sentì di passi dietro di lei. “Do ut des è il mio modus vivendi, dovresti saperlo.”

Ancora con il cellulare in mano, si sciolse in un sorriso. “Beh, ponimi la tua condizione e vedremo cosa si potrà fare.”

Le si avvicinò, fissandola con i suoi occhi viola; la ragazza ebbe la sensazione che lui volesse scioglierla con quelle ametiste. “Sarai a mia disposizione quando ti richiederò.” Alla sua fronte aggrottata sarcasticamente e in modo birichino, sbuffò pesantemente. “In senso buono.”

“Okay, ci sto. Ora posso parlare?” al suo cenno affermativo, proseguì. “Mi dispiace per stamattina.”

Lui scrollò le spalle in maniera neutra. “Fai bene a dispiacerti.”

“Ma guarda te che stronzo!”

Kai la fissò dall’alto in basso. “Può darsi.” Ribatté, con voce incolore. “Ma ricordati della mia condizione.” Hilary annuì, pensando che non avrebbe potuto dimenticarla nemmeno se avesse voluto.

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Finalmente, avrò impiegato più tempo a correggere questo capitolo che a scriverlo! xD Siamo in transizione, miei cari, eppure anche qui succedono delle cosucce. *__* Senza contare che siamo arrivati a quota quindici capitoli. … Oddio, tempo tre settimane e smetterò di tartassarvi di fanfic. Non posso credere che Overboard stia per finire. T___T

Ma, vorrei fare un appello: oltre agli “Special thanks” che sono di dovere per le mie fedelissime, per così dire, grazie anche alle new entry che hanno fatto schizzare il numero delle letture così in alto e che, tra l’altro hanno aggiunto la storia tra preferiti-seguiti-da ricordare.

Avete tirato un sospiro di sollievo in questo capitolo (Almeno, me lo auguro)? Bene, perché il prossimo s’intitola ‘Heavy Cross’, perciò che si scatti sull’attenti! ;)

Alla prossima settimana, miei cari.

Un bacione,

Hiromi

 

   
 
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