Aspettando Pottermore
Nick
Autore (Sul Forum e su EFP):
Karyon.
Titolo:
Giallo [Un’infinita
distesa di giallo].
Prompt
scelto:
Giallo (mavvà?).
Personaggi:
Remus Lupin, Fenrir Greyback (Ninfadora Tonks, Antonin Dolohov).
Contesto:
Seconda Guerra Magica.
Genere:
Introspettivo, guerra, angst.
Rating:
Arancione.
Avvertimenti:
missing moment, one shot, Death Caracter.
Introduzione:
Giallo.
Ovunque
un’infinita distesa di giallo.
Remus
aveva sempre avversato quel colore, con la stessa intensità
con la quale si
poteva odiare un nemico giurato.
NdA:
Il
missing moment di cui tratta la storia riguarda il momento in cui Tonks
e Remus
sono morti, il 2 Maggio del 1998. Non è del tutto noto il
modo in cui sia
successo; probabilmente a causa di Dolohov, uno dei più
forti Mangiamorte del
Signore Oscuro. Nel mio missing moment ho considerato che Remus possa
aver
lottato con Fenrir Greyback un’ultima volta, prima di morire.
Il
fatto
che Tonks possa essere stata morsa ovviamente è una mia
invenzione; comunque
non è uno what if…?, perché non cambia
essenzialmente nulla nella storia.
La
One
Shot è quasi del tutto introspettiva, perché ho
preferito lasciare i riflettori
su Remus e le sue fobie. Spero non sia troppo noiosa :D
Tutte
le
informazioni che ho, le ho prese da The
Harry Potter
Lexicon.
Desclaimer:
Tutti
i
personaggi sono © Joanne Rowling e non usati a scopo di lucro.
Quinta
al
Contest “Aspettando Pottermore” si Selenelightwood
e Wynne_Sabia. Giudizi qui.
Grazie
mille ragazze, sono stati esaustivi e davvero velocissimi :3
Un’
infinita distesa di
giallo
«La
mia
"paura" è la mia essenza…»
Franz
Kafka
«La
paura è la via per il Lato
Oscuro: la paura conduce all'ira,
l'ira all'odio,
l'odio conduce alla sofferenza».
Star
Wars: Episodio I – La minaccia Fantasma
Si diceva che le
persone cambiavano, col tempo, e che tutte le fobie di cui si
costellava la
vita di fanciullo sparivano, diradate dal sole di una
maturità acquisita.
Così
Remus era
cresciuto nell’ombra di una paura atavica, sviluppando di
anno in anno una
forza sempre più salda, a dispetto di un corpo che andava
cospargendosi di cicatrici
numerose – rosee e antiche, orme di un dolore inevitabile
–, su una pelle
lattescente.
Eppure
quell’angoscia
persisteva, stabile e profonda, ammassata negli angoli scuri della sua
anima
come sporco sfuggito a un’abluzione impietosa.
Ancora ora, ora
che il
suo corpo si era assottigliato nel vento e la sua figura di uomo si era
formata
nel solco di un carattere razionale e concreto, quel colore continuava
a tenere
inchiodato il suo cuore, fino a fargli temere l’implosione.
Fenrir Greyback
lo
fissava dopo tanti anni, a qualche metro di distanza, e lui non
riusciva a fare
altro che respirare.
«Remus,
Remus… di qua!»
La voce di Tonks
era
solo un sussurro, sfuggito chissà come da quella parte del
cervello ancora non
annegata nell’oblio, mentre tutt’intorno la paura
silenziava ciò che restava
della guerra.
Fenrir Greyback
si
avvicinava lentamente, passo dopo passo – fendendo
incantesimi, membri dell’Ordine,
Magiamorte e macerie fumanti; si avvicinava e Remus si
ritrovò, di colpo, ad
avere poco più di un anno, piangendo tutto quello che i
piccoli polmoni
riuscivano a contenere.
Piangeva ancora
ora,
Remus Lupin, di un pianto antico che andava oltre le semplici lacrime;
Tonks,
la battaglia, persino Voldemort sembravano sfilacciarsi, figure in
lontananza
in un campo visivo che non vedeva altro che giallo.
I suoi occhi.
Gli occhi
di Fenrir Greyback.
Prima di
qualunque
altra cosa, Remus pensò che fosse invecchiato; era curioso,
quasi sbagliato che lui
invecchiasse: fino ad
allora, nella sua testa, Fenrir rimaneva un essere senza inizio
né fine, una
figura eterna e inamovibile stagliata al centro di qualsiasi suo
incubo.
«Remus
Lupin…» esalò il
lupo mannaro, con quella voce che era più un ringhio, le
mani contratte attorno
alla bacchetta e i capelli striati di un grigio che un tempo non
c’era.
Remus
inspirò
profondamente, lasciando che tutto il suo corpo si preparasse a
difendersi da
quella voce che, seppur compressa in un latrato, era il più
dolce dei sussurri.
Quello che nessuno capiva era che la maledizione
lasciava dietro di sé qualcosa di più
che la semplice trasformazione, una
volta al mese, in una bestia pelosa e dal discutibile carattere;
possedere il morbo significava
altro… era qualcosa
che andava al di là di qualsiasi umana comprensione e
persino Tonks – che ora
lo osservava stranita, come se non fosse realmente lui, quel corpo
rigido e
ammutolito di fronte al caos – faticava a capirlo, capirlo davvero.
Quegli occhi,
quei
maledetti occhi che un giorno di tanti anni prima lo avevano incatenato
per
sempre, lo attiravano a sé ogni istante, ogni momento della
sua vita; percepiva
bisbigli e mormorii nella notte, la voce di Greyback che fendeva
facilmente le
sue difese per giocare con la sua anima.
Essere un lupo
mannaro
era quello e molto altro, significava appartenere per sempre a chi ti
aveva
morso, significava non possedere mai più – mai del
tutto – una parte di se
stessi.
La maggior parte
delle
volte, Remus fingeva che quella parte semplicemente non esistesse.
Tuttavia non
avrebbe
mai potuto liberarsi del tutto di quella menomazione
che striava la sua anima di grigio, che congelava il suo
cuore per istanti
eterni, se solo avvicinava a qualcuno della sua specie.
E Greyback lo
sapeva.
Rise, rise di
gusto per
un feroce istante, poi tornò a inchiodarlo con i suoi occhi,
affilati e
selvaggi come quelli di nessun altro.
«È
sempre un piacere
ritrovare il risultato di un lavoro di gioventù»
costatò, continuando ad
accarezzare il legno della bacchetta come se non ci fosse ancora del
tutto
abituato. «Sei cresciuto bene, peccato che io sia interessato
solo ai bambini…»
Remus
lasciò che la
licenziosità di quelle parole gli scivolasse addosso come
una carezza, leggera
e insinuante come solo lui sapeva modellarla.
Tonks
arrivò di corsa,
dopo essersi liberata di qualche Mangiamorte, e si protese tra di loro
con la
sua carica di energia elettrizzante «Sta lontano,
Greyback» avvertì, condensando
tutto l’odio che provava in poche, efficaci parole.
Era brava lei, a
usare
le sue sensazioni come un’arma.
Remus lo aveva
capito
da tempo, da quando le sue lacrime avevano bagnato il polveroso
pavimento di
Grimmauld Place quel fatidico giorno del
“sì”; però quella volta non
poteva
lasciargliele usare, non con uno come Fenrir, che di emozioni si cibava
fino a
lasciare il vuoto.
«Tonks,
spostati» fece,
con tono fermo e deciso.
I suoi occhi,
quella
volta di una leggera sfumatura dorata, lo guardarono preoccupati
«Ma, Remus…»
«Devi
andartene, vai ad
aiutare i ragazzi» replicò ancora, sotto lo
sguardo ironico del lupo mannaro.
Ti
prego, vai via –
urlava la sua testa – non voglio
che ti morda, non voglio nemmeno
che ti guardi.
Tonks
aspettò, aspettò
qualche attimo, poi annuì brevemente.
Lo conosceva
abbastanza
per sapere che la sua mascella contratta, le sue mani scattanti, non
volevano
dire nulla di buono.
Lo conosceva
abbastanza
da capire che era la sua battaglia,
sua e di nessun altro.
Quando lei si
allontanò, senza fretta e con il capo che continuava a
girarsi verso di loro,
una nuova risata sprezzante gli inondò le orecchie, fino a
renderlo sordo.
Fenrir si tenne
un
fianco, poi tornò a guardarlo «Che ragazzina
ubbidiente… sarà interessante fare
due chiacchiere con lei, dopo che ti avrò ucciso»
annunciò, con tutta la
naturalezza del mondo.
Una furia cieca
si fece
strada in lui, corrosiva come veleno ma anestetizzata dalla paura che a
ondate
gli paralizzava i muscoli; l’influsso della luna era ancora
lì, a scandirgli
l’esistenza con impercettibili obblighi.
Quando
riuscì ad alzare
lo sguardo su di lui, quelle pupille gialle e intense come il sole
gelido di
molte primavere fa, riuscirono a confonderlo solo parzialmente.
Qualsiasi
incantesimo,
per quanto forte, alla fine si spezzava.
Remus aveva
semplicemente lasciato che un solo, singolo nome occupasse ogni buco
nero che
la sua mente mutilata era riuscita a costruirsi.
Ted.
Fenrir
batté gi occhi,
poi un tremito del braccio sinistro tradì la sorpresa
«Tu mi stai resistendo…»
Remus
annuì, trovò la
forza in qualche modo, poi si schiarì la gola lentamente
«Già. Sono troppo
grande per farmi ammaliare da te».
Il lupo mannaro
ghignò
«Non lo eri fino a qualche mese fa, Remus. Non puoi sottrarti
al marchio, alla chiamata» replicò con fare deciso, lo
sguardo che scandagliava alla ricerca
di un nuovo punto debole da colpire.
Remus fece un
passo, la
bacchetta venne sfilata dalla stinta camicia a quadri «Ora ho
qualcosa per cui
lottare, qualcosa per cui la mia natura di lupo mannaro non ha
importanza,
qualcosa che mi amerà nonostante tutto. Ed io voglio
proteggere quel qualcosa,
Fenrir. Non mi porterai via anche questo, posso
assicurartelo».
Dopotutto quegli
occhi
gli avevano portato via già tutto, pensò in un
lampo di malinconia: sua madre e
il suo orrore infinito, suo padre e la sua indifferenza, la sua
infanzia
defraudata dall’innocenza che avrebbe dovuto
caratterizzarla… e poi Hogwarts e
la Stamberga, il Platano e i Malandrini, gli Animagus e la sua breve
parentesi
lavorativa.
Tutto, tutto in
funzione di quello – il suo piccolo problema peloso, avrebbe detto James che di problemi se
ne intendeva –, in
funzione di un default di sistema che non avrebbe dovuto esistere.
Ogni
più piccolo
tassello della sua esistenza riconduceva a quel momento, quello in cui
affrontava la sua più profonda fobia, quello in cui
affrontava lui.
Quello
in cui lo uccideva.
Remus ricordava
di non
aver mai odiato tanto come in quel momento, persino Voldemort che tanto
dolore
aveva causato, persino Peter che aveva ucciso James e Lily e pure
Sirius…
persino il Male incarnato su quella terra non poteva competere con
quella che
era la sua paura più grande e che decisamente era riflessa
nella sua stessa
immagine.
Remus odiava se
stesso
e la sua menomazione più di ogni altra cosa e sapeva che,
per distruggerla,
avrebbe dovuto ritornare alla fonte.
Fenrir rise di
nuovo,
mentre impugnava saldamente la bacchetta e si preparava ad attaccare.
Remus sorrise,
brevemente, quando sguainò la sua,
una
Maledizione intrappolata sulle labbra sottili.
Fortunatamente
Tonks
era lontana, lontana tanto da preservare quell’immagine
pulita e onesta che
aveva di lui, lontana da quella che era effettivamente la
realtà; fortunatamente
suo figlio era troppo piccolo, ancora troppo piccolo per capire il
dolore
infinito che poteva, inconsapevolmente, avergli trasmesso.
Remus si
preparò alla
sua battaglia, l’ultima in qualche modo, con l’aria
di chi era pronto a
qualsiasi cosa, persino perdere se stesso, per quello; era pronto
finalmente a
rinunciare per sempre alla sua parte ormai marcia, se quello
significava far
scomparire per sempre quello sguardo e il suo influsso.
«Con-»
appena Fenrir
aprì bocca per pronunciare una formula, il mondo si
fermò: Remus sembrò avere
mille e mille anni per decidere cosa fare, tuttavia fu il suo corpo a
decidere
per lui; la paralisi si estese così velocemente da fargli
temere di essere in
qualche modo impazzito, mentre i suoi occhi non poterono fare altro che
guardare.
«-fundus»
il getto di
luce rossa che colpì Tonks alle spalle lasciò uno
strappo sulla maglia scura –
era verde, gliel’aveva regalata lui un giorno di molti mesi
prima –, nel
frattempo che le pupille si dilatavano fino a mangiarsi tutto il colore
dell’iride; sembrava confusa e in quella confusione Remus
riconobbe una paura
smarrita che nulla aveva a che fare con la sua
Tonks, l’uragano
di energia che
aveva imparato ad amare.
La risata
isterica di
Fenrir gli ghiacciò il sangue nelle vene, cacciando
l’immobilità con una nuova
ondata di adrenalina pura; si mosse velocemente, ma era troppo tardi
per agire:
con un orrore che si avvicinava molto alla pazzia, vide i denti aguzzi
del lupo
mannaro affondare nella carne chiara e un urlo di dolore
squarciò il silenzio nel
quale era affondato poche ore prima.
Il boato della
guerra
lo colpì con forza devastante e la sua mente
annegò in un magma di rumori,
fiotti, grida, pianti e fragori; una strana sordità satura
di suoni lo colpì,
mentre il suo sguardo rimaneva ben sveglio a fissare il sangue che
colava e i
denti che strappavano e le lacrime che scendevano.
Remus vide
nuovamente –
stagliato sulla parete del cervello – il giallo maledetto di
quegli occhi e
corse; corse a perdifiato, fino a farsi seccare la gola, colpendo
quella dannata
figura proveniente dagli incubi più profondi di ogni essere
umano; insieme
caddero in uno spruzzo di calcinacci e polvere, dimentichi di Magia e
Incantesimi, solo pelle e carne, sangue e occhi.
«Vuoi
uccidermi,
piccolo Lupin?» Cantilenò Fenrir, mentre ansimava
sotto di lui. «Dovresti
sapere che è impossibile uccidere la propria fonte»
continuò a sussurrargli, dentro e fuori di lui, con la voce
e la mente.
Non era vero,
adesso
Remus lo sapeva.
Tuttavia una
parte di
lui continuava a credere che fosse impossibile ucciderlo,
perché era un essere
immortale ed eterno, incubo infinito di ogni bambino ancora nascosto
nello
stadio maturo di ogni uomo.
Con uno scatto
di reni,
Fenrir ribaltò la posizione e Remus si ritrovò
schiena a terra, la mancanza
d’aria che bruciava i polmoni e i polsi che fremevano presi
in una morsa di
ferro e acciaio.
«Sono
molto più forte
di te, sono molto più potente di
te,
ragazzino. E, soprattutto, io ho alleati che tu non potrai mai
permetterti…»
gli fece, questa volta sussurrando davvero a pochi centimetri dal sul
collo.
Remus
deglutì a vuoto,
il dolore che saliva dalle mani atrofizzate e una sorda paura cieca che
gli si
riversava nel petto: non capiva, la sua mente era in balia di troppi
pensieri,
eppure quelle parole lo avevano scosso dal profondo. Di cosa parlasse,
Remus lo
scoprì solo pochi istanti dopo, quando un nuovo urlo
conosciuto lo colpì alla
base dello stomaco.
Si dice che,
quando
muore una persona amata, mente e corpo lo percepiscono come un dolore
particolare; qualcosa dentro di te si spegne, come una candela nel
vento forte.
Quando Remus
vide Tonks
cadere sotto la Maledizione di Dolohov, ebbe solo il tempo di pensare
che non lo aveva sentito.
La voce di
Greyback lo
raggiunse in quel limbo in cui la sua mente si era rintanata, appena
aveva
capito che Tonks – la sua Tonks – era davvero morta.
«Presto
la seguirai,
piccolo Lupin, prendilo come un regalo d’addio da parte
mia…» soffio, poi la
morsa d’acciaio che gli bloccava i polsi si
allentò.
Remus
batté le palpebre
a osservare quegli occhi gialli che si allontanavano, mentre la figura
di
Fenrir saltava via d’improvviso, spostandosi di lato.
Ebbe il tempo di
guardarlo, guardarlo bene, solo per qualche altro istante, poi il
ghigno di
Dolohov brillò verso di lui con lenta lascivia, mormorando
qualcosa che non
riconobbe.
Ci fu un lampo
rosso,
questo lo notò, poi il vuoto.