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Autore: Karyon    14/12/2011    5 recensioni
Piangeva ancora ora, Remus Lupin, di un pianto antico che andava oltre le semplici lacrime; Tonks, la battaglia, persino Voldemort sembravano sfilacciarsi, figure in lontananza in un campo visivo che non vedeva altro che giallo.
I suoi occhi. Gli occhi di Fenrir Greyback.

Arrivata quinta al Contest "Aspettando Pottermore" di Selenelightwood e Wynne_Sabia.
Vincitrice premio speciale "Lacrima".
(Death Character).
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Fenrir Greyback | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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         Aspettando Pottermore

Nick Autore (Sul Forum e su EFP): Karyon.
Titolo: Giallo [Un’infinita distesa di giallo].
Prompt scelto: Giallo (mavvà?).
Personaggi: Remus Lupin, Fenrir Greyback (Ninfadora Tonks, Antonin Dolohov).
Contesto: Seconda Guerra Magica.
Genere: Introspettivo, guerra, angst.
Rating: Arancione.
Avvertimenti: missing moment, one shot, Death Caracter.
Introduzione:

Giallo.

Ovunque un’infinita distesa di giallo.

Remus aveva sempre avversato quel colore, con la stessa intensità con la quale si poteva odiare un nemico giurato.

NdA: Il missing moment di cui tratta la storia riguarda il momento in cui Tonks e Remus sono morti, il 2 Maggio del 1998. Non è del tutto noto il modo in cui sia successo; probabilmente a causa di Dolohov, uno dei più forti Mangiamorte del Signore Oscuro. Nel mio missing moment ho considerato che Remus possa aver lottato con Fenrir Greyback un’ultima volta, prima di morire.

Il fatto che Tonks possa essere stata morsa ovviamente è una mia invenzione; comunque non è uno what if…?, perché non cambia essenzialmente nulla nella storia.

La One Shot è quasi del tutto introspettiva, perché ho preferito lasciare i riflettori su Remus e le sue fobie. Spero non sia troppo noiosa :D

Tutte le informazioni che ho, le ho prese da The Harry Potter Lexicon.

Desclaimer: Tutti i personaggi sono © Joanne Rowling e non usati a scopo di lucro.

 

Quinta al Contest “Aspettando Pottermore” si Selenelightwood e Wynne_Sabia. Giudizi qui.

Grazie mille ragazze, sono stati esaustivi e davvero velocissimi :3


Un’ infinita distesa di giallo

 

«La mia "paura" è la mia essenza…»

Franz Kafka

 

«La paura è la via per il Lato Oscuro: la paura conduce all'ira, l'ira all'odio, l'odio conduce alla sofferenza».

Star Wars: Episodio I – La minaccia Fantasma

 

 

Si diceva che le persone cambiavano, col tempo, e che tutte le fobie di cui si costellava la vita di fanciullo sparivano, diradate dal sole di una maturità acquisita.

Così Remus era cresciuto nell’ombra di una paura atavica, sviluppando di anno in anno una forza sempre più salda, a dispetto di un corpo che andava cospargendosi di cicatrici numerose – rosee e antiche, orme di un dolore inevitabile –, su una pelle lattescente.

Eppure quell’angoscia persisteva, stabile e profonda, ammassata negli angoli scuri della sua anima come sporco sfuggito a un’abluzione impietosa.

Ancora ora, ora che il suo corpo si era assottigliato nel vento e la sua figura di uomo si era formata nel solco di un carattere razionale e concreto, quel colore continuava a tenere inchiodato il suo cuore, fino a fargli temere l’implosione.

Fenrir Greyback lo fissava dopo tanti anni, a qualche metro di distanza, e lui non riusciva a fare altro che respirare.

«Remus, Remus… di qua!»

La voce di Tonks era solo un sussurro, sfuggito chissà come da quella parte del cervello ancora non annegata nell’oblio, mentre tutt’intorno la paura silenziava ciò che restava della guerra.

Fenrir Greyback si avvicinava lentamente, passo dopo passo – fendendo incantesimi, membri dell’Ordine, Magiamorte e macerie fumanti; si avvicinava e Remus si ritrovò, di colpo, ad avere poco più di un anno, piangendo tutto quello che i piccoli polmoni riuscivano a contenere.

Piangeva ancora ora, Remus Lupin, di un pianto antico che andava oltre le semplici lacrime; Tonks, la battaglia, persino Voldemort sembravano sfilacciarsi, figure in lontananza in un campo visivo che non vedeva altro che giallo.

I suoi occhi. Gli occhi di Fenrir Greyback.

Prima di qualunque altra cosa, Remus pensò che fosse invecchiato; era curioso, quasi sbagliato che lui invecchiasse: fino ad allora, nella sua testa, Fenrir rimaneva un essere senza inizio né fine, una figura eterna e inamovibile stagliata al centro di qualsiasi suo incubo.

«Remus Lupin…» esalò il lupo mannaro, con quella voce che era più un ringhio, le mani contratte attorno alla bacchetta e i capelli striati di un grigio che un tempo non c’era.

Remus inspirò profondamente, lasciando che tutto il suo corpo si preparasse a difendersi da quella voce che, seppur compressa in un latrato, era il più dolce dei sussurri. Quello che nessuno capiva era che la maledizione lasciava dietro di sé qualcosa di più che la semplice trasformazione, una volta al mese, in una bestia pelosa e dal discutibile carattere; possedere il morbo significava altro… era qualcosa che andava al di là di qualsiasi umana comprensione e persino Tonks – che ora lo osservava stranita, come se non fosse realmente lui, quel corpo rigido e ammutolito di fronte al caos – faticava a capirlo, capirlo davvero.

Quegli occhi, quei maledetti occhi che un giorno di tanti anni prima lo avevano incatenato per sempre, lo attiravano a sé ogni istante, ogni momento della sua vita; percepiva bisbigli e mormorii nella notte, la voce di Greyback che fendeva facilmente le sue difese per giocare con la sua anima.

Essere un lupo mannaro era quello e molto altro, significava appartenere per sempre a chi ti aveva morso, significava non possedere mai più – mai del tutto – una parte di se stessi.

La maggior parte delle volte, Remus fingeva che quella parte semplicemente non esistesse.

Tuttavia non avrebbe mai potuto liberarsi del tutto di quella menomazione che striava la sua anima di grigio, che congelava il suo cuore per istanti eterni, se solo avvicinava a qualcuno della sua specie.

E Greyback lo sapeva.

Rise, rise di gusto per un feroce istante, poi tornò a inchiodarlo con i suoi occhi, affilati e selvaggi come quelli di nessun altro.

«È sempre un piacere ritrovare il risultato di un lavoro di gioventù» costatò, continuando ad accarezzare il legno della bacchetta come se non ci fosse ancora del tutto abituato. «Sei cresciuto bene, peccato che io sia interessato solo ai bambini…»

Remus lasciò che la licenziosità di quelle parole gli scivolasse addosso come una carezza, leggera e insinuante come solo lui sapeva modellarla.

Tonks arrivò di corsa, dopo essersi liberata di qualche Mangiamorte, e si protese tra di loro con la sua carica di energia elettrizzante «Sta lontano, Greyback» avvertì, condensando tutto l’odio che provava in poche, efficaci parole.

Era brava lei, a usare le sue sensazioni come un’arma.

Remus lo aveva capito da tempo, da quando le sue lacrime avevano bagnato il polveroso pavimento di Grimmauld Place quel fatidico giorno del “sì”; però quella volta non poteva lasciargliele usare, non con uno come Fenrir, che di emozioni si cibava fino a lasciare il vuoto.

«Tonks, spostati» fece, con tono fermo e deciso.

I suoi occhi, quella volta di una leggera sfumatura dorata, lo guardarono preoccupati «Ma, Remus…»

«Devi andartene, vai ad aiutare i ragazzi» replicò ancora, sotto lo sguardo ironico del lupo mannaro.

Ti prego, vai via – urlava la sua testa – non voglio che ti morda, non voglio nemmeno che ti guardi.

Tonks aspettò, aspettò qualche attimo, poi annuì brevemente.

Lo conosceva abbastanza per sapere che la sua mascella contratta, le sue mani scattanti, non volevano dire nulla di buono.

Lo conosceva abbastanza da capire che era la sua battaglia, sua e di nessun altro.

Quando lei si allontanò, senza fretta e con il capo che continuava a girarsi verso di loro, una nuova risata sprezzante gli inondò le orecchie, fino a renderlo sordo.

Fenrir si tenne un fianco, poi tornò a guardarlo «Che ragazzina ubbidiente… sarà interessante fare due chiacchiere con lei, dopo che ti avrò ucciso» annunciò, con tutta la naturalezza del mondo.

Una furia cieca si fece strada in lui, corrosiva come veleno ma anestetizzata dalla paura che a ondate gli paralizzava i muscoli; l’influsso della luna era ancora lì, a scandirgli l’esistenza con impercettibili obblighi.

Quando riuscì ad alzare lo sguardo su di lui, quelle pupille gialle e intense come il sole gelido di molte primavere fa, riuscirono a confonderlo solo parzialmente.

Qualsiasi incantesimo, per quanto forte, alla fine si spezzava.

Remus aveva semplicemente lasciato che un solo, singolo nome occupasse ogni buco nero che la sua mente mutilata era riuscita a costruirsi.

Ted.

Fenrir batté gi occhi, poi un tremito del braccio sinistro tradì la sorpresa «Tu mi stai resistendo…»

Remus annuì, trovò la forza in qualche modo, poi si schiarì la gola lentamente «Già. Sono troppo grande per farmi ammaliare da te».

Il lupo mannaro ghignò «Non lo eri fino a qualche mese fa, Remus. Non puoi sottrarti al marchio, alla chiamata» replicò con fare deciso, lo sguardo che scandagliava alla ricerca di un nuovo punto debole da colpire.

Remus fece un passo, la bacchetta venne sfilata dalla stinta camicia a quadri «Ora ho qualcosa per cui lottare, qualcosa per cui la mia natura di lupo mannaro non ha importanza, qualcosa che mi amerà nonostante tutto. Ed io voglio proteggere quel qualcosa, Fenrir. Non mi porterai via anche questo, posso assicurartelo».

Dopotutto quegli occhi gli avevano portato via già tutto, pensò in un lampo di malinconia: sua madre e il suo orrore infinito, suo padre e la sua indifferenza, la sua infanzia defraudata dall’innocenza che avrebbe dovuto caratterizzarla… e poi Hogwarts e la Stamberga, il Platano e i Malandrini, gli Animagus e la sua breve parentesi lavorativa.

Tutto, tutto in funzione di quello – il suo piccolo problema peloso, avrebbe detto James che di problemi se ne intendeva –, in funzione di un default di sistema che non avrebbe dovuto esistere.

Ogni più piccolo tassello della sua esistenza riconduceva a quel momento, quello in cui affrontava la sua più profonda fobia, quello in cui affrontava lui.

Quello in cui lo uccideva.

Remus ricordava di non aver mai odiato tanto come in quel momento, persino Voldemort che tanto dolore aveva causato, persino Peter che aveva ucciso James e Lily e pure Sirius… persino il Male incarnato su quella terra non poteva competere con quella che era la sua paura più grande e che decisamente era riflessa nella sua stessa immagine.

Remus odiava se stesso e la sua menomazione più di ogni altra cosa e sapeva che, per distruggerla, avrebbe dovuto ritornare alla fonte.

Fenrir rise di nuovo, mentre impugnava saldamente la bacchetta e si preparava ad attaccare.

Remus sorrise, brevemente, quando sguainò la sua,  una Maledizione intrappolata sulle labbra sottili.

Fortunatamente Tonks era lontana, lontana tanto da preservare quell’immagine pulita e onesta che aveva di lui, lontana da quella che era effettivamente la realtà; fortunatamente suo figlio era troppo piccolo, ancora troppo piccolo per capire il dolore infinito che poteva, inconsapevolmente, avergli trasmesso.

Remus si preparò alla sua battaglia, l’ultima in qualche modo, con l’aria di chi era pronto a qualsiasi cosa, persino perdere se stesso, per quello; era pronto finalmente a rinunciare per sempre alla sua parte ormai marcia, se quello significava far scomparire per sempre quello sguardo e il suo influsso.

«Con-» appena Fenrir aprì bocca per pronunciare una formula, il mondo si fermò: Remus sembrò avere mille e mille anni per decidere cosa fare, tuttavia fu il suo corpo a decidere per lui; la paralisi si estese così velocemente da fargli temere di essere in qualche modo impazzito, mentre i suoi occhi non poterono fare altro che guardare.

«-fundus» il getto di luce rossa che colpì Tonks alle spalle lasciò uno strappo sulla maglia scura – era verde, gliel’aveva regalata lui un giorno di molti mesi prima –, nel frattempo che le pupille si dilatavano fino a mangiarsi tutto il colore dell’iride; sembrava confusa e in quella confusione Remus riconobbe una paura smarrita che nulla aveva a che fare con la sua Tonks, l’uragano di energia che aveva imparato ad amare.

La risata isterica di Fenrir gli ghiacciò il sangue nelle vene, cacciando l’immobilità con una nuova ondata di adrenalina pura; si mosse velocemente, ma era troppo tardi per agire: con un orrore che si avvicinava molto alla pazzia, vide i denti aguzzi del lupo mannaro affondare nella carne chiara e un urlo di dolore squarciò il silenzio nel quale era affondato poche ore prima.

Il boato della guerra lo colpì con forza devastante e la sua mente annegò in un magma di rumori, fiotti, grida, pianti e fragori; una strana sordità satura di suoni lo colpì, mentre il suo sguardo rimaneva ben sveglio a fissare il sangue che colava e i denti che strappavano e le lacrime che scendevano.

Remus vide nuovamente – stagliato sulla parete del cervello – il giallo maledetto di quegli occhi e corse; corse a perdifiato, fino a farsi seccare la gola, colpendo quella dannata figura proveniente dagli incubi più profondi di ogni essere umano; insieme caddero in uno spruzzo di calcinacci e polvere, dimentichi di Magia e Incantesimi, solo pelle e carne, sangue e occhi.

«Vuoi uccidermi, piccolo Lupin?» Cantilenò Fenrir, mentre ansimava sotto di lui. «Dovresti sapere che è impossibile uccidere la propria fonte» continuò a sussurrargli, dentro e fuori di lui, con la voce e la mente.

Non era vero, adesso Remus lo sapeva.

Tuttavia una parte di lui continuava a credere che fosse impossibile ucciderlo, perché era un essere immortale ed eterno, incubo infinito di ogni bambino ancora nascosto nello stadio maturo di ogni uomo.

Con uno scatto di reni, Fenrir ribaltò la posizione e Remus si ritrovò schiena a terra, la mancanza d’aria che bruciava i polmoni e i polsi che fremevano presi in una morsa di ferro e acciaio.

«Sono molto più forte di te, sono molto più potente di te, ragazzino. E, soprattutto, io ho alleati che tu non potrai mai permetterti…» gli fece, questa volta sussurrando davvero a pochi centimetri dal sul collo.

Remus deglutì a vuoto, il dolore che saliva dalle mani atrofizzate e una sorda paura cieca che gli si riversava nel petto: non capiva, la sua mente era in balia di troppi pensieri, eppure quelle parole lo avevano scosso dal profondo. Di cosa parlasse, Remus lo scoprì solo pochi istanti dopo, quando un nuovo urlo conosciuto lo colpì alla base dello stomaco.

Si dice che, quando muore una persona amata, mente e corpo lo percepiscono come un dolore particolare; qualcosa dentro di te si spegne, come una candela nel vento forte.

Quando Remus vide Tonks cadere sotto la Maledizione di Dolohov, ebbe solo il tempo di pensare che non lo aveva sentito.

La voce di Greyback lo raggiunse in quel limbo in cui la sua mente si era rintanata, appena aveva capito che Tonks – la sua Tonks – era davvero morta.

«Presto la seguirai, piccolo Lupin, prendilo come un regalo d’addio da parte mia…» soffio, poi la morsa d’acciaio che gli bloccava i polsi si allentò.

Remus batté le palpebre a osservare quegli occhi gialli che si allontanavano, mentre la figura di Fenrir saltava via d’improvviso, spostandosi di lato.

Ebbe il tempo di guardarlo, guardarlo bene, solo per qualche altro istante, poi il ghigno di Dolohov brillò verso di lui con lenta lascivia, mormorando qualcosa che non riconobbe.

Ci fu un lampo rosso, questo lo notò, poi il vuoto.

 

   
 
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