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Autore: Ely79    16/12/2011    3 recensioni
Due stranieri rompiscatole, una donna ingegnere, due gatti meccanici, una airship da corsa guasta. E il tempo che scorre inesorabile nella campagna.
Storia prima classificata al contest "In sei ore" indetto da (Vienne) e partecipante all'"Ipse Dixit - Quote Challenge" indetto da Fabi_Fabi.
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dalle 10:49 alle 11:55
Con il week-end alle porte, ho deciso di anticipare il nuovo capitolo ad oggi.
Chissà che domenica sera, per la pubblucazione del quarto capitolo, non trovi un lungo elenco di commenti da parte di chi legge!


DALLE 10:49 ALLE 11:55


Cascina dell’acqua
Cucina

Nove taceva. Agganciato al congegno di ricarica, studiava i due venuti modificando l’apertura del diaframma per carpirne i dettagli e seguirne i movimenti. Sembrava non l’avessero neppure notato durante gli svariati minuti di razzia, ma lui aveva elaborato ogni dato utile, al fine di impiegare l’idioma corretto per la comunicazione.
«Buon. Giorno. Signorina» salutò, appena Nora gli fu davanti.
«Al, l’hai sentito?» strillò Nora, estasiata.
Banks si limitò ad annuire, la bocca già piena di leccornie contadine.
«Ehi, salve piccolo. Tu chi sei?» domandò, sfiorando il bordo del grosso otturatore.
«Nove» rispose facendo scorrere rapidamente le lamelle interne.
«Nove?»
L’automa annuì e agitò le orecchie metalliche.
«Parli molto meglio di quell’altro gatto» osservò.
«Flapper. Ha. Un. Sistema. Vocale. Meno. Sofisticato. Del. Mio» spiegò.
«Si sente! E sei anche molto più carino: sembri quasi un gatto vero» esclamò, disconnettendo lo spinotto e sollevandolo. «Cos’hai?» chiese, vedendo le sue zampe ciondolare.
«Un. Guasto. Al. Sistema. Primario. Di. Deambulazione» scandì, dopo un rapido controllo.
«Tranquillo, ti porto a spasso io!» e, stringendoselo al petto, imboccò la scala, diretta al piano superiore.
«Nora, vacci piano con quell’affare. È un automa!» l’ammonì Algernoon, con la bocca piena.
I passi scomparvero e lui riprese a saccheggiare impunemente la dispensa. Passò un po’ di tempo, prima che una porta si aprisse alle sue spalle e comparisse Prudenza.
«Niente da fare, la Siorpaes si rammarica ma per il piattello non può far nulla. L’hanno caricato su un treno ieri sera e non c’è modo di…» esordì, ammutolendo dinnanzi all’indecoroso spettacolo dell’ospite che s’ingozzava come un disperato.
La giacca abbandonata malamente su una sedia, il cappello in bilico sulla maniglia di un pensile e lui, curvo sul tavolo, circondato da scorte dolci e salate, panini, frutta, filtri di tè, biscotti, bottiglie di vino e latte. Oltre ad una marea di posate, arnesi da cucina e stoviglie variamente imbrattati. Unica compagnia, l’orologio da taschino appoggiato su una pagnotta.
«Ho fame» abbozzò Banks, innocente.
La donna non ebbe tempo d’esprimergli il proprio disgusto a caratteri cubitali.
«Al! Al, vieni, presto!» strepitò Nora dal piano di sopra.
La raggiunsero di corsa, temendo che, a forza di ficcanasare, avesse finito col farsi male. La trovarono che saltellava in una camera da letto, incurante delle proteste di Nove, i cui posteriori sbatacchiavano sulla gonna in tartan giallo-verde.
«Guarda!» gridò, indicando un grande cartellone attaccato alla parete.
Ritraeva Nicholas Name, il miglior pilota di airship in circolazione. L’uomo stava appoggiato alla sua EmeraldSun, la cuffia da volo ben calzata sul capo, gli occhiali scuri a sovrastare la sciarpa color senape. Pur non mostrando il volto, la sua figura emanava un senso di forza, pazzia e abilità che aveva dell’eroico. Chiunque conosceva le sue imprese, come il sorpasso all’ultima curva su Jannik Qvist durante la Coppa del Nord, con un motore danneggiato dal ghiaccio.
«Vedo» sospirò Algernoon, addentando una mela.
«Di chi è?» chiese agitatissima.
«Di mio figlio, è la sua stanza. È un suo grandissimo tifoso» fece Prue, ignorando l’espressione trionfante di Banks.
«Io… non pensavo di… non credevo… Nick ha sostenitori anche qui!»
«Per chi diamine ci hai preso, Miss? Sappiamo riconoscere un campione quando ne vediamo uno» sbottò Prue, tornando in cucina. «E per inciso, avevo chiesto di non fare danni!» sbraitò appena furono tutti di sotto.
«Andiamo, Prue, quante storie per un po’ di marmellata» ciancicò Algernoon, estraendo il cucchiaio dal barattolo, col risultato di far precipitare un’enorme goccia di composta sul tavolo.
«Per quanto mi riguarda puoi mangiartela tutta. È di lei che parlo» sibilò additando Nora. «Nove doveva rimanere in carica fino alle undici e mezza. Ora mancano venti minuti, il che mi dice che è staccato da molto più tempo».
«Non credevo fosse un problema. Funzionava, rispondeva» si giustificò lei.
Prudenza perse le staffe.
«Funzionava?! Con una zampa e il bacino rotti? Questo per te significa funzionare? Sei cieca quanto Name quando apre l’aria in curva e manda in stallo la pompa di raffreddamento! Chi ti ha dato il permesso di staccarlo?» urlò.
«Nessuno» confessò a mezza voce. «Ma Nove è così carino! Non potevo lasciarlo attaccato a quell’affare!»
«Nove è carino» ripeté, disarmata dalla scusante.
«Sì».
«Carino quanto Name?»
«Ecco… lui è… diverso. Non li si può paragonare» rispose impacciata, cercando Al con lo sguardo.
«Sante parole» convenne lui, tornando a sbocconcellare pane e sottaceti.
Arresa, Prudenza afferrò un paio di biscotti e imboccò la porta secondaria dell’officina, seguita da Nora e Nove, mentre le lancette indicavano le undici e undici.

Cascina dell’Acqua
Officina

L’Almond 312 era uno dei modelli più potenti e veloci nel campo delle aeronavi da corsa. Il nome derivava dalla forma dello scafo centrale, che ricordava il guscio del frutto. I due motori laterali l’avvolgevano con un’ala circolare, studiata appositamente per ridurre le turbolenze e migliorare la penetrazione dell’aria. Quando Noon l’aveva fatto recapitare a Cascina dell’Acqua, Prudenza era impazzita di gioia: il motore D.F. Lancaster da cinquanta cavalli era un gioiello di potenza e tecnologia, nonostante il trascurabile difetto d’aver avvicinato troppo l’alternatore ai cavi della centralina primaria.
Nora camminava intorno all’airship, portando in braccio Nove e lucidando porzioni del guscio argenteo per potersi specchiare. Di tanto in tanto allungava il collo per esaminare meglio qualche dettaglio: le chiodature lungo l’ala circolare, l’impugnatura delle cloche, le pulsantiere sulla plancia tripartita, le decorazioni punzonate lungo la fusoliera.
«Posso chiederti una cosa, Prudence?» azzardò, affacciandosi nello spazio lasciato libero dalla rimozione di un pannello.
«Se insisti a chiamarmi in quel modo, no» rimbrottò la donna stesa sulla schiena, presa dalla verifica di alcune viti.
Fece un cenno a Flapper che inarcò la schiena, facendone uscire una chiave esagonale. Quei gatti non erano semplicemente automi da compagnia: li aveva assemblati col preciso intento di creare due assistenti abbastanza agili e attrezzati che l’affiancassero nei lavori di meccanica.
«Posso chiederti una cosa, Prue?» ritentò.
«Sentiamo».
«Cosa ti è successo all’orecchio?»
Lei rimase in silenzio per qualche istante, verificando il serraggio della brugola.
«Noon non te ne ha parlato? Strano» malignò. «Mi pareva fosse molto loquace riguardo la famiglia Baldovini».
Li aveva sentiti mentre chiamava inutilmente nelle terre dell’Arciduca per sollecitare il piattello dell’alternatore.
La frecciatina non andò a segno: lo capì dagli occhi verdi di Nora che la seguivano dall’alto, tra gli ingranaggi e i placidi sbuffi di vapore della caldaia, in attesa di risposte.
«Mio padre dice che i saggi parlano soltanto di ciò che sanno1. E anche se dubito che Al si possa considerare tale in questo momento, mi pareva che non ne sapesse granché».
A Prue venne da ridere. La coloniale aveva ragione: per l’Almond, Noon era andato fuori di testa come molla d’orologio deformata.
«Non proprio. All’epoca ci conoscevamo già, solo che non bada alle spiegazioni se è una voce diversa dalla sua a pronunciarle» sogghignò. «È successo quando avevo tredici anni. Con la scuola andai a visitare la centrale idroelettrica di Terziano. Avevano installato delle turbine a compressione di ultima generazione, grandi quanto questa stanza. Sembravano giganteschi gusci di lumache, tutti lucidi e allineati. Dietro si alzava una selva di tubazioni: alcune portavano il vapore ad alta pressione ai condensatori, altri ai rigeneratori di sistema e una parte alle condotte di sfiato e controllo. Davanti ai terminali di queste ultime c’era una passerella per i tecnici».
«E tu ci sei salita» indovinò Nora.
«Alla sommità dei condotti erano installati degli organi detti “trombe”. A cicli regolari emettevano segnali acustici, comunicando il buon funzionamento dell’impianto. Non immaginavo quanto grande potesse essere la differenza di potenza sonora tra il piede e la cima dei tubi. Sgattaiolai via e salii, mettendomi in attesa del fischio a meno di un metro dal primo sbocco» e mimò il gesto di allora, con le mani a coppa attorno all’orecchio.
Sbirciò su e vide l’americana in trepidante attesa.
«Non sentii un accidente: mi ritrovai stesa sulla passerella con il sangue che colava dall’orecchio e dei capogiri così forti da farmi vomitare l’anima. In capo a mezza giornata il verdetto era emesso: ipoacusia traumatica acuta, con forte compromissione dell’equilibrio. Fine» concluse mesta.
«Scommetto che eri la più pestifera della scuola!» rise la coloniale.
«Ero la prima della classe» corresse, riprendendo a lavorare. «Flapper, saldatore TIG. Gli insegnanti non si capacitavano del mio colpo di testa, ma l’ingegneria mi chiamava. Ho fatto un errore e l’ho pagato caro. Mi è servito di lezione. Qui, sotto l’innesto a T» aggiunse abbassando gli occhiali schermati, indicando all’automa dove puntare lo strumento estroflesso dal fianco.
Appena la saldatura si fu raffreddata, fece per uscire da sotto il veicolo quando qualcosa attirò la sua attenzione. Sgranò gli occhi. Un paio di stivaletti color smeraldo se ne stavano appena oltre l’ombra della bancata sinistra. Che le fosse venuto un colpo se non erano degli Heather Jane originali. Il non plus ultra dell’industria calzaturiera, famosi in tutto il mondo per rivestire i piedi delle più alte cariche politiche e delle celebrità in genere. Impossibile non riconoscerne lo stile.
«Ti piacciono?» chiese Nora, mostrandoglieli.
Aveva notato l’interesse diretto ai suoi piedi e ne aveva afferrato al volo il motivo.
La Baldovini si limitò a fare spallucce, mordendosi le labbra per la vergogna e l’invidia. Li trovava splendidi, mai visti di più belli ed raffinati, ma non l’avrebbe mai ammesso. Per lei, quegli stivaletti, erano una chimera: non aveva modo di reggersi su tacchi da quattro pollici.
«Dovresti comprarli, sono favolosi! Perfetta calzabilità, pellami e stoffe di prima scelta, per non parlare dei materiali delle decorazioni. Gli artigiani che li confezionano sono i più esperti al mondo» pigolò Nora, felice di far sfoggio delle proprie conoscenze. «Ci sono modelli adatti ad ogni evento: ricevimenti, matrimoni, serate a teatro, tè danzanti… persino per un’uscita in velocipede!»
«Non sono cose che m’interessano» disse, notando che si avvicinava mezzogiorno.
«Ma non si può vivere senza questi eventi!» protestò l’altra, sconvolta.
«Forse non ti è chiaro il concetto, Miss» sbottò Prue, scivolando via da sotto la airship.
Si alzò di scatto, facendo sibilare in protesta i giunti a fisarmonica, e le si avvicinò minacciosa, il volto impiastricciato di sporcizia e olio.
«Ho una famiglia, una casa ed un lavoro da mandare avanti. Non ho tempo da perdere in scemenze simili. E non spreco trecento Reali2 per un paio di stivali che, comunque, non potrei indossare» ringhiò, pulendo le mani in uno straccio. «La moda non è una mia priorità. Ci sono cose ben più importanti nella mia vita che un po’ d’ottone dorato, filo di seta, cuoio e qualche piede quadrato di broccato» concluse, fissandola con astio.
Prudenza non aveva mai sopportato le amichette di Algernoon e la loro passione per le frivolezze. Più una cose era futile e alla page, più ne facevano una malattia. Anche lei era una donna e sapeva apprezzare un bell’abito o un raffinato gioiello, ma riusciva a tenere bene i piedi per terra, lontano dalle luci abbaglianti delle elite aristocratiche e neoborghesi.  
L’americana non parve risentirsi delle sue parole. Anzi, aveva l’aria di chi aveva appena scoperto una sacrosanta verità. Stava lì, le labbra dischiuse in una “o” di sorpresa, le dita intrecciate ed appoggiate sulle ginocchia.
Si riprese dopo qualche minuto, lanciando un fischio d’approvazione tanto sonoro da superare le valvole della caldaia e lasciare allibita Prue.
«Tu sì, che sei una che sa quel che vuole!» trillò ammirata.
«In questo momento vorrei solo che stessi zitta» brontolò tappandosi le orecchie. «Spacchi i timpani come una locomotiva nella galleria del Frejus».

1 Citazione da “Il signore degli Anelli”, per la challenge “Ipse Dixit – Quote Challenge” indetto da Fabi_Fabi.
2 Reali: monete sabaude
   
 
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