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Autore: Silvar tales    20/12/2011    0 recensioni
Sapeva che la donna non aveva scelto a caso quella lirica. Sapeva che le parole che stava pronunciando avevano un ben preciso significato per il suo destino.
Studiò la veste regale che cadeva fluida ai piedi di Tsunade, osservò il coltello pendere lungo il suo fianco, lucido e frastagliato.
Persino sull'orlo di un abisso poteva rimanere una terza alternativa tra il saltare e il rimanere coi piedi a terra. Persino ora.
[Turno 3, Stanza 6: Impero Romano]
[43 punti ottenuti al contest "Le Dodici Stanze - Chi la dura la vince" indetto da ellacowgirl in Madame_Butterfly]
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Deidara, Tsunade
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Deidara sfida Le Dodici Stanze '
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Victus




“Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint (1)”.
La sua voce, le sue parole svelte e gravi risuonavano tra le colonne del palazzo imperiale, tappezzate di drappi rossi e oro. La sua testa era china e fremente, il suo collo era lasciato scoperto dai capelli biondi tagliati corti; la spada fredda, brandita con orgoglio dalla sontuosa figura femminile che lo sovrastava, sfiorava con velata minaccia la pelle pallida e vulnerabile.
“Perge! (6)”.
Il ragazzo alzò un poco la testa, indugiando con sguardo ceruleo alle sontuose vesti della matrona.
Vesti macchiate di sangue.
“Ut melius, quidquid erit, pati, seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam (2)”.
Non aveva più un briciolo di forza in corpo. Prima di comparire davanti alla nobil donna i carcerieri avevano tempestato la sua schiena di chiodi arrugginiti, provocandogli gravi infezioni e facendogli perdere molto sangue. Sapevano della sua bravura, sapevano che probabilmente lui era l'uomo migliore di tutto quanto l'esercito romano.
Oltre i confini della Gallia era conosciuto come Deidara, il combattente nordico.
Nessuno sapeva la gens di provenienza, probabilmente era figlio illegittimo di una delle tante stirpi germaniche, o almeno era l'ipotesi che meglio giustificava il suo aspetto. Come fosse stato cresciuto a Roma, e come fosse finito sotto il protettorato dell'imperatore Traiano, era sempre stato un mistero.
Un bambino estremamente precoce, acuto e bendisposto sia verso il raffinato otium letterario ciceroniano, sia verso l'arte della guerra. In pochi anni aveva imparato a maneggiare le armi e a comandare un esercito meglio di qualunque altro stratega romano, e conosceva a memoria tutte le poesie di Orazio e Catullo, e persino alcuni trattati politici e filosofici di Seneca.
Dopo i diciannove anni, la sua vita sembrò crollare a precipizio in un baratro senza fondo.
Tsunade era probabilmente la matrona più conosciuta e prestigiosa in tutta Roma; da sempre era stata vicina a importanti uomini politici, ed aveva sempre rivestito il ruolo di un'educatrice nei confronti di Deidara, una seconda madre. Poi le cose cambiarono.
Quando la donna ebbe il suo primo figlio, cominciò a provare invidia e rancore nei confronti del suo pupillo, un orfano barbaro di nascita, e del suo ruolo fin troppo elevato.
Tra le immense colonne del palazzo imperiale serpeggiavano bisbigli malevoli, che il più delle volte andavano a rivangare il fatto che Deidara non avesse, effettivamente, un corredo rispettabile di antenati. Un nome rispettabile.
Deidara non aveva nome, non aveva origini illustri e importanti che lo legassero al mitico passato di Roma, eppure ricopriva una posizione che chiunque avrebbe invidiato. Così giovane, a dispensare ordini all'esercito.
“Sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces (3)”.
Tutto era precipitato, il giorno della morte di quel servo. Poco più che un bambino, dai capelli rosso intenso e il corpo magro e malaticcio. Tsunade era a conoscenza della loro relazione, sapeva chi era il ragazzetto di cui Deidara si era innamorato.
La sera stessa lo uccise, gli tagliò il collo mentre era piegato a ricever frustate.
Il giovane centurione lo venne a sapere quasi subito, e tentò di sorprendere Tsunade in una congiura. Una congiura che fu malamente scoperta. Clodio, il bambino della matrona, venne ucciso barbaramente dagli adepti del militare nordico, dopo esser stato torturato. Ma Deidara non riuscì a sfuggire alla prigionia, ed iniziò il suo periodo di rovina. Fu accusato di tradimento, e venne incatenato in attesa di essere dichiarato hostes publicus - non sarebbe stato difficile, dato che non aveva origini importanti cui fare riferimento - e venire condannato a morte senza processo.
Nel sudiciume e nella solitudine della sua cella aveva avuto modo di riflettere su quella guerra di faide che si era innescata. Aveva agito d'impulso e per motivi personali, incitando i suoi uomini e convincendo figure politiche importanti che non simpatizzavano con l'imperatore a congiurare ai danni della potente Tsunade, per eliminare dapprima ogni influenza in ambito militare; poi sarebbe toccato ai nemici più pericolosi. Li aveva convinti con false accuse, punto sul personale, sconfitto e distrutto dai sensi di colpa e dal desiderio di vendetta.
Tsunade era impazzita dal dolore.
Vagava per le ampie camerate del suo palazzo, quasi delirante. Quand'era sola invocava il nome di Clodio a voce alta, e piangeva silenziosamente, con un braccio a nasconderle il viso.
Come tanti altri dolori subiti in passato, anche questo si cicatrizzò e divenne più concreto e amaro.
La matrona imparò a gestirlo razionalmente, e decise di sminuirlo inviando immediatamente dei sicari in Romania, territorio appena conquistato dove Deidara credeva che la sua famiglia rimanesse al sicuro, lontana dal fulcro più focoso di potere. Ma a nulla valsero le sue premure. La corruzione e la perversione di Roma giunse fin lì, fin oltre l'orizzonte della magna Grecia e delle terre mediterranee. Lo stesso destino di Clodio spettò ai due bimbi dello stratega, di appena cinque anni, e alla moglie, Lelia. Tsunade si curò di far pervenire la notizia alle orecchie dell'uomo, e osservò la sua reazione, consumata dall'odio.
Deidara piegò solamente la testa, lasciandosi fuggire un baleno di sorpresa e dolore dietro la pellicola azzurra degli occhi.
Lelia, i suoi bellissimi capelli neri e mossi, la sua pelle pallida e i suoi occhi scuri, le braccia fragili di Tarquinio che non si sarebbero più rinvigorite, la faccia smorta di Licinio che non avrebbe più riacquistato colore. Sembrava di vederli, nel buio delle sue lacrime, i due corpicini esanimi pieni di sangue, e riverso sopra di loro, in un tentativo di proteggerli, il corpo violato di Lelia.
Ecco cosa era conseguito dalla sua testardaggine, dal suo non vedere.
Solo continuo dolore, da ambedue le parti.
Solo morte e annientamento vicendevole.
Passò tre giorni di agonia. La quarta alba che gli baciò gli occhi, intrufolandosi dalla feritoia della cella, gli annunciò con aria soave la fine.
Due guardie lo presero per gli avambracci, lo indebolirono riempendolo di tagli profondi e chiodi, e lo trascinarono nelle immense sale del palazzo, ai piedi di Tsunade.
La matrona, col viso in lacrime, gli appoggiò la spada sul collo. Era una spada tagliente e subdola, era stata affilata dai servi proprio per quell'occasione. Se Deidara avesse alzato il collo di anche solo mezzo centimetro di troppo, la lama sarebbe affondata senza sforzo nella sua cervicale, tagliandogli all'istante la carotide.
Con tono autoritario e ancora pieno fino all'orlo di dignità e pudicitia, Tsunade gli fece recitare il tu ne quaesieris di Orazio. La sua sentenza di morte.
E ora, dopo aver ripetuto le dolci parole a memoria, era arrivato all'ultimo verso. Sapeva che la donna non aveva scelto a caso quella lirica. Sapeva che le parole che stava pronunciando avevano un ben preciso significato per il suo destino.
Studiò la veste regale che cadeva fluida ai piedi di Tsunade, osservò il coltello pendere lungo il suo fianco, lucido e frastagliato.
Persino sull'orlo di un abisso poteva rimanere una terza alternativa tra il saltare e il rimanere coi piedi a terra. Persino ora.
“Dum loquimur, fugerit invita aetas (4)”.
Fu un attimo. Una frazione di secondo. Un soffio di vento.
La spada fece per affondare nel suo collo, ma Deidara fu più veloce.
Con un guizzo afferrò il coltello dalla cintola della matrona, e lo infilò nel suo ventre molle, imbevendo all'istante le sue vesti di sangue.
L'oltrepassò con un balzo, mentre lei cadeva inanimata in avanti, lasciando che la spada cadesse sul pavimento e risuonasse, entro quelle lunghe colonne scure.
Le strappò la tunica, prima che diventasse rossa, esibendola poi in aria come un trofeo di guerra. “Carpe diem, quam minimum credula postero (5)”.
Aveva avuto la sua vendetta.







Note:

(1) – (5) Cit. Orazio, “Carpe Diem”
(1) “Tu non chiedere, non è lecito sapere quale destino gli dei diedero a me e a te”.
(2) “Quant'è meglio accettare qualsiasi cosa accadrà, sia che Giove ci abbia assegnato più inverni, sia che ci abbia assegnato l'ultimo”.
(3) “Sii saggia, versa il vino e taglia la lunga speranza in misura del tempo breve”.
(4) “Mentre parliamo, sarà già fuggito il tempo invidioso”.
(5) “Cogli l'attimo, e sii meno fiduciosa possibile nel domani”.
(6) “Segui!”
   
 
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