Sì, non è esattamente il capitolo di "Gabrielle" che
tutti attendevate.(Quello avrà per sè tuuutte le vacanze,
dopo Natale e il conseguente delirio di regali
e parenti.) E non è nemmeno
- credo - la shot natalizia che
vi aspettereste. MA, c'è sempre un ma, dietro a tutto questo apparentemente
casuale discorso c'è un senso e un progetto e un regalo che un po' di
tempo fa ho deciso di fare.
Questa è una Joick. { Sì,
avete letto bene, siete avvisate,
se non vi aggrada potete chiudere e leggere altro. } La mia PRIMA Joick, precisamente. Ed è appositamente per Simona,
alias fadingsound
alias @hellyeahjoick.♥
Per la passione che
ha, per le sue fanfiction che
mi hanno tenuto compagnia, risollevata e fatto sorridere in momenti veramente di buio totale. Per il modo in cui li ama e me li ha fatti amare, ancora
più di quanto
già non facessi. Come coppia, come fratelli, come Jonas.♥
A lei, quindi, ma anche a
tutte voi che mi seguite, mi leggete e magari amate questa coppia,
Buon Natale.♥
~Me.
~Fix You
When you try your best
but you don't succeed.
When you get what you want but not
what you need.
When you feel so tired but you can't
sleep,
stuck in reverse.
Appese
le ultime luci sul cornicione ed attaccò la spina con un gesto stizzito. Gli
facevano schifo. Sbuffò. Non
sopportava quell'insulsa catena di led
blu comprata all'ultimo momento, o il grosso albero di Natale al centro del
salotto, addobbato con una precisione quasi maniacale. I regali già incartati e
sistemati con cura.
Quel
suo appartamento nuovo ed enorme e stipato di roba così costosamente inutile,
ma comunque fottutamente vuoto gli
premeva addosso come una gabbia. Dorata, forse, ma pur sempre una maledetta
gabbia del cazzo. Sedette
pesantemente sul divano di lucida pelle bianca - tremila dollari, centesimo più
e centesimo meno - e si passò le mani fra i capelli come se volesse
strapparseli via da un momento all'altro. Sì, quell'anno la sola idea del
Natale gli provocava intensi e continui conati di vomito.
L'i-phone vibrò nella tasca dei suoi pantaloni e
Nicholas ce lo rificcò con decisione, non appena si fu accertato che fosse
soltanto l'ennesima chiamata di sua madre: l'aveva rassicurata troppe volte
nell'ultimo periodo, per poter essere disposto a perdere altro tempo nel
convincerla che non si sarebbe impiccato al lampadario del salotto. Non per il
momento, comunque. Affondò nei cuscini, con la fronte che pulsava dolorosamente
ed un fastidioso bruciore alle giunture. Passare le notti seduto sul pavimento
a scrivere inutili canzoni, invece che dormire come tutti i cristiani non gli
stava facendo certo del bene. Glielo avevano detto tutti - ma proprio tutti - che sembrava invecchiato di
dieci anni in poche settimane. Il telefono si animò di nuovo. Soffocò
un'imprecazione, poi buttò un occhio all'sms. Uno dei suoi fratelli, di certo.
«Vatti a comprare
qualcosa in Rodeo Drive, cerca gli orecchini da regalare a mamma.
Passa da Starbucks
e ingozzati di brownies dietetici... Entra in un pub
e ubriacati, se ti va.»
«Basta che esci di lì.»
Il
secondo messaggio arrivò qualche istante dopo il primo, facendo sussultare il
cellulare fra le dita di Nick che grugnì e cacciò la testa sotto le braccia.
Kevin. Era profondamente diviso a metà fra l'impulso di dargli retta e mandare
platealmente a fare in culo lui e le
sue noiose saggezze da "sono-più-grande-e-queste-cose-le-so".
Invece no, che non sapeva. Nessuno sapeva quale fosse davvero la fonte - causa
prima e unica - di tutto quel dolore cieco e violento. Quel grandissimo stronzo impunito.
Soffocò
un singhiozzo e si schiacciò le palpebre contro gli occhi fino a che piccole
macchie di luce presero a guizzargli nell'iride e le lacrime furono ricacciate
indietro, una ad una. Non è un episodio
di Dawson's Creek, cazzo. Ed in effetti no,
quella era la vita. La vita reale.
-
D'accordo, bro. - Prese una giacca dall'attaccapanni,
le chiavi della Mustang e si buttò in strada.
•••
Faceva caldo - il ventidue di dicembre -, caldo
abbastanza da girare con addosso solo un bomber di pelle leggera e una maglia
sottile. Potevano riempire le vetrine di neve sintetica e ovatta fino a farle
scoppiare sulla strada: fuori c'erano comunque quasi venti gradi e Natale non
sarebbe stato tale nemmeno in fotografia. Prese a calci un sassolino e lo spedì sul cerchione di una Mercedes di lusso, parcheggiata qualche metro più avanti. In quella
parte di Los Angeles erano tutti ricchi da fare schifo - ci si metteva anche
lui stesso -, quanto potevano interessarsi al fatto che ci fossero o meno
cumuli di neve sui marciapiedi, banchetti di caldarroste agli angoli delle
strade, pupazzi - veri - nei cortili
delle case e- boh? Quello non era il
New Jersey e tanto bastava. Era una cazzo di città dei sogni, in cui la primavera dura trecentosessantacinque
giorni l'anno.
Se la
sentiva stretta. Si sentiva stretto tutto, soprattutto le insulse decorazioni
natalizie che occhieggiavano languide dei loro glitter,
dall'ingresso di un grosso store d'abbigliamento.
Entrò, guidato più dall'idea di staccarle ad una ad una che altro, si sentiva
più Bastian Contrario del solito. Se fosse stato
con Lui, lo avrebbe mandato ai matti
di certo- ma queste erano poi cose che non doveva nemmeno pensare.
-
Buongiorno e buon Natale! - Trillò una commessa fin troppo giovane, esattamente
all'altezza del suo orecchio destro. - Posso aiutarla? -
Nicholas
scrollò le spalle stizzosamente e per un momento pensò di farle notare quanto
estremamente stupido fosse, fare gli auguri con tre giorni d'anticipo e - a ben
riflettere - avrebbe avuto un paio di interessanti considerazioni anche
riguardo il succinto abitino scarlatto, orlato di finta pelliccia bianca che
più che coprire, scopriva in abbondanza. Sospirò: aveva ben poca voce in
capitolo, dopotutto. "Sono più gay di Elton
John, stellina - avrebbe voluto dirle - lascia perdere", ma alla fine
si risolse per un blando ed educato cenno di diniego col capo ricciuto. Affondò
un po' di più nel collo alzato della giacca.
- No,
grazie. Do solo un'occhiata in giro. - Sparì velocemente dietro un espositore
di giacconi.
Forse avrebbe
potuto comprarsi qualcosa di nuovo. Un paio di scarpe perfettamente lucidate o
una bella cravatta da mettersi per andare dai suoi, il giorno di Natale - a
Denise piaceva tanto vedere i suoi figli vestiti a modo, per le occasioni
speciali. Guardò uno dei tanti grossi specchi appesi in giro, trovandosi in
viso una strana smorfia contratta: non sarebbe stato piacevole, quell'anno,
pranzare con la famiglia. Prevedeva un lungo, orribile, snervante faccia a
faccia che avrebbe fatto crescere il lui solo la voglia di tagliarsi le vene
col coltello da burro. Buttò la Ralph Lauren
blu scuro che aveva provato sul banco più vicino e fece per prenderne un'altra,
ma un certo qualcosa lo fece rimanere
bloccato con le dita a mezz'aria e i profondi occhi color mogano spalancati,
vacuamente fissi sul muro che gli stava di fronte.
Vide la
polo nera che qualche diligente ragazzina in sottoveste natalizia aveva
ripiegato e sistemato col cartellino in bella mostra. La vide rovesciata,
malamente arruffata sul pavimento della sua camera - faceva contrasto con la
pallida fantasia grigia dell'intimo Calvin
Klein che vi era stato malamente lanciato sopra -, ma in realtà non era
un'immagine così nitida: c'erano macchie confuse, lenzuola scomposte e
appiccicate malamente alla sua schiena sudata. Delle mani forti, bollenti, lo afferravano per la nuca e
lo spingevano verso l'alto e a quel punto i suoi occhi si perdevano in un mare
d'ambra e capelli scuri e barba leggermente sfatta. Affogava, al ritmo
sussultorio e irregolare di un fiato caldo contro il collo, le labbra umide e
un lungo brivido di piacere gli saliva dal basso, lungo la spina dorsale
leggermente inarcata e su, fino al cervello.
Quando
tornò alla realtà - una pila di appendini vuoti era
crollata al suolo con un orrendo rumore di plastica e metallo schiacciato - una
lacrima fredda si era fatta strada sino all'angolo della sua bocca.
And the tears come
streaming down your face,
when you lose something you can't replace.
When you love someone but it goes to
waste
could it be worse?
Si
asciugò velocemente, augurandosi che nessuno lo avesse visto. Sembrava comunque
che nel negozio ci fossero soltanto la ragazza di poco prima ed un adolescente
brufoloso intento a provare un paio di jeans col cavallo più basso possibile.
Afferrò la polo - sapeva perfettamente
quale era la taglia adatta - e si precipitò a pagarla, insieme con la sua
cravatta rossa che forse, in fondo, avrebbe indossato volentieri.
Un momento dopo se ne stava buttato su una banchina al bordo del marciapiede
con la maglia fra le mani e si dava mentalmente del coglione. Perché l'aveva
comprata e perché sapeva benissimo di non averlo fatto per sé stesso, che
l'avrebbe impacchettata con la sua carta più bella e riposta sotto l'abete che
avevano scelto insieme. Poi avrebbe passato l'intero periodo delle feste a
guardare quel regalo così ostinatamente chiuso e sperare l'impossibile. La rificcò sul fondo dell'elegante busta di carta,
mentre il nodo che aveva in gola tornava a stringere dolorosamente e si alzò per
tornare all'automobile.
Prese a
scivolare velocemente fra i passanti, schivando borsette e piccoli cani al
guinzaglio o bambini che camminavano distrattamente accanto ai genitori, fino
al punto in cui si ritrovò a correre davanti ai negozi senza nemmeno vederli.
Si fermò da Starbucks
e continuò a battere nervosamente i piedi sul pavimento piastrellato, per tutto
il tempo che gli ci volle a fare la fila, ordinare e lasciare sul bancone una
manciata di monetine già contate: riprese a respirare regolarmente soltanto
quando si fu chiuso la solida portiera della Mustang alle spalle. Guardò i due
sacchetti malamente poggiati sul sedile del passeggero e scoppiò in un pianto
sconsolatamente liberatorio, picchiando con rabbia i palmi aperti sul volante.
- Merda. - Decisamente mantenere i buoni
propositi gli riusciva molto meglio quando aveva sei anni.
Allora
si trattava semplicemente di non svuotare il barattolo dei cookies di sua madre, o
rinunciare a sbagliare apposta gli esercizi di solfeggio per far arrabbiare
l'insegnante di pianoforte. Non c'era nessuno straziante senso di vuoto, né
l'orribile sensazione di aver perso ogni cosa.
Sentì
un singhiozzo più forte degli altri salire a scuotergli le spalle e si odiò,
perfino più di quanto non avesse fatto nelle ultime ore. Era sul serio finito a
piangere come una ragazzina, chiuso in macchina per non farsi vedere e con un
bicchiere di caffè caldo per alleviare, dopo.
Un cliché vivente, altro che telefilm.
Tutta
la sua vita si era trasformata in un grande stereotipo, a partire dal momento
in cui si era scoperto innamorato. Impantanato in una di quelle storie d'amore
che non lasciano scampo, danno tutto
e - allo stesso modo - tutto si portano via, quando qualcosa si rompe
inesorabilmente. E lui, quei ricordi, lo erano... ogni cosa. Tornavano a
fiotti, sempre nei momenti più inaspettati e di solito esattamente quando
credeva di averli rinchiusi per sempre in un angolo buio e inesplorato del suo
cervello. Tu pensi troppo, Nicholas.
Cazzo, se avevano ragione a ripeterlo e ripeterlo e ripeterlo. Si passò i palmi
ghiacciati sugli occhi, cercando di tamponare la pelle già gonfia e arrossata e
più giù, sulle guancie mentre il respiro gli si attorcigliava in gola ancora
spezzato e convulso. Doveva calmarsi e smettere, smettere una buona fottuta
volta di pensare a quanto immensa era la voragine che quel bastardo - meraviglioso bastardo - gli aveva
lasciato dentro. Prese un sorso di caffè bollente e ripose il bicchiere nel suo
supporto accanto al sedile. Poi girò la chiave e il motore emise un lungo
ruggito sordo, mentre il cuore gli batteva furiosamente nel petto sino a fargli
male.
Nonostante
avesse scelto di prendere la strada costiera - Dio solo sapeva quanto
liberatorio poteva essere correre sul bordo roccioso dell'oceano, col
finestrino abbassato nonostante l'aria pizzicante e l'odore di acqua e di cielo
a riempire i polmoni -, leggermente più lunga rispetto a quella del centro,
parcheggiò davanti al vialetto di casa sua dopo appena un quarto d'ora.
I
sacchetti ciondolavano lentamente contro il suo ginocchio ed i pensieri si
erano incastrati da qualche parte tra l'idea di telefonare a Kevin per quella
faccenda degli orecchini ed un paio di versi che sarebbero stati benissimo in
qualche nuova canzone, per questo gli ci volle tutto un intero minuto ad
accorgersi dell'ombra appoggiata contro lo stipite della sua porta: le braccia incrociate al petto muscoloso e leggermente
contratto sotto la t-shirt scura, un giubbotto di pelle del tutto uguale a
quello che indossava lui. E quella catenina sottile attorno al collo, jeans, sneakers alte...
rigorosamente Nike. Lo
scannerizzò dalla punta dei capelli alla pianta dei piedi. Portava
quell'inconfondibile cappellino nero, Wayfarer ed un sorrisino fin troppo convinto sulle labbra
perfette. Nick sgranò gli occhi, mentre il doppio espresso di Starbucks inzuppava le sue scarpe ed il bicchiere di carta
rotolava via.
- Joseph. - Gli sfuggì, come un sussurro.
High up above or down
below,
when you're too in love to let it go.
But If you never try, you'll never
know
just what you're worth.
- Ciao, Nicholas. Ti trovo veramente... male. - Aggrottò le sopracciglia. -
Allora mamma diceva la verità: sembra che ti sia passato addosso un camion. Due
o tre volte di fila. -
- Non prendermi per il culo. - Sibilò.
Ficcò la chiave nella toppa senza troppe
cerimonie, con rabbia. E si graffiò le dita. Non voleva neppure guardarlo, non
più di quanto avesse già fatto in quei pochi istanti che gli erano bastati ad
imprimersi nella testa ogni singolo dettaglio di lui. Il colore caldo degli occhi, sempre più ambrato e
la forma delle labbra e della mandibola appena spolverata di barba e i nei
scuri sempre allo stesso posto lungo la linea del collo e l'incredibile voglia
che già era scoppiata di mettergli le mani addosso.
E tutte quelle belle cose a cui non avrebbe più - nel senso cristallino di mai più - dovuto pensare. Scattò in
avanti e quando Joe si mise in mezzo per ostacolargli il passaggio, gli si
buttò praticamente contro per poter entrare in casa.
- Sei ancora qui? - Ringhiò. Avrebbe voluto
chiudergli la porta in faccia, ma l'altro teneva saldamente un piede fra quella
e lo stipite laccato.
- Aspettavo che mi invitassi ad entrare. - I
Ray-Ban scuri finirono inghiottiti fin troppo in fretta dalla tasca interna
della giacca.
- Non credo di volerlo fare. - E tantomeno di
cederti così facilmente, rifletté.
- Io penso di sì, invece. -
Lottarono per qualche secondo, poi Nick finì per
cedere e la porta si spalancò di schianto. Boccheggiò, mentre suo fratello la
richiudeva con cura e si assicurava di dare almeno una mandata alla serratura:
Joseph era di nuovo lì, imponente, nella sua casa e nella sua vita. Lo piantò nell'ingresso, come se
potesse veramente seminarlo - per magia - e si trascinò fino al salotto dove
crollò sul divano con le buste ancora strette in mano e il bomber umido
addosso. Doveva rimettere ordine nelle sue priorità sconvolte: Joe non poteva
essere in cima alla lista, non di nuovo... Forse il suo culo dannatamente
perfetto dentro quei levi's
scoloriti sì, ma Joe - in quel certo modo - proprio no. Si diede mentalmente dello stupido e buttò la testa
all'indietro, sullo schienale morbido. Smettila,
Nicholas, adesso.
- Mi sono comportato da coglione, ok? - Come?
Cosa...? Spalancò gli occhi di colpo
e lo vide in piedi dietro la spalliera, leggermente chinato su di lui con le
mani affondate nel cuscino.
- Se vuoi farti dare ragione, sei sulla
strada giusta..! - Mormorò, sconvolto.
- Qualche volta me ne rendo conto anch'io, se
una cazzata è una cazzata. - Si inumidì le labbra. Il beanie di lana e la giacca erano
stati lanciati in qualche modo sulla poltrona. - E questa volta ho decisamente
peccato di vigliaccheria. -
- Che. Stai. Dicendo. - Voleva strangolarlo. Violentemente. E forse voleva anche baciarlo.
- Che non ho avuto le palle! - Sbottò. -
Credevo che fottermene di tutto e tutti,
tenermi dentro il mio segreto e andare ad ubriacarmi la notte con gli amici,
dopo essere finito al pronto soccorso con lo stomaco spaccato fosse roba da duri. Invece non sono altro che
un'immensa testa di cazzo, Nicky. E tu avevi ragione. Ragione su ogni cosa. -
- Credi che sia così semplice? - Si raddrizzò
e puntò gli occhi fiammeggianti dritto in quelli del fratello. - Mi hai preso
in giro, Joe. Hai riso di me e mi hai praticamente dato della checca isterica, quando mi sono
scaraventato al Children Hospital alle tre del
mattino... per te ed i tuoi stupidi dolori. Ero fottutamente preoccupato che il
mio rag- fratello
potesse avere un buco grande quanto un quarto di dollaro nello stomaco |si chiama ulcera,
sai|
o chissà che altro. E tu mi sei scoppiato a ridere in faccia. -
- Lo so. Hai ragione. - Nick era in piedi ora, si fronteggiavano. - L'unica
checca sono io. Io ho avuto paura di
dirlo a Kev, mamma e... soprattutto a papà. Io ho mandato tutto a puttane. -
- Riconoscere di
avere un problema è il primo passo per risolverlo- -
- Io voglio tornare con te. - Ammutolirono
entrambi. Nicholas perché quelle parole gli erano piovute addosso come grandine
d'estate. Inaspettate e violente. Joseph perché non sapeva quale reazione si
sarebbe scatenata in lui ed aveva il terrore di avere ancora ed una volta di
più, sbagliato tutto.
- ... Scusami?
- Strinse i denti. Il suo sguardo era tagliente.
- Voglio dire a tutti la verità. Non mi
importa di quale sarà la loro reazione, se ci accetteranno o meno...! Voglio te, Nick. Tu e basta: il resto
non conta un benedetto cazzo di niente. E se dovremo andarcene, io verrò
ovunque. - Piegò le labbra in una smorfia sbieca. E Nick sapeva bene perché: si
era sentito parlare come in una commedia americana di quelle sciocche e prive
di trama, che finiscono sempre ostentatamente bene. E lui detestava quel tipo di romanticismo stereotipato e
senz'anima.
- Non lo so, se ti credo. Tu fai sempre così. -
Era sempre stato capace di muoversi così,
veloce come una raffica di vento ed altrettanto impetuosamente. Non potevi prevedere né anticiparlo, era sempre,
già troppo tardi. Lo stava baciando.
Joe si era letteralmente buttato in avanti, contro il divano. Allungando le
braccia, aveva lasciato scivolare le dita tra i ricci ancora un po' troppo
corti e premeva le labbra sulle sue con dolce decisione. Rabbrividì e per una frazione
di secondo ebbe l'impulso residuo di tirarsi indietro, ma la mano di suo
fratello era saldamente premuta dietro il suo orecchio e lo tratteneva
esattamente dove stava. Già completamente drogato di quel sapore - come se non
avesse mai smesso di mischiarlo al suo -, s'arrese e lo ricambiò fino in fondo. Strizzò il collo a V della
t-shirt di lui fin quasi a strappargliela di dosso e continuò a cercare la sua
bocca, passandoci la lingua e mordendogli piano il labbro inferiore. Le sue
ginocchia erano tese allo spasmo e puntellate contro il divano per permettergli
di spingersi di più su Joseph, se l'avesse lasciato andare, probabilmente il
rinculo l'avrebbe fatto finire lungo e disteso sul tappeto. In mezzo ai fottuti
regali.
- Tu, invece, così non l'hai mai fatto...! -
Ansimò l'altro. - Che cazzo...! Se
volevi convincermi a farlo direttamente contro il muro del tuo soggiorno, ci
sei riuscito. -
- Come
sei romantico...! - Biascicò, il
respiro ancora irregolare e le labbra arrossate.
Joe scoppiò a ridere e un momento dopo, aveva
già scavalcato il dannato sofà e gli si era praticamente sdraiato addosso.
Lasciò scivolare la mano sul suo petto ed arrivò con velocità più che
sorprendente alla cintura dei jeans slavati e senza marca. Fece appello a tutta
la sua residua forza di volontà, al buon senso, ai freni inibitori - che non
fossero già andati a farsi letteralmente fottere - ai santi e alle Madonne tutte. A qualsiasi cosa potesse impedirgli
di lasciarsi calare i pantaloni ed abbandonarsi lascivamente a qualsiasi cosa
suo fratello volesse fargli. L'afferrò saldamente per il polso e lo trattenne
con fermezza.
- Aspetta. -
- Cosa...? - Replicò Joseph, piuttosto
seccato. Odiava venire interrotto.
- Prima che tu mi infili le mani nei
pantaloni, voglio essere sicuro che sei seriamente convinto di quello che hai
detto...! - Non staccò gli occhi dai suoi per un solo secondo.
- Oh, porca
troia, Nicholas. Io ti amo, capito? Ti
amo. - Piegò le labbra in uno di quei suoi sorrisi sghembi e maledettamente
stupendi. Poi si abbassò sino a lasciare fra di loro giusto lo spazio d'un
respiro. - Sono venuto qui in ginocchio sui ceci, per implorarti di perdonarmi
e riprendermi nella tua dannata, paranoica vita. Quindi smettila di farti tutte
queste seghe mentali e passiamo a
qualcosa di un po' più... concreto, mh? -
Nel petto di Nick si smarrì un battito. O
forse erano tre, dieci, cento mentre
Joe tornava a baciarlo sulle labbra e poi giù lungo la mandibola e sul collo,
sino a strappare anche l'ultimo brandello di fiato rimastogli in corpo.
Sorrise, ansimando leggermente: se non altro, i fianchi snelli e muscolosi che
spingevano, si muovevano contro ai suoi ed il rumore ruvido, sensuale dei jeans
che sfregavano fra loro - impietosi - provocavano un bellissimo senso di deja-vù.
Il cuore decise di volergli esplodere dentro,
proprio in quel momento.
•••
Cercò di
rigirarsi - in qualche modo - sul cuscino, ma il peso caldo del corpo di suo fratello lo teneva inchiodato in quella posizione raggomitolata. Gli accarezzò la schiena nuda, inspirò
profondamente l'odore familiare della sua pelle e lo sentì borbottare qualcosa
nel sonno. Ridacchiò silenziosamente, poi si allungò a cercare i jeans finiti
chissà dove sul pavimento, nella luce bianca ed intermittente della catena
avvolta al cornicione. Improvvisamente, gli piaceva.
E l'albero. E tutto il resto. Trovò l'i-phone proprio
nel momento in cui quello prese a vibrare, sbloccò la chiamata e se lo porto
all'orecchio.
- Dille che metterai la cravatta. - Sogghignò Joe contro il suo collo. - Sei sexy, con la cravatta...! -
- Sì, mamma.
- Sorrise, tanto che sentì le guancie dolere e gli passò le dita sui capelli a spazzola, dietro la nuca. - Saremo
a casa per Natale. -
Lights will guide you
home
and ignite your bones...
And I will try to Fix You.
{Fix You - Coldplay}