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Autore: nini superga    22/12/2011    0 recensioni
piccola chicca scritta per l'accademia, corso pedagogia. dovevo fare qualcosa per i bambini, invece ne è uscita una cosa per adulti...eheheheheh! E' spudoratamente ispirata al libro e al film, eppure avrei piacere a sentire cosa ne pensiate voi, o stimati lettori.
recensite, grazie!
sempre vostra, Nini.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il punto luce.

 

Quando la mamma decise che fosse il mio momento, mi trovò un posto come cameriera. Era una famiglia benestante, mi disse, cattolica, che viveva nella parte nobile della mia città.  Sarei stata lontana da casa, eppure non mi dispiacque andarmene: finalmente vedevo il mondo, anche se il mondo che avrei conosciuto si trovava solo dalla parte opposta della mia città. Sempre meglio di niente, mi dicevo io, una donna quasi, sedici anni fatti. E avevo ragione.

I padroni erano buoni con me, e anche il resto della servitù non era male. Vivevo giornate lunghe e faticose, in cui lavavo i panni e spazzavo i pavimenti, davo una mano a Griet a cucinare e controllavo che la piccola di casa non si rovinasse le vesti nei giochi di cortile. Era una vita semplice, quella, come d’altro canto sarebbe stata il resto della mia vita- ma era questo, ciò che desideravo?

Tanto la padrona era severa e cialtrona, alla ricerca di difetti di cui lamentarsi, tanto il padrone era taciturno e moderato. Se ne stava tutto il girono rinchiuso nelle stanze del terzo piano, la zona più luminosa della casa, e si dedicava ogni giorno e per molte ora al suo lavoro. Scendeva a pranzo e a cena, e solo raramente lo si vedeva bighellonare per casa. Quando capitava, il signore aveva un’aria sognante, e malinconica, come se fosse alla perenne ricerca di qualcosa.

Forse, quel qualcosa lo trovò in me. << Vorrei che tu posassi per me. >> Mi disse, sorprendendomi: posare… per lui? io, che ero una cameriera, una serva  << Tu. >> Ribadì. E non aggiunse altro. Un tono che non prevedeva rifiuti.

 

Il suo studio era luminoso e si affacciava sui comignoli di Anversa.

<< E’ bello. >> Dissi, avvicinandomi al vetro.

<< E’ luminoso. >> Precisò lui, avvicinatosi a sua volta. Lo guardai di sfuggita, e capii che il mio padrone era bello, con quella mascella squadrata, il naso dritto, gli occhi piccoli, i capelli scarmigliati…ma la fronte alta, quella, era la mia preferita. Vidi i suoi occhi muoversi, e distolsi lo sguardo. << Voglio che tu ti tolga la cuffia. >> Ordinò, allontanandosi. Mi gettò due pezze di tela. << Copriti i capelli con questi. >>

Li, davanti alla finestra, tolsi la cuffia da lavoro con cui coprivo ogni giorno i miei capelli. Nel debole riflesso, vidi una cascata di fluido biondo scivolarmi sul colletto alto e sulla giubba da lavoro, procurandomi uno strano solletico al collo. Mentre mi avvolgevo la testa in un turbante fluente con i due pezzi di stoffa oro e blu, percepivo i suoi occhi su ogni mio movimento, quasi volessero trafiggermi come dardi. << Lascia fuori le orecchie. >> Intimò lui a turbante terminato, e sentii i suoi passi attraversare la stanza. Mi accarezzò il lobo, strofinandole dolcemente fra le dita. << Non posso dipingere quello che non c’è. >> Disse, e mi lasciò sola nello studio.

Tornò poco dopo, una candela in una mano, un lungo ago e un piccolo sacchettino nell’altra. << Non posso dipingere quello che non c’è. >> Ripeté. Lo guardavo, smarrita. << Il viso ha bisogno di un punto luce. >> Spiegò allora, spazientito. << E io ho bisogno che tu ti sieda qui. >> Rimasi ancorata alla finestra: perché tanta paura?  << Vieni. >>  Disse di nuovo, e il suo tono fu più gentile, quasi intimo.

Andai a sedermi accanto a lui, tremante. Lasciai che il mio padrone mi bucasse il lobo, lasciai che mi succhiasse il sangue da esso, lasciai che mi accarezzasse il mento e il labbro ma, quando mi voltai verso di lui per dargli ben altro, lo trovai smarrito. Era quello il riflesso del mio viso? Gli abbassai la mano sporca di blu oltremare, e presi dalle mani di Jan Vermeer l’orecchino di perla che mi porgeva.

Lo infilai nel lobo ancora gonfio e sanguinante e annuii, tirando su col naso. << Avanti, cominciamo. >>

  
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