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Autore: voiceOFsoul    22/12/2011    1 recensioni
Bree, a causa di un incidente, ha perso momentaneamente la memoria. Dovrà ricostruire quello che le è successo in questi tre mesi "di buio" aiutata da qualsiasi cosa riesca a sollecitare in lei un ricordo, un "fulmine" come li definisce lei.
Cosa sarà successo e cosa succederà ancora?
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Passi corti e lenti. Cammino osservando intorno a me questa strana sensazione di pace e nostalgia. Una leggera brezza mi accarezza il viso e solletica le fronde degli alberi che costeggiano il viottolo. Guardo in silenzio le lapidi che mi scorrono accanto, quasi tutte appartenenti a persone che sono state strappate alla vita troppo presto. La foto di un bambino sorridente mi costringe a fermarmi per osservarla. Aveva solo quattro anni. Mi si stringere un nodo in gola. Sotto la foto la solita frase incisa 'Dio aveva bisogno di un angelo'. Cazzate. Dio di angeli ne ha a miliardi e non c'entra niente con la sventurata morte di una povera creatura. Come può una frase del genere consolare una madre? Una lacrima mi riga il volto mentre riprendo a camminare continuando ad osservare quelle fredde lastre addobbate di fiori. Qualche lapide è un po' più vecchia e meno curata delle altre. Madri, padri, figli, zii, nonni. Tutte queste persone che ora riposano beatamente sottoterra sono state almeno una di queste cose e avranno lasciato chissà quanti vuoti nel cuore e nella vita di chi è rimasto.
Raggiungo la cappella che mi ha indicato mio padre.
- Non puoi sbagliarti. - Mi ha detto. - L'unica con le pareti di vetro è quella della famiglia della madre di Daniel. -
In effetti è l'unica ad essere così discretamente particolare nella sua semplice eleganza. Resto ad osservarla senza il coraggio di entrare. Si distinguono chiaramente le quattro nicchie laterali, due delle quali sono purtroppo già occupate. Al centro del pavimeno di marmo bianco, una lapide di vetro sovrasta un rettangolo di cemento fresco. Non riesco a leggere il nome scritto a lettere dorate nè a distinguere il viso raffigurato nella foto, ma in cuore mio sono già sicura che quella sia la tomba di Daniel. La piccola cappella non è vuota. Una donna è seduta sul pavimento ed accarezza il vetro della lapide. Un uomo sistema dei fiori rossi, viola e bianchi in un vaso per poi poggiarlo davanti alla lapide ed andare ad abbracciare la donna. Devono essere i genitori di Daniel. O meglio, sua madre e l'uomo che gli ha fatto da padre.
Mi asciugo il viso, respiro profondamente facendomi coraggio ed oltrepasso la soglia. I miei passi fanno sussultare la coppia che si volta a guardarmi in lacrime.
- Salve. - L'unica cosa che riesco a dire.
Mi avvicino alla lapide anch'io e mi accovaccio per vedere meglio. La scritta dorata urla il suo nome: Daniel Ricceri. Fisso nella foto i suoi stupendi occhi color ghiaccio. Li accarezzo chiudendo i miei e ritornando con la mente al giorno in cui ci siamo conosciuti. Un sorriso mi affiora sulle labbra, ma presto inizia a tremare. Non riesco a frenare le lacrime, nè i singhiozzi, nè le mani che tremano. Sento due mani calde afferrare le mie e qualcuno accarezzarmi la testa.
- Eri sua amica? - Mi chiede una voce calda e dolce.
- Una specie. - Mi alzo in piedi e cerco di ricompormi. Come posso piangere in questo modo davanti ai suoi genitori che stanno provando almeno il triplo del mio dolore?
Guardo sua madre. Moira dovrebbe chiamarsi, no? Papà aveva ragione. Ha gli stessi occhi di Daniel. I suoi capelli sono rosso rame. Ha la pelle chiara che non dimostra gli anni che possiede. Suo marito è alto, coi capelli brizzolati e profondi occhi neri. Assomiglierebbe quasi a mio padre se non fosse molto più alto di lui e il suo viso non fosse così magro. Entrambi mi guardano sorridendo, ma con occhi arrossati e pieni di dolore.
- Non lo conoscevo da molto in realtà, però eravamo comunque molto legati. - Non mi viene in mente altro modo per scusare il mio essere qui oggi.
- Daniel è un bravo ragazzo. - Sua madre parla come se in realtà non capisse dove si trova. La sua voce è flebile e distratta. - Non doveva andarci a quella festa. Doveva studiare per gli esami della patente. - La voce le si spezza in gola.
Guardo suo marito abbracciarla e capisco quanto sia sbagliata la mia presenza. - Scusate. Non avrei dovuto venire qui. Non avrei dovuto disturbarvi. Scusatemi ancora. - Mi avvio all'uscita.
- Non hai sbagliato a venire qui. - Le parole del marito di Moira mi bloccano. - Noi siamo contenti quando altri lo vengono a trovare. Ci ricorda quanto di buono ha lasciato nelle persone. Anche in chi lo conosceva da poco come te. - La pacatezza nella sua voce mi stupisce.
Mi avvicino a lui senza pronunciare una parola.
- E' stata una maledettissima disgrazia e non è colpa di nessuno. - Le sue parole mi trafiggono nel profondo e risvegliano tutti i miei sensi di colpa. Colpa per essere la sorellastra di suo figlio senza che lui ne sappia nulla. Colpa di essere stata al volante della macchina contro cui suo figlio è andato a schianatrsi. Colpa di averlo respinto per uno stronzo che ha messo incinta la sua collega coscialunga.
- Come ti chiami? -
Questa domanda mi spiazza. E se il mio nome rivelasse loro chi sono? Se sapessero che ho avuto la mia parte nell'incidente? Se Moira capisse che sono la figlia del vero padre di Daniel? Cerco di scegliere in fretta cosa fare, ma infine rischio. - Brigida, ma tutti mi chiamano... -
- Bree. - Moira completa la frase al mio posto. Si volta a guardarmi. - Giusto? -
- Sì, signora. - Il cuore inizia a battermi più forte. Ho paura. Non so di cosa, ma ho paura.
Moira si alza in piedi spolverandosi i pantaloni con le mani. Prende il braccio di suo marito. - Amore, andresti a prendere la macchina? Avvicinala qui alla cappella. Non me la sento di camminare. -
- Vuoi andare a casa? -
- Sì, non mi sento molto bene. -
Suo marito annuisce. Viene a stringermi la mano sorridendo. - E' stato un piacere conoscerti. Puoi venire qui quando vuoi. Gli amici di Daniel sono sempre i benvenuti. -
- Ancora condoglianze signore. -
Mi lascia la mano, infila gli occhiali scuri e va via.
- Vado anch'io, dato che state andando via. -
- No. - Mi afferra il braccio prima di poter fare un passo. - Resta a farmi compagnia finché Filippo non torna. -
- Certo. - Le sorrido imbarazzata.
- So chi sei, Bree. -
L'imbarazzo si ritrasforma in paura. - Cosa intende? -
- So di chi sei figlia, Bree. Anche a quei tempi tuo padre ti chiamava così. -
Abbasso gli occhi a fissare la punta sporca delle converse nere. - Capisco. -
- Bree. - Mi alza il mento poggiandoci sotto due dita. - Non è un rimprovero. Da quando lo sapevi? -
- Ho conosciuto Daniel quasi un mese fa ormai. Il giorno... il giorno dell'incidente. - La voce mi si interrompe per un attimo. - Ma ho saputo solo oggi quello che gli era successo e che... che era... -
- Tuo fratello. -
- Già. -
- Mi dispiace che tuo padre non te l'abbia mai detto. Avreste potuto diventare ottimi amici. -
Mi sorge spontaneo un sorriso pensando a come Daniel ci abbia provato dal momento in cui ci siamo incontrati la prima volta. - Credo di sì. -
- Come ha detto mio marito, gli amici di Daniel possono venire a trovarlo quando vogliono. Tu, ovviamente, potrai fare altrettanto se vorrai, dato che il vostro legame era molto più stretto. Anche se nessuno dei due lo sapeva. -
Sento di doverglielo dire. So che sbaglio, ma devo farlo. - Signora io devo dirle una cosa che non credo che lei sappia. -
- Cosa devi dirmi? -
- Quella sera, la sera dell'incidente, io.. beh io... -
- Cosa Bree? -
- Io... - Fisso i suoi occhi ghiaccio, così incredibilmente simili agli occhi di Daniel. Non riesco a sostenerne lo sguardo. - ...io guidavo l'altra macchina. -
- Tu? -
- Sì. -
La vedo impallidire ancor più di quanto non sia naturalmente pallida. I suoi occhi si riempiono di nuovo di lacrime. Inizio a balbettare milioni di scuse mentre le mie gambe cedono e mi ritrovo in ginocchio abbracciata alle sue gambe. Lei è rigida, immobile. La sento respirare profondamente e poi venir giù in ginocchio anche lei. Mi afferra il viso. Il suo è ormai totalemente bagnato di lacrime, ma ornato di un bellissimo sorriso. Un triste sorriso.
- Non è colpa tua. - Scandisce le parole quasi fossero la benedizione di un prete. Poi si alza ed esce dalla cappella.
Non trovo ancora la forza di alzarmi, perciò mi volto restando a terra.
- Vai pure via senza preoccuparti di chiudere. Ci penserà il custode. - Mi dice dalla soglia della cappella. Poi esce e sale in macchina.
- Siamo soli adesso, eh? - Mi rivolgo alla lapide. Mi avvicino, abbracciandola. Quasi questo abbraccio potesse ripagarmi dei diciottanni persi non sapendo di avere un fratello che girava in città. Quasi potesse confortarmi.

Non so quanto tempo sia passato. Sono ancora qui, abbracciata alla lapide di mio fratello a parlargli come se potesse sentirmi, come se potesse rispondermi, come se fosse qui. Dalle pareti di vetro la luce del sole è diventata già rossa, sintomo che il tempo di andare è proprio arrivato. Mi alzo da terra. - Allora, che dirti? Ciao fratellino. - Mi bacio la mano e la poggio sul vetro che fino a qualche attimo fa abbracciavo. Quasi stessi baciando lui, fraternamente.
Esco dalla cappella con un senso di pace e di serenità che mi riempie. Mi volto ancora a guardare quella piccola cappella in cui ho passato chissà quanto tempo. Riprendo il sentiero che mi porterà all'uscita dell'enorme e silenzioso cimitero. Assaporo ancora un po' questa strana sensazione che non sa più di tristezza. Respiro il profumo dei gelsomini che adesso si fa sentire più forte. Osservo tutto dipingersi del rosso del tramonto. Oltrepasso il cancello. In mezzo alla piccola folla che insieme a me esce dal cancello distinguo che in strada c'è qualcuno che aspetta. Qualcuno con in mazzo un enorme mazzo di fiori che non è destinato ad ornare una tomba. Qualcuno che non avrebbe dovuto essere qui.
- Ciao Bree. - Mi dice portandomisi davanti a fermare i miei passi.
- Steve che diavolo ci fai qui? -
   
 
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