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Autore: Lupus    23/12/2011    3 recensioni
Nessuno a Natale vorrebbe andare con una puttana, come nessuna puttana a Natale vorrebbe battere la strada. Ma la gente questo non lo capisce.
“E cosa guardi nel cielo, stronzetto?”
“La notte”
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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AVVERTENZA: Nella storia, per questioni di ambientanzione e verosimiglianza, è stato fatto un largo uso di linguaggio colorito. Espressioni gergali e trivialtà sono presenti nei dialoghi, per ovvi motivi. Chiedo scusa in anticipo a chi li riterrà di cattivo gusto, ma è stato inevitabile.
Grazie per l'attenzione e vi auguro una buona lettura.






Ciao a tutti, mi chiamo Cristina e di mestiere faccio la puttana. Rido, mentre penso alle parole che potrei usare, se un giorno scrivessi un libro sulla mia vita. Rido, perché immagino la gente, chiusa nelle loro pellicce di soldi, scandalizzarsi, in libreria, per il mio libro. Basterebbe il loro disgusto a regalarmi un po’ di felicità.
È Natale, a Torino. È Natale, come anche nel resto del mondo. La gente si affaccenda lungo via Po in cerca degli ultimi regali da comprare e sbattere in faccia ad amici e parenti, dimenticando, almeno per una notte, l’insoddisfazione per la vita che conducono.
Si gela, ma non mi scompongo. Indosso una mini corta quanto la mantovana della tenda che la mia povera nonna aveva in casa, prima di passare a miglior vita, mentre i capezzoli, inturgiditi dal freddo, mostrano con poco candore i piercing che ho fatto all’età di diciassette anni. Il top intrappola il seno in una morsa dalla quale ne esce sconfitto e sgonfio, mentre la faccia butterata mi ricopre di un pudore che in realtà non ho mai avuto. Neanche da bambina.
Prendo il bus a Sant’Ottavio. Il 15, che mi porta fino a piazza Vittorio Veneto – praticamente due passi, a piedi, ma sono troppo infreddolita per percorrerli. Da lì, poi, scendo le scale dei Murazzi, aspettando che cada la notte.
Certa gente si scandalizzerebbe a sapere quante persone, la notte di Natale, desiderano una puttana. Borghesi, come li definisce De André, in una canzone che una volta ascoltavo; borghesi che sentenziano sulla decadenza dei costumi contemporanei, perdendo qualsiasi buon proposito nella superficialità di una sterile analisi. Nessuno a Natale vorrebbe andare con una puttana, come nessuna puttana a Natale vorrebbe battere la strada. Ma la gente questo non lo capisce. Così è la vita.
Mentre aspetto che qualcuno venga a prendermi, mi accendo una sigaretta. Il fumo mi entra dritto nei polmoni. Vorrei che restasse lì, per sempre. Vorrei che trasformasse la mia vita in una nuvola di smog e la cancellasse via, una volta per tutte, senza tanti giri di parole, senza tante moine. Eccolo, però, che dispettoso mi costringe ad espirare, a gettarlo fuori, per sempre. Mentre si allontana, disperdendosi nel grigiore di Torino, lo sento ridere di me. Ride di me. Quel bastardo.
“Troia”
Qualcuno mi sta chiamando. Volto la testa, seccata e disgustata dalla fragilità degli uomini che hanno bisogno della violenza per nascondere la loro infinita debolezza.
“Cosa vuoi, stronzo?” rispondo, con eleganza, prima ancora che possa accorgermi di avere davanti agli occhi un ragazzino alto quanto la mia gonna, che mi sorride, imbarazzato.
“Quanto prendi?”
“Più di quanto tu ti possa permettere, ma sempre meno di quanto tuo padre ha dovuto dare a tua madre per metterla incinta di uno sputo di merda come te!”
Di solito non sono cattiva, non rispondo male, ma quel ragazzino che avrà avuto sì e no sedici anni, forse venti - mi ha infastidito, anche se non so ancora per quale motivo. Sarà il guizzo di curiosità che lampeggia nei suoi occhi, spenti dal freddo; sarà quell’aria di ridente maliziosità che riluceva dal suo viso. Mi sento inadeguata, di fronte a lui, che mi guarda, con la patta dei pantaloni visibilmente gonfia e un desiderio indistinto che serpeggia tra le cosce.
“Vaffanculo! Sei solo una puttana!”
Quel ragazzino ha ragione, ma questo non vuol dire che può trattarmi così.
“E tu sei uno stronzetto che ha bisogno di offendere una puttana per sentirsi uomo”
Di solito non litigo con gli adolescenti, ma la situazione inizia a divertirmi. È una gioia perversa ed immatura, che sa di sconfitta. Se non avessi bisogno di soldi, continuerei anche per ore. Ma Pruritodipene deve andarsene, altrimenti rischio di rimanere a secco.
“Senti, smamma, io sto lavorando”
“E che fai di bello, di grazia?”
Pruritodipene mi sfida con lo sguardo. Gli occhi verdi continuano a percorrere il mio corpo dall’alto in basso, cercando un punto, un luogo, dove fermarsi e godere del paesaggio. Evidentemente, però, non riescono a trovare nulla. Ho perso la bellezza, per contratto. Oramai, piaccio solamente a chi non ha bisogno di guardarmi per avere un orgasmo. Eppure quel ragazzino sembra comunque interessato. Mi inquieta leggermente la sua sfacciataggine, forse perché non riesco a capirla.
“Mi prendi per il culo?”
“Sì, mi piacerebbe tanto. Quant’è?”
“Piccolo stronzo, se adesso non te ne vai immediatamente, giuro, ti getto nel fiume”
Le mie minacce hanno la consistenza delle bugie di Pinocchio. Non c’è neanche bisogno che mi cresca il naso, per capire che sto mentendo, dal momento che, nonostante l’età, io sono esile e magra come un palo di scopa. Non ho le forze per alzare un sassolino da terra, figuriamoci un adolescente.
Lui rimane in silenzio, chiuso nel suo falso candore. Sembra riflettere. Magari sta pregando. Sta chiedendo scusa ad un Dio qualsiasi dei pensieri impuri che ha avuto. Mi irrita questa dannata sacralità che satura l’aria, pesante come il pentimento. Mi irrita. Decido di interrompere qualsiasi cosa Pruritodipene stia facendo, con la mia solita eleganza.
“Mi dici che cazzo ci fai a quest’ora, qui? Non hai una famiglia? Dei regali di merda da scartare? Su, va via, torna a fingere di essere felice. Come tutti, in questa cazzo di città”.
Lui rimane in silenzio, ancora chiuso nel suo falso candore. Mi sorride. C’è qualcosa, in quel sorriso, che mi infastidisce perché non lo capisco, come la pioggia d’estate, come una scopata per soldi.
“Cosa guardi, stronzetto?”
“Il cielo”
“E cosa guardi nel cielo, stronzetto?”
“La notte”
La sua risposta mi lascia a bocca aperta. Per la prima volta nella mia vita non so come replicare, non riesco neanche ad immaginare che possa esistere una risposta ad una tale affermazione. Di solito la gente nel cielo osserva le stelle, la luna, gli aerei che passano paragonandoli ad entità aliene, perché ha bisogno della luce per vedere nel buio, senza aver paura. Ma quel ragazzo… quel ragazzo è diverso, è strano. Nel cielo osserva la notte. La notte, capite? Forse la sua vita è marcia, forse è disilluso e ha compreso che è inutile sperare in qualcos’altro.
Mi sento più vicina a lui di quanto possa immaginare. È strano ed ho paura. In questo momento vorrei abbracciarlo, vorrei piangere e poi prenderlo a calci nel culo. Sento il peso dei miei errori che grava sulla testa, la rende pesante. Vorrei staccarmela, la testa, dico, vorrei strapparmela dal collo e gettarla nel Po. Vorrei liberarmi da quest’ansia di sofferenza e tornare a vivere nella superficialità, perché è più facile, perché è ciò che più si avvicina alla felicità, ma sento il suo sguardo che mi accarezza. Questa volta delicatamente.
Nessuno mi ha mai guardata così. Nessuno mi ha mai guardata veramente. Sembra quasi che voglia ascoltare ciò che la mia pelle desidera sussurrare. Trema, anzi tremo, nel gelo della notte, che si infiltra nei vestiti laceri e scava nelle ossa. Tremo, per il calore che quello sguardo sembra comunicarmi. Magari è solo un’illusione, magari quel ragazzetto esiste solo nella mia immaginazione, magari sto semplicemente sognando. Sia anche così, penso allora vinta, sia anche così, ma lo sia per sempre.
“La gente non mi capisce” sussurra il ragazzo. Non capisco se si stia rivolgendo a me o se parli a se stesso.
La gente non capisce. Mai. Non è capace di conoscersi, figuriamoci se può comprendere gli altri. È una banalità, oramai. È scontato anche pensarla una cosa del genere, ma quella frase, quella banalità, detta così in questo momento, mi ferisce. Lentamente le lacrime scendono dagli occhi - non faccio in tempo a ricacciarle indietro. Piango, allora. Piango senza pudore, davanti a quel ragazzetto che puzza ancora di latte, ma che vuole essere grande. Piango come una stupida, senza riuscire a dire nulla.
Come si fa, mi chiedo? Come si può piangere per una banalità? Se non l’avessi provato sulla mia pelle, se non stessi piangendo in questo momento, non lo avrei mai creduto possibile. Eppure è successo. Una frase. Silenzio. E poi, b o o m, la vita esplode, assumendo forma di lacrime. Non ha senso, piangere. Non ha senso farlo così, farlo ora, per una stupidata, poi. Per una banalità. Ma sono le cose semplici, che fanno male. Sono le lame minuscole, schegge di vetro, che fanno male. E feriscono più di qualsiasi altra arma, perché ti uccidono, ma dentro. Fuori rimani intatto, tutto un pezzo, come se non fosse successo nulla. Testimone del dolore è però solo il tempo - ma a chi vuoi che lo racconti? E, soprattutto, chi vuoi che lo stia ad ascoltare?
“Piangi?”
Una domanda stupida, in un contesto ancora più idiota - è la vita, ripeto, che non ha senso. Ritrovo, tuttavia, la forza per sorridere. Mi asciugo le lacrime, mi stringo lo pseudopellicciotto che indosso alla cinta e inizio a fissare Pruritodipene negli occhi.
È bello.
Non capisco quanti anni abbia: forse sedici, forse venti. È basso, ma ha un fisico asciutto. I capelli castani litigano l’uno con l’altro, nella matassa di riccioli che corona il volto delicato e smunto. Le labbra, leggermente gonfie, sembrano disegnare un’ala di gabbiano, la speranza che ci sia ancora qualcosa di candido nel mondo. Ma, evidentemente, non è così.
“No, idiota, è il freddo” Sto sorridendo. Senza accorgermene, sorrido. Non so bene perché, ma lo faccio. È spontaneo. Alzo lo sguardo al cielo, verso la notte, nel pieno di un’estasi dalla quale – purtroppo, lo so – mi sveglierò presto. E starò peggio, una volta sveglia. Starò peggio perché ricorderò questo dannato sorriso, ricorderò come mi sento in questo momento e ne proverò rimorso, poi rabbia per essermi fatta fottere da una ragazzetto imberbe.
“È bella la notte” dico. “È bella la notte” ripeto. Lui capisce. Mi sorride. Si avvicina a me e, senza neanche sfiorarmi, mi fa segno di seguirlo. Andiamo verso il parco del Valentino. Mi sta affianco, vicinissimo eppure lontano. Insieme scompariamo, nella notte.
Nella notte, insieme ci uniamo.



*


È mattina. Suppongo già da un bel po’, oramai. È Natale, a Torino. È Natale, come anche nel resto del mondo. La strada piange, mentre la solitudine sfreccia incontrastata lungo le miriadi di traverse e incroci, che non si perdono mai. Torino è spenta, la mattina di Natale. È spenta, mentre la neve prepara la sua tomba. C’è bianco dovunque, sui tetti delle case, sopra le macchine, anche il letto del fiume sembra diverso. È come se il mondo sia appena stato purificato; come se qualcuno avesse passato la scopa per ripulirlo dalla polvere che lo soffocava – ma in realtà l’ha solo spostata, la polvere. L’ha solo spostata. Molto presto lo sporco tornerà ad imperversare.
Cammino sola, tornando dal Valentino. Mi dirigo verso quella che a volte chiamo ‘casa’, altre meno felicemente ‘ghetto’. È distante, vicino Porta Palazzo, ma non ho voglia di prendere il pullman. Ripenso alla sera precedente. Ripenso a quello che è successo e ancora non ci credo. Più che altro non so come sentirmi. Non so se devo stare male, non so se devo piangere o gioire. Forse, non devo fare assolutamente niente. Forse la vita non cambia, in una notte. Anche se è Natale, qui, a Torino e nel mondo.
Osservo, vuota, la strada che si apre di fronte a me. Sembra voglia suggerirmi il tono monotono dell’esistenza, sembra voglia dirmi che non succede mai nulla di nuovo, che in realtà ogni esperienza diversa, una volta vissuta, diventa vecchia e arida, perché viene spolpata del suo midollo.
Ripenso a quello che ho fatto. Ripenso a quello che è successo. Ho scopato con un ragazzino che, probabilmente, non aveva neanche la maggiore età, mi sono lasciata abbindolare da un’idiozia, come succede alla gente comune. Osservo la notte. Ma cosa cazzo significa, concretamente? Come si può davvero osservare la notte?
Ora me lo chiedo. Ora mi interrogo, maledicendomi per essere cascata, ancora una volta, nelle rete terribile della poesia. Qualcuno dice qualcosa di insensato, ma lo fa bene, calibra il tono di voce, facendo seguire una parola all’altra, interrompendo il silenzio nel momento più opportuno, ed ecco che la notte ti cattura, ti fa credere che ci sia qualcosa di bello nella vita – ti fa credere principalmente che ci sia qualcosa. Ma non è così. Dannazione, non è così. La mattina dopo ti risvegli, mezza nuda, con la dignità mescolata agli umori sotto i piedi, e una banconota da cinquanta euro – spilorcio, quel bastardo! – stretta nel reggiseno.
È in momenti come questo che speri di morire, nella notte. Perché forse solo nella notte hai realmente vissuto.
La neve continua a nascondere sotto sé il marcio che satura, di solito, le strade della città, del mio quartiere in particolare. Non ha nulla di poetico, la neve, perché come il Natale, come le stelle, come gli aerei e i dischi volanti si trascina dietro l’immagine sbiadita di un futuro migliore, un futuro che non esiste ora e che non esisterà mai. La neve è, allora, l’anticamera dell’infelicità. Perché alla fine finisce, perché alla fine torna la stessa merda di tutti i giorni. E domani non sarà più Natale, a Torino. Non sarà più Natale, come anche nel resto del mondo.
Stringo le cinquanta euro tra le mani. Forte. Rischio quasi di strapparle, quindi mollo subito la presa. La rabbia scema – e forse sorrido, stanca – nel leggere un piccolo messaggio, scritto al margine di quella banconota, che non avevo notato prima. Una scritta, tutta storta e quasi illeggibile che si staglia come uno scoglio nel mare, pace amara.
Nella notte ti ho amata.
È la più grande cazzata che un cliente mi abbia mai detto. Il regalo più idiota che abbia mai ricevuto, a Natale – forse anche l’unico, da quel che ricordo.




   
 
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