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Autore: Satomi    23/12/2011    2 recensioni
[Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - What if? -]
Una storia č un mazzo di carte, un susseguirsi di personaggi e situazioni: c’č chi osa, chi resta sul sicuro, chi si scopre all’ultimo, chi tende a restare nell’ombra.
Per cambiare una storia non serve stravolgerne l’inizio e la fine.
Basta rimescolare le carte in tavola.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. Chiarimenti

 


I primi raggi del sole provenienti dalla finestra aperta portarono con sé un refolo di vento caldo; ma le carte posate sulla pesante scrivania, tenute da un elegante fermacarte, non ne risentirono.
“Vostra Signoria?” La voce proveniente da dietro l’uscio spinse l’interpellato ad alzare il capo, fino a quel momento chino su un fascio di documenti. “Avanti” rispose, chiedendosi al contempo cosa fosse più irritante tra la burocrazia spagnuola e il soldato, sempre il medesimo, che si ostinava a chiamarlo da fuori anziché limitarsi a bussare.
Che indecenza.
“Signor governatore” salutò il nuovo arrivato. “La signorina è qui.”
“Non facciamola attendere allora.” Il soldato, dopo essersi ritirato, lasciò entrare una fanciulla di non più di sedici anni. “Sedete, signorina di Ventimiglia” l’invitò il governatore di Maracaibo porgendole una sedia. Lei accettò in silenzio, le labbra strette e gli occhi fermi sulle mani in grembo.
“Gradirei essere fissato in volto, quando parlo.” La ragazza tirò su il capo  con uno scatto di belva ferita; il suo sguardo era tagliente senza tuttavia apparire sfrontato.
“Spero che queste notti vi abbiano portato consiglio.”
“Più di quanto immaginiate, signor conte” rispose lei con voce pacata ma fredda. “Purtroppo per voi non faccio che giungere alle medesime conclusioni.”
“Ossia?”
“Voi, conte di Medina, siete nel torto e per ben due volte: mi trattenete qui senza alcun diritto, facendo leva sulla vostra carica e i vostri privilegi, inoltre v’ostinate a pretendere da me ciò che non vi spetta in alcun modo.”
Il governatore di Maracaibo arricciò, non visto, le labbra per l’irritazione, prima di porsi alle spalle della fanciulla. “Siete testarda, signorina” disse a denti stretti. “Credevo non gradiste essere... mia ospite.”
“Non se ciò accade contro la mia volontà.”
“Mi sembrava di avervi già spiegato quali sono le mie condizioni.” Con un movimento repentino il conte di Medina tornò alla scrivania, sfilando colla rapidità dovuta all’abitudine un solo foglio su cui erano già vergate alcune righe. “Tutto ciò che vi chiedo è una firma, signorina, una firma con cui rinunciate ai beni ereditari che pretendete di riscuotere, lasciando che a beneficiarne sia la città di Maracaibo.”
“O  voi, signor conte?” L’allusione fece arrossare il volto dell’uomo, un rossore che sapeva più di rabbia che di nobile orgoglio ferito. “Non abusate della mia pazienza, signorina di Ventimiglia” minacciò.
“E voi non insultate la mia intelligenza.” Era chiaro come anche la fanciulla fosse irritata, tuttavia seppe mascherarlo molto meglio del suo interlocutore, mostrando un’apparente calma e compostezza. “Io pretendo ciò che è mio e della mia famiglia. Per anni mia madre, duchessa di Wan Guld e ora contessa di Ventimiglia, ha reclamato i beni di suo padre in quanto unica erede, ma senza risultato; ricevendo per risposta scuse sempre più ridicole.”
“Vi sembra ridicolo che una città pretenda un cospicuo risarcimento pei danni che il vostro rispettabile padre ha inflitto a essa, diciott’anni orsono?” V’era una vena ironica non indifferente in quelle parole, e Jolanda non tardò ad accorgersene; tuttavia, se brillò per intuito, questa volta peccò in calma, punta com’era stata sul vivo. “Mio padre non ha mai riscosso una sola piastra dalle conquiste cui ha partecipato!” esclamò ferita.
“Piastre che hanno ingrossato le tasche dei suoi marinai.”
“Tutto questo non ha niente a che vedere coll’eredità di mio nonno!”
“Signorina, le vostre parole mi annoiano” replicò con tranquillità il conte di Medina. “È troppo chiedervi di abbassare la voce e comportarvi come si conviene a una pari vostro?” Jolanda, rossa in volto, strinse con forza le mani a pugno. “Non potete trattenermi qui in eterno” disse una volta riacquistata la calma.
“Se ciò si riterrà necessario sì. Ma confido sul vostro buonsenso.”
“Io invece ho smesso da tempo di confidare sul vostro senno.” La fanciulla sorrise appena. “Dio non voglia che un qualche cavaliere debba giungere fin sulla luna per recuperarvelo.”
Un pugno deciso s’abbatté sulla scrivania. “Vi burlate di me, signorina di Ventimiglia?” scattò il governatore di Maracaibo.
“No, signor conte, riportavo alla mente le mie letture. Avete mai udito a parlare di messer Ariosto?”
Prima che l’altro potesse rispondere un paio di colpi discreti risuonarono alla porta.
“Avanti.”
Il nuovo arrivato altri non era che il capitano Valera. “Nulla da fare, signor conte, non vuole...” prese a dire, ma un gesto frettoloso del governatore gli interruppe la frase sulle labbra. “Conducete la signorina nella sua stanza, poi ritornate da me.” Jolanda s’alzò lasciandosi condurre fuori senza protestare, il capo tenuto alto con dignità. “La tua ritrosia non è destinata a durare a lungo, ragazzina” pensò il conte prima di vederla dileguarsi in corridoio.

Le prime parole che Valera, tornato precipitosamente nella stanza, si udì rivolgere furono di secco rimprovero. “Preferirei non parlaste di tali faccende dinanzi alla ragazza. Non voglio che si metta strane idee in capo.”
“Non vi seguo, conte.”
“Maledizione, capitano, credete voi che l’improvvisa ricomparsa dei filibustieri qui a Maracaibo, dopo diciott’anni, sia casuale?”
Lo spagnuolo si carezzò la barba. “Che sappiano già ch’ella è qui?” domandò, quantunque dubbioso. “Mi sembra impossibile: l’intero equipaggio della nave su cui la ragazza s’era imbarcata è stato passato a fil di spada, dal primo all’ultimo uomo.”
“Ne siete certo?”
“Dubitate della mia fedeltà, conte?”
“Se vi è un uomo di cui mi possa davvero fidare siete voi, capitano Valera” replicò il governatore. “Altrimenti non vi avrei scelto come confidente; tuttavia non posso scartare nessuna ipotesi.”
“Ora che mi ci fate pensare, signore, la rotta di quel galeone era alquanto strana” rifletté l’ufficiale. “Più che pel Venezuela la sua rotta puntava alla Giamaica, o a Santo Domingo.”
“E perché non alla Tortue?” propose il conte di Medina.
“Che la figlia del Corsaro volesse chiedere protezione ai vecchi amici di suo padre?”
“Mi sembra più che plausibile. Quella ragazza non è una sciocca, dubito che sarebbe giunta qui pensando di contare solo sulle proprie forze.”
“E a chi avrebbe voluto chiedere aiuto?
“Lo domandate anche? A quella canaglia di Henry Morgan” rispose con stizza il governatore. “Sapete anche voi come quel devastatore, quel figlio di Satana sia stato un tempo il luogotenente del Corsaro Nero; chi meglio di lui avrebbe potuto raccogliere l’appello di Jolanda di Ventimiglia?”
“E voi dite che in qualche modo, a dispetto del nostro intervento, sia riuscito a sapere di lei?”
“Sì, capitano. Ma abbiamo bisogno di conferme, ed è qui che entra in scena il nostro prigioniero.” Il conte di Medina scosse il capo. “O così pensavo prima della vostra venuta.”
“Da quell’uomo non otterremo nulla, signore. Ho già avuto a che fare con gente della sua risma, da prima che arrivaste a Maracaibo: si farebbero tagliare pezzo per pezzo e non usa sola parola uscirebbe dalle loro labbra.”
“Tengono in così poco conto la vita?”
“Sì, perché sanno che in nessun caso uscirebbero vivi dalle nostre mani.”
“E cosa si fa, dunque?”
“Li si appicca e si offre lo spettacolo al popolo” fu la secca risposta di Valera. “Sono più utili come fantocci penzolanti che come fonte di informazioni.”
Il conte di Medina si prese il mento, coperto da una corta barba bionda, tra le dita. “Per questo avevo insistito affinché fossero catturati entrambi” disse poi. “Avremmo potuto servirci di uno per ricattare l’altro.”
“Dunque, signor conte? Do ordine ai soldati d’innalzare la forca in Plaza Mayor?”
“No, capitano. Può esserci ancora utile” rispose il conte di Medina. “Se non possiamo far leva sul suo cameratismo, spingeremo su altri sentimenti. Fate convocare don Turillo.”
“Quel vecchio pauroso d’un notaio?” fece lo spagnuolo, accompagnando le parole con una breve risata. “Ieri poco mancava che venisse meno dinanzi a noi; mi chiedo dove abbia trovato il coraggio di denunciare quei due.”
“Il desiderio di vendetta ha prevalso sulla paura. D’altronde anch’io, se mi venisse fatta saltare la casa, nutrirei ben più d’un risentimento verso i colpevoli.”
“Manderò dunque un paio di soldati presso la sua abitazione, sperando che non gli si fermi il cuore al solo vederli” concluse sprezzante il capitano Valera.
“Prendete le dovute precazioni. Ho intenzione di portare fino in fondo la mia idea.” Gli occhi del conte di Medina scintillavano di determinazione.
Gli occhi acuti d’un rapace, dai riflessi color dell’acciaio. 

*


Maracaibo aveva ormai aperti gli occhi. I neonati raggi del sole rimbalzavano sui muri e i tetti delle case, conferendo loro un denso alone dorato. Il silenzio notturno, interrotto solo dal marciare delle ronde o dai canti sguaiati d’un qualche ubriaco, s’era ormai diradato lasciando il posto ai più classici suoni del mattino: l’aprirsi dei battenti, il chiacchiericcio che si riversava nelle strade assieme agli abitanti, il passaggio dei carri carichi delle mercanzie più svariate, buona parte dei quali era diretta al mercato cittadino.
“Largo, señores, largo!”
“Ohe, bricconi che non siete altro, giù le zampe dalla mia roba!”
“Vi faccio un prezzo di favore, doña Luisa.”
“Qualcuno ha visto Perez?” domandò d’improvviso una voce tra la folla di clienti e venditori.
“Chi?” gridarono alcuni.
“Come chi, pezzi d’asini? Ernesto Perez, quello col carro delle frutte.”
“Sarà a letto a smaltire l’ubriacatura” azzardò uno che si faceva largo col suo mezzo. “O a curarsi le ossa ammaccate; ieri pareva che alla locanda d’El Toro fosse giunto il diavolo!”
“Macché, Perez non è uomo da frequentare quei postacci” negò un altro. “Scommetto le piastre che ho in tasca che c’entra quella bruja  di sua moglie! Gli avrà giuocato un tiro birbone dei suoi.”
“Eh, Gonzalo, la tua è una fissazione!”
“Vi dico che è una strega” ribatté con energia Gonzalo mentre si segnava rapidamente. “Non per nulla vivono al margine della città, e i buoni cristiani badano a starci ben lontano.”
In verità il señor Perez non era ubriaco, né tantomeno vittima di chissà quale malefico sortilegio; semplicemente la sera prima aveva fatto più tardi del solito, avendo incontrato sulla strada quei quattro soldati spagnuoli che necessitavano di condurre al più presto il prigioniero corsaro al palazzo del governatore. Alla stanchezza s’era sommato inoltre un gran bello spavento: mai il pacifico fruttaiolo avrebbe creduto di portar nel suo carro niente meno che un filibustiere, figlio di quella razzaccia partorita da Satana in persona.
Nel medesimo istante in cui, al mercato, svariati colleghi s’interrogavano circa il suo ritardo, lui aveva preso a alzarsi dal letto, scuotendosi tutto a suon di stiracchiate e sbadigli. “Buon Dio, che nottataccia!” pensò mentre si dirigeva, anzi si trascinava verso la camera ov’era solito pranzare colla famiglia. Vi trovò la consorte, vestita coll’abito di tutti i giorni e intenta a pulire un cespo di lattuga. “Potevate svegliarmi” brontolò al suo indirizzo, accorgendosi di come l’alba fosse ormai passata.
“Stanotte sembravate un morto che cammina” fu la replica di lei. “E quando vi sveglio personalmente siete intrattabile; non avevo voglia di sorbirmi le vostre male parole.” Un altro marito con maggior polso si sarebbe irritato, ma Perez era avvezzo all’irriverenza della sua consorte. Compensata, d’altronde, da altre migliori doti.
“Passatemi un boccone, svelta. Ho da preparare il carro.”
“Il carro è carico e Azogue ha mangiato; ho provveduto personalmente.”
“Toh! Non m’attendevo un simile favore da parte vostra.”
“Sono vostra moglie” rispose con semplicità la donna, portandogli una ciotola di farinata che l’altro vuotò in poche cucchiaiate. “Quando vi garba” borbottò Perez una volta finito, la mano che corse a carezzare la natica ancora soda di lei. “Adagio, signore” si udì dire mentre l’oggetto del desiderio si scostava rapidamente. “Stanotte eravate troppo stanco; questa sera, se rincaserete a un orario decente, saprò soddisfarvi.”
“Sfacciata.”
“Ne eravate cosciente anche quando m’avete sposata.” La donna portò via la ciotola vuota, preparandosi a tornare alle sue faccende.
“Un momento! Non vedo la bambina.” S’udì un rumore di piccoli passi provenienti dal retro, poi comparve una figuretta intenta a sbocconcellare un pezzo di pane, mentre coll’altra mano si stropicciava vigorosamente gli occhi ancora gonfi di sonno. “Ecco! Me l’avete stancata di nuovo!” sbottò Perez mentre la piccola sbadigliava.
“Ieri sera necessitavo di aiuto” replicò asciutta la donna.
“Per le vostre diavolerie!”
“Non vedo perché voi dobbiate scarrozzarla in giro tutti i santi giorni senza che io possa protestare.”
Caramba! Lo sapete, che mi porta fortuna!”
“Sciocchezze!”
Lo sguardo ancora assonnato della piccola guizzava dall’uno all’altro genitore. Non pareva però molto turbata, simili liti erano all’ordine del giorno in casa. “Bah! Non ho punto voglia di discutere con voi” concluse Perez.
“Siete stato voi a iniziare.”
“Tacete, donna.” Gli occhi del fruttaiolo si posarono sulla figlia. “Su, niña, da’ un bacio a tuo padre” l’invitò benevolo, chinandosi per porgerle la guancia lanosa. “Preparati, svelta, t’attendo fuori.”
“Vieni qui, Sol” la chiamò di subito la madre, una volta che il consorte fu uscito; le rassettò il vestito con pochi e rapidi gesti, allacciandole dapprima il grembiule, versione in miniatura del proprio, ai fianchi e poi la cuffia sotto il mento. “Stanotte è accaduto qualcosa, in città” mormorò tanto a se stessa quanto alla figlia, d’improvviso fattasi attenta. “Tieni gli orecchi aperti più che puoi, in special modo quando giungerete a palazzo. Mi hai capito?” La bambina annuì, prendendo dalle mani della madre la cesta per la colazione.
“Nora, in nome del Cielo!”
“D’accordo, d’accordo. Va’, su, prima che prenda a scalpitare.” E Nora accompagnò la figlia fin sulla porta di casa, lasciando poi che corresse verso il carro pronto a partire; Sol s’issò, come di consueto, sul bordo mancino restando colle gambe penzoloni. L’aria del mattino, insolitamente fresca quel giorno, sembrava averla svegliata.
“A stasera, moglie” salutò Perez.
“A stasera, marito” fece la donna sullo stesso tono, le braccia conserte e i lunghi capelli scuri tenuti sciolti sulle spalle. “E badate a voi.” Attese che il carro s’allontanasse fino a sparire alla vista, prima di ritirarsi in casa.
Perez, le redini strette in mano, gettò un’occhiata all’indietro. “Ah! Ma guardati, la mia niña... caschi dal sonno” commentò scuotendo il capo. “Vieni vicino a me, Dio non voglia che ruzzoli giù sulla strada e batta quella tua testolina.” Sol non se lo fece ripetere due volte, muovendosi con cautela sul bordo del carro fino ad affiancare il padre; i movimenti del mezzo e il rumore delle ruote sul selciato, cui lei era avvezza fin da piccola, sembrarono conciliarle quel sonno che si faceva sempre più tiepido e invitante. Sol, incapace di resistere ancora, chiuse gli occhi poggiando il capo in grembo al padre; udì uno sbuffo, poi un braccio familiare le cinse il corpo minuto.
“Credo proprio che oggi Azogue farà un giro più lungo.”
La bambina sorrise, mentre tornava felice nel mondo dei sogni.
 

*


Nella posada de la Luz, invece, un’altra persona stava lentamente tornando alla realtà.
“Guardate, padrona. Riacquista i sensi.” La contessa accorse subito al richiamo della serva indiana, ordinandole di scendere dabbasso e avvisare il marito. “Fa’ presto, Chtilali” l’esortò prima che scomparisse in corridoio. Si rivolse poi al ferito che aveva aperti gli occhi, volgendo tutt’attorno sguardi confusi. “Vi siete svegliato, per fortuna. Eravamo... No!” esclamò al vedere come l’uomo tentasse con poco successo d’alzarsi, facendo leva sulle membra doloranti. “In nome del Cielo, Carmaux, state giù!” E spinse piano sulle sue spalle per convincerlo a stendersi ancora, ottenendo in risposta più d’un gemito di dolore. “Avete dimenticato le vostre ferite?”
Il vecchio marinaio si fissò il petto e la spalla fasciati, come se non potesse capacitarsi di tutto ciò; posò quindi sulla donna gli occhi non ancora lucidi del tutto. “Chi siete voi?” domandò debolmente. “Come sapete il mio nome?”
Prima che l’altra potesse replicare, la porta s’aprì e il conte entrò precipitosamente nella stanza, accompagnato dal nipote e da Ch’ulel. “Emilio, finalmente” disse la contessa lasciando al marito la sedia accanto al letto. “Stavo per...”
Un grido soffocato le interruppe la frase: Carmaux era riuscito a mettersi seduto a dispetto del dolore, facendo leva sui gomiti e ignorando del tutto le proteste di chi si era appena accostato a lui, preferendo puntargli indosso due occhi carichi di stupore. “Tuoni e fulmini!” esclamò a mezza voce. “Sogno io, forse?”
“Io credo invece che tu sia ben sveglio, vecchio mio” replicò con un mesto sorriso il conte. “Un po’ provato forse, ma di certo lucido.”
“No” disse invece Carmaux scuotendo il capo. “No, io sogno ancora... Ciò che vedo non può essere vero...”
“Cosa credi di vedere?”
“Il signore di Ventimiglia.” E il marinaio parve commuoversi mentre pronunciava quelle parole. “Il mio antico comandante.”
“Allora non sogni. Son proprio io.”
“Voi!” esclamò Carmaux, ritrovandosi le mani strette tra quelle del conte. “Voi qui, mio capitano! Ma come... come è possibile? Dopo tutti questi anni...”
“È una lunga istoria, amico mio, ma son qui per raccontartela” rispose Emilio di Ventimiglia.
“Un istante solo, signore.” Carmaux rivolse all’unica donna nella camera quello che voleva essere un sorriso di scusa. “Voi, contessa Honorata” mormorò. “Perdonerete la mia pessima memoria?”
“Siete più che scusato; son passati diciassette anni, in fondo.” Anche la signora di Ventimiglia sorrise. “Mi credete se vi dico che non siete poi molto cambiato? Apparite solo un po’ più grigio di come vi ricordavo.”
Lei invece sì che era cambiata, almeno così pensava il marinaio: la ricordò fanciulla che, con un solo sguardo, ringraziava lui e i suoi amici per averle permesso di raggiungere l’uomo che amava; poi giovane donna in boccio circondata da un popolo non suo e che, con un gesto e poche parole, decideva della sua vita. Il tempo non aveva fatto che giovare alla contessa di Ventimiglia, donandole quella bellezza decisa e matura che solo la maternità è in grado di dare.
Colui che una volta era stato il Corsaro Nero sentì d’improvviso un peso sulla spalla, lì ove s’era posato un capo reso ormai grigio dagli anni. “Hai chiesto troppo al tuo corpo” disse al suo antico braccio destro mentre l’aiutava a stendersi; Carmaux si lasciò docilmente andare, mormorando un ringraziamento. “Dove siamo?” chiese poi.
“Alla  posada de la Luz” rispose il conte. “Ti abbiamo portato qui subito dopo lo scontro.”
“...cosa?...”
“Non ricordi? La taverna d’El Toro, la battaglia coi soldati spagnuoli...”
“Piano, Emilio” intervenne Honorata. “Può darsi che non abbia ancora recuperata la memoria.”
“No, io...” fece Carmaux. “...credo di ricordare...” Si strofinò vigorosamente la fronte col palmo della mano. “Sì, ora ricordo tutto! La taverna, i galli... quel don Raffaele... l’irrompere delle guardie... la lotta e... ventre di pescecane!” gridò poi, un ricordo che gli esplodeva in testa colla forza d’una granata; si sarebbe alzato di nuovo se solo il conte non l’avesse tenuto fermo.
“Wan Stiller! Dov’è? Signore, contessa, parlate!”
A intervenire fu inaspettatamente Enrico. Il giovane si fece avanti mentre Ch’ulel, che fino a quel momento l’aveva affiancato, rimase in disparte; si vide indosso due occhi smarriti e preoccupati. “Quando siamo intervenuti la situazione era già compromessa” spiegò con voce amara. “Quattro soldati, al vederci irrompere, preferirono fuggire vigliaccamente piuttosto che affrontarci; e con loro portarono via il vostro compagno.”
“Tu eri già svenuto quando riuscii a raggiungerti” continuò il conte di Ventimiglia. “Ti lasciai in mani fidate prima di correr dietro al carro che aveva condotto via Wan Stiller; era ancora vivo, di questo sono più che certo.”
“Il governatore non cerca uomini da appendere a una forca, bensì prigionieri da interrogare” disse ancora Enrico.
“Credetemi, signore.” Il filibustiere deglutì, cercando di frenare il dolore che certamente provava. “Preferirei dieci, cento volte di saperlo morto, piuttosto che sopportare l’idea che... che lo facciano a pezzi, pur di farlo parlare.” Si volse verso il giovane e suo zio. “Vorrei rammaricarmi di non poter condividere la sua sorte, come tante volte abbiamo fatto; vorrei dire che rimpiango di non esser lì con lui, ma così mancherei di rispetto a voi, che avete rischiata la vostra vita per salvare la mia. E per questo non potrò mai cessare d’esservi riconoscente.”
“Taci, Carmaux” disse l’ex-Corsaro; sua moglie avrebbe giurato d’aver udito, seppur con stupore, la voce di lui incrinarsi. “Avrei potuto fare molto di più.”
“Forse, mio comandante... ma avete impedito che ci prendessero entrambi e ci usassero l’uno contro l’altro; e a quel punto, forse, sarebbe stato più difficile tener annodata la lingua, e avremmo compromesso la missione. Wan Stiller...” E anche la voce di Carmaux si spezzò per un attimo. “...non ha nulla da perdere, se non la vita. Morirebbe pur di non tradire il segreto, e io farei lo stesso al suo posto.”
“Pover’uomo!” pensò Honorata, afflitta. “Dio solo sa quanto gli siano costate queste parole!”
Enrico, pur colpito da ciò che il vecchio marinaio aveva detto, seppe mantenere un maggior distacco: non conosceva Carmaux, sebbene ne avesse udito a parlare molto, e ciò l’aiutò a conservare la lucidità che si conveniva a un tale frangente. “Di quale segreto parlate?” domandò. Il francese lo fissò colla curiosità che si riserva alle persone di cui si vorrebbe conoscere l’identità. “Chi siete, voi?” chiese a sua volta, una domanda che avrebbe fatto anche prima se le rivelazioni e i sentimenti non l’avessero travolto.
“Sono Enrico di Ventimiglia.”
“Fulmini di Biscaglia! Il figlio del Corsaro Rosso!”
“Toh! Mi conoscete?” fece il giovane con stupore. “Forse che lo zio vi parlò di me, quand’ancora era corsaro?”
“Non lui, signore, ma vostro padre in persona, che ho avuto l’onore di servire prima di vostro zio. Il giorno precedente alla sua esecuzione, e prima che ci portassero in celle differenti, mi rivelò che a tenerlo ancorato al suo passato non era solo la vendetta, ma una lettera, l’unica che avesse mai ricevuta dopo ch’era partito per l’America; una lettera ch’era per lui fonte di gioia e dolore insieme perché, se gli annunciava la nascita di suo figlio, gli rivelava anche che la sua amata moglie era morta nel darvi alla luce.” Gli occhi di Enrico si velarono di malinconia a quelle parole; suo zio si contentò di abbassare il capo, l’espressione fattasi più cupa al ricordo del fratello scomparso.
“Quando morì aveva ancora quella lettera?” chiese il figlio del Corsaro Rosso.
“No, signore; mi rivelò d’averla bruciata poco prima che gli spagnuoli ci catturassero; forse già aveva il sentore di ciò che sarebbe accaduto, e temeva che potessero scoprirgliela indosso, venendo a sapere della vostra esistenza.”
“Tuo padre voleva proteggerti, Enrico” mormorò Honorata. Suo nipote pareva profondamente commosso. “Credevo... che il suo ultimo pensiero fosse stato solo per la sua vendetta che non era riuscito a portare a termine.” Sorrise per un attimo. “Non mi ha dimenticato, pur non avendomi mai conosciuto.”
“Perché credi conservasse gelosamente quella lettera?” intervenne il conte. “Tu eri il suo talismano, Enrico, il pensiero che gli impedì di sprofondare nell’odio al contrario di me e Federico, che nulla avevamo lasciato in Europa, se non un fratello assassinato a tradimento.” Sospirò. “Forse lui, più di me, meritava di sopravvivere. Ma è impossibile per noi sapere cosa Dio e il destino ci riservino.”
Nella camera cadde, per qualche minuto, il silenzio. A interromperlo fu Ch’ulel, rimasto fino in quel momento in un angolo ma senza perdersi una sola parola della conversazione. “Ho un dubbio, signore” disse al conte di Ventimiglia.
“Quale, Ch’ulel?”
“Che il segreto cui l’uomo bianco si riferiva sia proprio questo.”
“Santo Cielo!” gemette Honorata. “Dio non voglia che il governatore venga a sapere anche di Enrico! Non farebbe che aumentare il suo odio e il suo desiderio di ritorsioni verso la nostra famiglia!” La contessa si pentì subito di quel breve sfogo, giacché si coprì la bocca colle mani mentre il marito le faceva cenno di tacere. Ma Carmaux non parve accorgersi di tutto ciò: la sua attenzione s’era fermata alle parole dell’indiano. “Ti sbagli, amico” disse infatti. “Ciò che il governatore non deve sapere è tutt’altro.”
“Cosa?” domandò il conte di Ventimiglia.
“Capitano, non credo siate giunto fin qui per ricordare i vecchi tempi; qualcosa di più importante vi ha spinto a tornare a Maracaibo.” Carmaux sospirò. “Vostra figlia, non è così?”
“Un momento!” scattò Enrico, mentre anche i suoi zii nulla fecero per trattenere il loro stupore. “Come fate a sapere di Jolanda? Il conte di Medina avrà prese tutte le precauzioni per non diffondere una simile notizia! E poi, di che segreto parlavate? Qual era la vostra missione?”
“Ohe, messere, quante domande tutte insieme!”
“Perdonalo, vecchio mio” intervenne l’ex-Corsaro. “Mio nipote è irruento, come d’altronde lo sono i giovani.” Anche lui era ben impaziente di sapere, ma attese che il marinaio sistemasse meglio il capo sul cuscino e si bagnasse la gola secca con una tazza d’acqua.
“Io e Wan Stiller dovevamo raccogliere il maggior numero di notizie circa le fortificazioni della città, nonché conferme sulle sorti della contessina.”
“Fortificazioni?” domandò con un filo di voce Honorata, che pure cominciava a capire.
“Sì, contessa. Vi sarete accorta anche voi che Maracaibo non è più quella d’una volta.”
“I filibustieri vogliono assalire la città, dunque?” chiese a sua volta il conte di Ventimiglia.
“Sì” confermò il marinaio. “La notizia della cattura di vostra figlia ci ha spinti in molti a prendere il largo; il vostro nome, capitano, è ancora ricordato alla Tortue.”
“Avete udito, zio?” sembrò quasi esultare Enrico. “Si progetta un attacco! Ora sì che avremo l’aiuto che ci occorre!” Il conte, seppur felice alla notizia che i suoi vecchi compagni sarebbero giunti in soccorso suo e della sua famiglia, restò in silenzio a riflettere; sua moglie l’aveva affiancato, posandogli le mani sulle spalle. “La baia di Amnay, non è così?” disse poi. “Il luogo ideale per nascondere una flotta.”
“Esatto, capitano” rispose Carmaux.
“Si è progettata una vera impresa.”
“Che non ha nulla da invidiare a quella che organizzaste voi, l’Olonese e il Basco diciott’anni orsono.”
“Chi è l’almirante?”
“L’istesso uomo che ha mandato me e Wan Stiller in missione, nonché mio attuale comandante.”
“Lo conosco, forse?”
“Fin troppo bene, signore” sorrise il marinaio. “Sto parlando del signor Morgan.”

*


Lo stretto corridoio che conduceva ai sotterranei del palazzo del governatore era assai buio, almeno fin quando il capitano Valera non s’affrettò ad accendere un paio di torce; ne tenne una per sé, porgendo l’altra al conte di Medina che aveva voluto seguirlo. “Andiamo” disse quest’ultimo spingendo innanzi i due uomini appena convocati, e che tremavano come foglie. “È proprio necessario?” domandò il più attempato di essi, un ometto incartapecorito che gettava occhiate timorose tutt’intorno.
“Vi ho già spiegate le mie ragioni, don Turillo, non ho intenzione di ripeterle” replicò secco il governatore.
“E se colui tentasse...”
“Suvvia, signor notaio, non correte alcun pericolo. Vi saranno le sbarre a separarvi dal filibustiere.”
“E io?” intervenne l’uomo che affiancava il notaio, e non era meno impaurito di lui. “Come credete che possa rendermi utile, signor conte?”
“Non era da voi che quei due corsari cercavano di carpire informazioni?” disse Valera, che camminava in testa al gruppo.
”Ma io non avevo idea di chi fossero! E poi vi ho già detto quanto sapevo!”
“Accelerate il passo, señor, state rallentando il conte.” O è troppo per la vostra pancia?, avrebbe voluto aggiungere il capitano, pensando alle forme dello spagnuolo che tanto lo facevano rassomigliare a una botte. Di ricchi e grassi borghesi come quel don Raffaele Tocuyo ve n’erano a bizzeffe, lì a Maracaibo, e tutti a ronzare attorno al governatore nella speranza di allargare i proprio privilegi; fosse stato per lui li avrebbe spediti dritti nelle piantagioni che loro stessi mandavano avanti, ma il conte era troppo gentiluomo e, in fondo, ingraziarsi i pezzi grossi della città non poteva che essere un vantaggio per lui.
“Eccoci” disse il capitano fermandosi nei pressi della prima cella; ordinò con un’occhiata al soldato di guardia di farsi da parte, mentre il conte di Medina lo affiancava. Il lezzo di sangue e escrementi dipinse sul volto del nobile un’espressione di disgusto. “Qui si stenta a respirare” pensò alzando la torcia; il prigioniero era seduto in terra nell’angolo meno in vista, le braccia robuste a circondargli le ginocchia. Un rivolo scarlatto gli scendeva da un taglio sul sopracciglio, fino a perdersi nella folta barba di un biondo rossastro.
“Venite qui, don Turillo” ordinò il governatore, ma occorse una buona spinta del capitano per convincere il vecchio notaio a farsi avanti. “Sì, sì, vi ho già detto che è lui” fece sbrigativamente gettando un’occhiata oltre le sbarre. “Era uno dei tre che accompagnavano il Corsaro Nero, quel giorno sventurato in cui perdetti la casa e buona parte delle mie sostanze.” Quelle parole fecero sì che nell’animo del notaio il rancore prendesse il sopravvento sulla paura.
“Tre, avete detto?” chiese il capitano.
“Sì. Vi era anche un negro di statura gigantesca, ma sono più che certo che non vi fosse ieri sera; l’avrei notato subito, altrimenti.”
Un fruscio proveniente dalla cella bloccò un’altra domanda di Valera: il prigioniero s’era alzato con uno scatto, per quanto gliel’avessero permesso le ferite che gli bruciavano le carni. Il conte di Medina fu lesto ad alzare la torcia: vide un volto angoloso contratto dalla rabbia e due occhi chiari come i suoi, seppur di diverso colore, puntare dritti sul notaio.
“Tuoni d’Amburgo! Tu!” l’udì a sbottare.
“Ah!” fece il governatore. “Odo la vostra voce, finalmente!” Ma Wan Stiller non gli badò affatto: la sua attenzione era tutta rivolta a don Turillo, scartato all’indietro per l’ispavento. “Vecchio ingrato!” continuò con forza. “Avremmo dovuto lasciarti affumicare nella tua maledetta casa, piuttosto che preoccuparci di salvarti la pelle! Ringrazia queste sbarre che ti separano da me, altrimenti avrei già provveduto a sbudellarti colle mie mani.”
A giudicare dalle occhiate spaurite che gettava al filibustiere, il vecchio notaio non desiderava altro che andarsene via da quel posto; don Raffaele, tirando fuori un briciolo di coraggio, gli si parò dinanzi come a proteggerlo da un’eventuale minaccia. “Miserabile!” fece. “Farete ben presto la fine che meritate!”
Ottenne in risposta, e con suo stupore, una risata. “Anche il piantatore qui” commentò Wan Stiller, la rabbia che aveva lasciato il posto al divertimento. “Quale sorpresa! Avete compiuto anche voi il vostro dovere di buon cittadino?”
“Siete una canaglia! Voi e il vostro compagno volevate ingannarmi, per poi rapirmi!”
“Oh, errate, señor; si voleva aiutarvi a guadagnare un buon gruzzolo di piastre. Peccato che le guardie siano giunte a rovinarci la festa.”
“Lieto di vedere che abbiate voglia d’ischerzare” commentò il conte di Medina. “E soprattutto che abbiate la lingua; cominciavo a credere che vi fosse caduta da qualche parte.” L’amburghese gli gettò un’occhiata gelida, cessando all’istante di parlare.
“Ebbene? Non vi garba conversare con me?” Il governatore di Maracaibo alzò le spalle con sufficienza. “Pazienza. Torniamo su, capitano, gli odori di questo posto mi asfissiano.” Aveva sperato di ottenere qualcosa dal filibustiere facendo leva sulla sua rabbia improvvisa, ma disgraziatamente aveva fallito.
“Noi possiamo andare?” La voce fioca del notaio, stretto al braccio di don Raffaele, si fece sentire ancora.
“Non prima d’aver fornito al capitano una descrizione degna di questo nome circa l’altro corsaro” rispose il conte. “Ricorderete anch’egli, no?”
“Certo, era...”
“No!”
Il grido improvviso fece voltare tutti i presenti. “Taci, miserabile vecchio!” gridò l’amburghese, le mani strette convulsamente attorno alle sbarre della cella. “Giuro che la pagherai cara, se aprirai ancora quella tua dannata bocca!”
“Comincia a tacere tu, canaglia” lo rimbeccò il capitano Valera; il manico della torcia che reggeva traversò, con un abile colpo, le sbarre battendo con un tonfo sordo contro le costole del prigioniero; Wan Stiller trattenne a stento un mugolio di dolore mentre cadeva in ginocchio.
Il conte di Medina parve molto soddisfatto a quella vista. “Ora comprendete le mie ragioni, capitano?” domandò. “Una volta ottenuta la descrizione manderete due squadre a pattugliare qualunque posto sospetto; quell’uomo va trovato a ogni costo.”
“No...” gemette l’amburghese, ancora piegato in due per il violento colpo ricevuto.
“Vi vedo preoccupato, signore. Temete per la sorte del vostro compagno? O avete compreso quanto sarà difficile per voi, una volta preso anche lui, tenere ferma quella vostra lingua?”
“Non l’avrete” replicò l’altro in tono di sfida. “Sarà già fuggito.”
“Credetelo pure. Andiamo, capitano.” E il conte prese a salire le scale, imitato dai due spagnuoli; il capitano, prima di seguire gli altri, preferì sostare ancora qualche istante dinanzi alla cella. “Me ne occuperò personalmente, una volta che l’avremo trovato” disse. “Gli aprirò il ventre davanti ai vostri occhi.”
“Tacete!” mormorò secco Wan Stiller.
“Lo farò a pezzi fin quando non vi deciderete a parlare. Pensateci, señor.”
“Prima dovrete trovarlo, capitano.”
L’ufficiale gli rivolse un sorriso beffardo. “Buenas noches, caballero” disse semplicemente prima di prendere a sua volta le scale.


Note dell’autrice: la storia della lettera ricevuta dal Corsaro Rosso è una totale invenzione della sottoscritta. Spero che i lettori più “puristi” me la facciano passare, come pure eventuali pecche nella caratterizzazione di personaggi che, in questa storia, muovo per la primissima volta: Honorata - già comparsa nel primo capitolo -, Jolanda, il notaio di Maracaibo.
"Sangue Corsaro" presenta, al momento, due personaggi che non mi appartengono: Ch'ulel, già comparso in una mia storia, è liberamente ispirato a un personaggio della mia migliore amica, che mi ha concesso di usarlo; la piccola Sol invece si ispira liberamente a una persona realmente esistente, cui va tutto il mio affetto.



TITOLI NOBILIARI - Note
I signori di Ventimiglia posseggono il grado nobiliare di conte - leggasi a proposito “Il figlio del Corsaro Rosso”. Ne “Il Corsaro Nero” all’omonimo protagonista viene dato il titolo di cavaliere, in quanto figlio cadetto e dunque impossibilitato a ereditare il titolo di conte che spettava al primogenito maschio (così perlomeno andava per la maggiore nel diciassettesimo secolo, con poche eccezioni). Il problema è che, ne “Il figlio del Corsaro Rosso”, Salgari dà a Enrico il titolo di conte, sebbene sia primogenito maschio sì, ma di uno dei fratelli cadetti, il terzogenito per la precisione. L’unica spiegazione che riesco a dare a ciò - non ho trovato fonti precise a riguardo - è che Enrico, essendo l’unico maschio superstite dell’intera famiglia, l’abbia ottenuto per impedire che andasse disperso.
Qualcuno potrebbe chiedersi allora perché non abbia assunto il titolo lo stesso Corsaro Nero, che dopo la morte del fratello maggiore diventa l’erede dell’intero patrimonio; a mio parere questo non avviene perché Emilio parte per le Americhe subito dopo l’accaduto, e quindi non ha il tempo di “ufficializzare” la cosa.
Per “Sangue corsaro” mi sono regolata così: Emilio, vivo e vegeto, è tornato in patria e ha assunto il titolo di conte. Suo nipote Enrico, non più unico superstite maschio della famiglia, non è conte a sua volta ma eredita il titolo di cavaliere del padre. Honorata, duchessa di Wan Guld - ereditaria del titolo del padre, a quanto pare - sposandosi diviene la contessa di Roccanera, retrocedendo così di grado nobiliare visto che il conte è inferiore al duca. Jolanda, in quanto figlia femmina, è semplicemente signorina di Ventimiglia.

   
 
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