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Autore: Crystal_    10/08/2006    1 recensioni
«Non riconosci il mio volto, Miracle?»
"Miracle, Miracle", pensò. "Tutto e niente, questo nome! È tutto e niente! Non c'è nulla di miracoloso in me, eppure qualcuno ha deciso che dovessi chiamarmi Miracolo. Io non sono un miracolo."
Si umettò le labbra, quindi, con calma, ribatté: «Non mi chiamo Miracle.»
L'uomo inarcò le sopracciglia con aria lievemente divertita. «Ah, no? Credevo fosse questo il tuo nome. Miracle Stepford»
Pronunciò le due parole che componevano il suo nome lentamente, come per assaporarle. Come si odora un buon profumo, o come si assaggia per la prima volta il sapore delle lacrime. Miracle. Ecco cos'era Miracle, cos'era lei un tempo. Amarezza plurisensoriale.
«Lo era. Ma ora sono Scarlett.»
«Scarlett?»
«Sì, Scarlett.»
Genere: Malinconico, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Miss Stepford, allora avvenente e graziosa ventenne, viveva nella grande dimora londinese dei suoi genitori, circondata da tutti gli svaghi e gli agi che la sua giovane età le permetteva di desiderare. Eppure non si sentiva ancora soddisfatta. Provava una sorta di macabro vuoto affettivo, che le attenzioni dei giovani ufficiali e le occasionali civetterie non potevano colmare; si sentiva immensamente sola, pur vivendo circondata dal miglior genere di vita. Era forse quel ritenersi superiore agli altri ad averla resa a poco a poco così distante dalle sue amicizie, e dalla vita sociale in genere. Passava sempre più tempo in solitudine, e i genitori, accortisi finalmente dei disagi della figliola, insistettero per farla visitare da un buon medico, per parlar loro di ciò che l'affliggeva e per ritornare a coltivare gli interessi di un tempo. Ma lei opponeva rifiuti così decisi da scoraggiare le premure prima paterne, e poi materne. Il suo più alto desiderio era contemplare silenziosamente la portata della sua stessa presenza, in una delle più elevate forme di narcisismo. Così come il dio greco si era innamorato del proprio riflesso al punto di morire, la dama era diventata dipendende di se stessa, tanto da non aver desiderio alcuno di abbassarsi ad accettare l'insopportabile compagnia altrui. Se lo faceva, era solo per sottolineare ironicamente quanto fosse meravigliosamente superiore. Era la sua morfina, un modo artificioso e autocompiacente di schermarsi dalla cattiveria e dai difetti umani credendosi immagine della perfezione più pura. Era arrivata al punto di compatire e disprezzare, al tempo stesso, tutti quegli esseri inferiori che con tanta presunzione si proclamavano simili, se non addirittura degni, di lei.
Quel giorno, quel caldo giorno estivo, la signorina stava compitamente seduta nel salone, gli occhi posati su una lettura che sembrava avere il suo più completo interesse. Come al solito non sollevò lo sguardo dalla carta stampata nemmeno quando una ragazza della servitù entrò per aprire le tende, e neanche quando questa, con un breve inchino, si congedò. Semplicemente, tutto ciò che rientrava nell'ordinario, nella routine, non le importava. Dopo qualche istante si udì un nuovo cigolio della porta, ad indicare un insolito ritorno della donna. Inarcò lievemente, in modo di fatto impercettibile, le sopracciglia per palesare il proprio fastidio; ma gli occhi, imperterriti, continuavano quella folle corsa sulle parole del libro.
«Signorina?», esordì timidamente. «Posso permettermi di disturbarla?»
Nessuna risposta, se non il leggero frusciò della pagina voltata.
«C'è un signore che vorrebbe vederla»
Dopo una pausa di riflessione di qualche minuto, Miss Stepford rispose freddamente: «Non sono interessata a vedere chicchessia.»
La voce, così distante e roca, quasi il disuso l'avesse deteriorata, impressionò notevolmente la serva, e contribuì ad accrescerne il disagio. Combattuta intimamente tra l'insistere, dato che il forestiero le sembrava tanto serio, e l'andarsene, per non incorrere nell'ira della padrona, aggiunse flebilmente: «Dice che è urgente, signorina.»
Miss Stepford risultò colpita dalle parole di lei, come se non si aspettasse un affronto del genere, abituata com'era ad essere assecondata in tutto, e si costrinse a punirla con severità. Ma non ne aveva la forza. Si abbandonò ad un sospiro grave, carico di sentimenti contrastanti, e prima che potesse ragionare con lucidità a ciò che stava per fare, annuì.
Sentì nuovamente i passi della giovane allontanarsi un poco. Qualche parola detta sottovoce. Lo scricchiolìo lieve della poltrona. Il rumore ovattato e regolare di na camminata leggera ma elegante. Lo scattare della serratura, tipico di una porta chiusa a chiave.
Tutte cose terrene, così normali, così... distanti. Già da allora si sarebbe dovuta allarmare: non aveva più vie di fuga. La porta era bloccata, le finestre chiuse e comunque troppo alte. La misteriosa figura che le si stagliava di fronte, taciturna e inquietante. Eppure non protestò e, con calma infinita, sollevò gli occhi dal suo libro.
«Ci rivediamo, Miracle» disse l'uomo. Aveva una voce profonda, calda, che in altre situazioni, forse, sarebbe potuta risultare rassicurante. La donna lo guardò con palese disinteresse, con un lieve sorriso compassionevole a distenderle le labbra rosee.
«Non mi riconosci, Miracle?»
"No, non ti riconosco", pensò lei, distaccata. Non le interessava. Lei non aveva più un passato, viveva un eterno futuro, in attesa che il presente la invitasse a partecipare.
«Non riconosci il mio volto, Miracle?»
"Miracle, Miracle", pensò. "Tutto e niente, questo nome! È tutto e niente! Non c'è nulla di miracoloso in me, eppure qualcuno ha deciso che dovessi chiamarmi Miracolo. Io non sono un miracolo."
Si umettò le labbra, quindi, con calma, ribatté: «Non mi chiamo Miracle.»
L'uomo inarcò le sopracciglia con aria lievemente divertita. «Ah, no? Credevo fosse questo il tuo nome. Miracle Stepford.» Pronunciò le due parole che componevano il suo nome lentamente, come per assaporarle. Come si odora un buon profumo, o come si assaggia per la prima volta il sapore delle lacrime. Miracle. Ecco cos'era Miracle, cos'era lei un tempo. Amarezza plurisensoriale.
«Lo era. Ma ora sono Scarlett.»
«Scarlett?»
«Sì, Scarlett.»
Credeva di averlo messo a tacere, così, con il tono tipico del congedo. Stava giusto riprendendo la lettura da dove l'aveva lasciata, quando l'uomo proruppe in un singolo, semplice: «Perché?»
«Perché Scarlett suona di rosso, rosso scarlatto. È un nome che parla di passione, di desiderio, di lotta e di conquista. Scarlett è energia. È provare tutto per la prima volta, è assaporare la vita con tutti i sensi. Scarlett è scegliere da soli quel che è giusto. Scarlett è libertà.»
«Credi di essere libera, così?»
Nessuna risposta.
«Hai parlato di passione e di desiderio, ma il tuo non sarà forse desiderio di passione? Hai parlato di energia, ma la tua non sarà forse energia mancante? Hai detto che è provare tutto per la prima volta, ma cosa stai provando ora? Se vuoi assaporare la vita con tutti i sensi, perché la rifuggi?»
Un sospiro, forse stanco, atto a scoraggiare il fiume di parole del forestiero. Poi, dopo qualche secondo di riflessivo silenzio, Scarlett, finalmente, rispose.
«Il presente non è abbastanza. Voglio conservarmi per tempi migliori, quando la vita varrà la pena di essere vissuta completamente.»
«Non è così che conquisterai l'immortalità, Miracle.»
«Questo lo dici tu.»
«Lo dico io.»
L'uomo la guardò con profonda, affettuosa, tristezza; una tristezza strana, rara, tipica di chi conosce l'inevitabile e, pur essendone rattristito, non prova l'impulso di fermarlo. Quella donna non meritava la vita, in fondo. Il suo compito sarebbe stato più facile.
Mentre Scarlett e Miracle esalavano l'ultimo, tenue, respiro, l'uomo pensò che l'esuberante ragazza che si nascondeva dietro quella spietata maschera narcisista ora era davvero libera. Con la morte, Miracle e Scarlett erano diventate una cosa sola, armoniosa, organica.
«In fondo, era meglio essere un miracolo», mormorò l'uomo prima di scomparire.
  
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