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Autore: crazyfred    29/12/2011    16 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 22




















Capitolo 22
Nobody's home
Arrivammo in silenzio fino al parco giochi alla fine del lungo viale alberato. Cinquecento metri, forse meno. Faceva freddo e si cercavano gli ultimi barlumi di sole per riscaldarsi, come fanno le lucertole, e non c’era nessuno in giro. Né bimbi, né anziani. Avevo persino la sensazione, guardandomi intorno, di non essere nemmeno negli Stati Uniti … avevamo per caso cambiato nazione? Era il Canada per caso?
Doug sguinzagliò il cane, un beagle; ne aveva approfittato per portarlo a spasso e lo guardò mentre correva libero giù per la collinetta. “Non avevamo mai permesso alle bambine di avere un cane, per quanto si disperassero” disse, sorridendo amaramente ed evitando accuratamente il mio sguardo “Lois è sempre stata una maniaca dell’igiene e dell’ordine” spiegò. “Ed ora eccoci qua … ad occuparci di un cane come terapia antidepressiva”.
Non sapevo cosa dire: incolparlo non mi sembrava il caso, avrei infierito su un dolore che lui per primo aveva provato, probabilmente senza alcuna colpa; incolpare sua moglie me lo avrebbe messo di nuovo contro e difficilmente anche una persona ben disposta come lui fosse un tipo capace di perdonare per due volte.
Così rimasi sul generico, diplomatico e vago: “Sono certo che Allison lo adorerebbe …”
“Sa che sei qui?” mi chiese, senza tanti preamboli, sedendosi ad una delle panchine.
“Nì” risposi, abbozzando un sorriso. Il che corrispondeva alla realtà in fondo: “Non sa che sono venuto a casa vostra ma sa che sono qui ad Indianapolis”.
Mi accesi una sigaretta: era l’unica arma che avevo per rimanere calmo e concentrato. Mia sorella e mia madre combattevano ogni santo giorno per farmi smettere ed ogni sigaretta promettevo che era l’ultima, ma sapevamo tutti che non era così. Erano come un’oasi nel deserto per me, dopo giorni e giorni avanti e indietro tra le dune, innegabile come l’ultimo desiderio per un condannato a morte.
Ne offrii una anche al mio interlocutore, che mi ringraziò con un sorriso che aveva tutta l’aria di essere sincero, oltre che amichevole.
“È una delle tante cose che in casa non mi è mai stata concessa …”
A quel punto iniziai a chiedermi quale fosse la giornata tipo in quella famiglia, quando le cose andavano bene, con una donna come Lois a mandare avanti la baracca. Forse le fobie le erano venute dopo la disgrazia? Ma non mi risultava poi così difficile, a questo punto, capire i continui dissidi tra Allison e sua madre e la sua decisione di allontanarsi da lei il più possibile.
Ma non era quello il momento per lasciarsi sprofondare nei pensieri. Riordinai le idee e continuai dove mi ero fermato: “Allison sa che sono qui ad Indi” presi un bel respiro “perché è qui con me, Doug”
“Allison è qui con te?” domandò, cercando malamente di mantenere la calma, ma era chiaro come la luce del sole che dentro fremeva. Annuii. “È stata una sua idea venire qui” proseguii “voleva andare da sua sorella per il suo compleanno”
“Domani …” sussurrò Doug, probabilmente a sé stesso. Nel frattempo il beagle tornò dal suo padrone, portando tra le fauci un bastone, si mise a sedere ai nostri piedi, riposando beatamente e godendo delle carezze un po’ grossolane che quelle grandi mani gli dedicavano; eppure sembrava che gli recassero giovamento, a giudicare dal suo sguardo pienamente soddisfatto.
“Non aveva idea che lei fosse uscito dal coma” continuai “quando lo ha saputo ha insistito ulteriormente per venire. E così eccoci qui …”
“Le vuoi bene Tyler?” domanda con una risposta ovvia, ma non era certo quella che mi aspettavo di ricevere in quel momento. Mi prese in effetti del tutto in contropiede, ed era anche molto rischiosa. D’altronde, pensai, era proprio una domanda da padre. E forse quella che voleva era proprio una risposta da genero.
“Sì signore, molto” l’onesta era l’unica carta possibile. Avrei voluto aggiungere che a volte le volevo bene nel modo sbagliato, in un modo che lei non poteva accettare, ma erano considerazioni che per il momento era meglio tenere per sé.
“Si vede” commentò lui e non potei far a meno di notare che il suo tono di voce nascondeva una serie di messaggi, ben poco celati al dire il vero. Certamente aveva capito cosa c’era da parte mia, forse non immaginava che per sua figlia la faccenda era un tantino diversa e complicata, ma se questo fosse bastato per aiutarmi a tenerla vicina, non sarei stato certo io a negare una relazione che non c’era, ma che era l’unica cosa che desiderassi per me al mondo.
“Dov’è ora?” chiese. “In albergo. Dorme. Ha insistito per pagarsi da se tutte le spese del viaggio e quindi ci siamo dovuti accontentare di venire in autobus”
“Una sfacchinata insomma …” osservò, ridacchiando. “Ma lei ha ripreso a me in quanto a testardaggine. È sempre stata testarda e orgogliosa, fin da bambina …”
Lo vidi scurirsi in volto, perdere tutta la serenità che la notizia di una figlia tanto vicina gli aveva donato, in favore di un grigiore che sapeva di vecchio e passato, di una sfilza di ricordi troppo dolorosi per potersi sbiadire nonostante i lunghi anni ormai trascorsi.
“Tyler” esclamò, teso e risoluto “ho bisogno che tu mi dica tutto di lei …”
“Signore” lo frenai “non credo di essere la persona giusta per farlo. Sono venuto a prepararvi, ma questa è una cosa che può fare solo Allie. Non me lo chieda di nuovo …”
Assentì, mesto, ma io sentivo di non poterlo fare. Mi ero già spinto troppo oltre.
“Però mi sento di dirle una cosa Doug: io prima mi sono fermato … ma non creda che Allie vi risparmierà. Soprattutto sua moglie …”
“E non sarò io ad impedirglielo” rispose mentre, riagganciando il cane al guinzaglio, si preparava per fare marcia indietro e tornare verso casa “è giusto che lei dica quello che si è tenuta dentro per tutto questo tempo. Forse se lo avesse fatto allora tutto questo non sarebbe successo, ma d’altronde con i se e con i ma non si fa nulla, giusto?!”
Sorrise, di nuovo sereno, e, mentre appena arrivati sul marciapiede, si voltò verso di me e si fermò di nuovo. “Prima devi esserti fatto un’idea sbagliata di me … io non sono l’uomo pacato che sembra, ho anch’io i miei momenti. Non sai quanto è stato difficile i primi sei mesi dopo il coma, quando mi sono ritrovato da solo in casa, con una moglie profondamente segnata e cambiata, una figlia al cimitero e l’altra chissà dove”
In quel momento mi tornarono in mente come un flashback in bianco e nero i primi mesi dopo la morte di mio fratello; in fondo si tratta solo di un anno, ma sembrava ormai passato un secolo. Ricordavo com’era difficile accettare che non avrei più sentito la sua voce, che non avrei più ascoltato la sua musica, che non avrei visto più la sua risata. E poi vedevo mia madre piangere e mio padre che si allontanava sempre di più da noi. Capivo e condividevo facilmente le sensazioni di Doug.
“Ho litigato, strillato, bestemmiato, rinnegato contro mia moglie notte e giorno … ma non mi faceva sentire meglio e non cambiava le cose. Così mi sono rimboccato le maniche ed ho provato a salvare il salvabile, perché è mia moglie e la amo comunque … ed essere uniti ci ha aiutato anche nelle ricerche, ci ha portati fino a New York da tuo padre.”
“Le ho detto Doug” ripresi, mentre camminavamo verso casa “che non la giudicherò, però io trovo che sarà molto difficile per Allison dimenticare le parole dette da sua madre”. Era giusto che sapesse: “Lei è qui per sua sorella e per rivederla…ma ho come la sensazione che non voglia rivedere sua madre”. Doug annuì, rassegnato. 
“Penso che non sia il caso di far sapere a Lois che vostra figlia è qui, almeno per il momento. Forse … forse è meglio che vi incontriate voi per primi e poi magari si convincerà a vederla”
Conoscendola, aveva decisamente bisogno di fare le cose con calma, riprendere possesso di quella parte della sua vita a piccoli passi, in briciole anziché un sol boccone. Del resto, anche Mary Poppins lo diceva:  basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Appunto: prima lo zucchero e poi la medicina amara.
“Tu non puoi fare niente per convincerla, Tyler?
“Non credo” risposi “sta già facendo tanto … e poi, mi scusi, ma se fossi nei suoi panni io non vorrei rivederla. Ragion per cui non la forzerò a fare qualcosa in cui non credo”

“Quando credi che potrò vederla?” chiese. Non so se non approfondì il mio commento per evitare discussioni in mezzo ad una strada o perché si rendeva conto che effettivamente avevo ragione. Non volli indagare perché sentivo che, in fondo, anche per me era meglio così.

“Domani mattina andremo al cimitero …” gli dissi, mentre mi sbracciavo per far avvicinare un taxi che si era fermato di fronte ad una casa poco più avanti. “Però non si faccia illusioni … Allison non è più la bambina che ha lasciato casa sua anni fa”

“Lo immagino…purtroppo”. Si lasciò scappare quel commento, ma non gli diedi peso. Molte delle cose che si era lasciato sfuggire, molte delle osservazioni che forse aveva represso nel corso degli anni, mi ero ben curato di lasciarle al vento, senza intervenire. Era il minimo che potessi fare, non farlo sentire in colpa; lasciarlo sfogare senza che sentisse il peso di alcun giudizio su di sé.

Gli strinsi la mano, congedandomi con un sorriso impercettibile, ed entrai nell’auto che mi aspettava.

 

Non avevo considerato una cazzata quell’incontro pomeridiano con i signori Riley fin quando non mi ritrovai faccia a faccia con Allison. O meglio; nonostante fossi pienamente convinto ancora della mia innocenza e della mia buona fede, non riuscii a confidarlo ad Allison, temendo una delle sue solite reazioni spropositate. Lei non notò niente di strano e io feci in modo che lei non accorgesse di nulla.
Risultato: la cazzata da regolare stava diventando di dimensioni mastodontiche, il che complicava inevitabilmente i miei sforzi per tenerla nascosta.
Nel frattempo, ci si metteva anche una insolita tensione a complicare le cose; eravamo entrambi tesi come due corde di violino, io inconsciamente reo di un non meglio identificato crimine contro l’umanità e già sentivo la scure del mio giustiziere penzolare sulla mia testa, lei atterrita, in bilico su un precipizio con degli spietati inseguitori alle calcagna. Eravamo due cadaveri ambulanti insomma.
La cena nella tavola calda accanto alla pensione trascorse taciturna e nemmeno, per fortuna aggiungerei, quando venne fuori che nel pomeriggio ero stato in giro per la città, Allison sembrò interessarsi più di tanto. Ma io dico: perché ogni fottutissima volta che dobbiamo fare qualcosa, finiamo sempre per complicarci la vita con complessi e menate varie? Non sarebbe più facile lasciar scorrere gli eventi come vengono, cavalcando semplicemente l’onda del momento?
No … non saremmo noi d’altronde … due asociali complessati e depressi, perennemente insicuri, troppo presi a rimuginare su di sé da badare al mondo che intorno a loro continua la sua corsa. Avrei voluto volentieri alzare la testa e guardarmi attorno, anche solo per un attimo, ma avevo paura di scoprire un mondo troppo veloce per me, un mondo che non mi avrebbe permesso di raggiungerlo e mi avrebbe lasciato troppo indietro, da solo. E così me stava rintanato nella mia spelonca buia, in compagnia almeno dei miei pensieri.
Sebbene fossi sveglio da ormai da un indecente numero di ore, stanco dal viaggio e da una giornata ricca di altalene emotive, me ne stavo a pancia insù nella mia parte del letto, con le mani dietro la testa ed ad occhi sbarrati. Allison, dal canto suo, era altrettanto sveglia ed irrequieta. Indubbiamente aver dormito nel pomeriggio non l’aveva aiutata, ma ero sicuro che non fosse quello il vero problema; la radiosveglia sul comodino segnava le tre di notte: era da poco maggiorenne e tra poche ore sarebbe stata sulla tomba di sua sorella. In più, ma questo lei non poteva saperlo, avrebbe rivisto suo padre.
Mi chiesi se fosse il caso di dirglielo, ma ne convenni che spiegarle il mio gesto sarebbe stato una perdita di tempo, nel caso – le probabilità era vicine al 100% - non avesse gradito.
Dopo aver passato un’ora a rigirarsi tra quelle lenzuola ruvide, la vidi alzarsi. Al buio della stanza, con le sole luci dei neon che venivano dalla strada, la vidi prendere le sigarette e uscire sul balcone, in pigiama. Mi alzai a ruota, rivestendomi alla svelta.
“Copriti o ti prenderà un malanno” la rimproverai dolcemente, poggiandole sulle spalle il suo giaccone. Lei lo strinse meglio a sé, infilandolo, ma sorridendomi appena con la sigaretta tra le labbra.
“Sono andata in giro meno coperta di così quando faceva anche più freddo” disse, poggiandosi sulla ringhiera del balcone e portando via il suo sguardo “ e non mi sono mai ammalata”
Era diversa, negli ultimi giorni, era quasi cattiva. Era come se rimettersi addosso quel nome, Mallory, la stesse sporcando di nuovo. Ma io non volevo questo per lei.
“Si può sapere che ti prende?” le chiesi, infine.
“Forse venire qui non è stata una buona idea …” rispose, finalmente dando voce ai suoi pensieri.
“Vuoi andartene?” domandai. Sapere che non era sicura di sé mi dispiaceva, ma mi rassicurava sul nostro futuro.
“No … ormai ci siamo e non si torna indietro” disse, prendendo il posacenere sul piccolo tavolino del balcone e facendovi un po’ di cenere accumulata. Io nel frattempo mi andai a sedere su una delle due sedie che erano sul balcone, anche se mi accorsi ben presto che la mia idea non fu affatto saggia e mi ritrovai con il sedere ghiacciato. “Oltretutto” continuò “voglio davvero andare da mia sorella. Ma ho paura di vedere la mia famiglia … specialmente mio padre”
“Tuo padre?!” chiesi, interdetto. Questa era una cosa che non mi aspettavo: del resto quando le avevo dato la notizia della sua guarigione mi era sembrato, al contrario, un incentivo alla sua decisione di partire.
“Non sei costretta ad incontrarlo se vuoi” la rassicurai comunque, mentre mi accendevo anch’io una bionda, per scaldarmi “sei libera di fare quello che vuoi. Sei maggiorenne ora. A proposito … auguri!”
Mi alzai e l’abbracciai in vita, mentre era ancora di spalle, e nonostante l’imbottitura del piumino riuscii ad arrivare in quel punto del collo, appena dietro l’orecchio, dov’era più sensibile. Purtroppo non parve gradire e si divincolò immediatamente, appoggiandosi di schiena al balcone e guardandomi in faccia, severa: “Essere maggiorenni non significa essere liberi” esclamò, con una freddezza ed una malinconia devastanti e lo sguardo perso nel vuoto “essere maggiorenni significa che inizi a fare le cose perché devi”
Iniziai a preoccuparmi seriamente: l’avevo sempre ritenuta più grande della sua età, un’adulta intrappolata nel corpo di una piccola donna. Eppure sentivo che c’era qualcosa che andava oltre la sua incredibile maturità e quella sua saggezza a volte un po’ naive.
“Perché dici questo?” le dissi “nessuno può obbligarti a fare ciò che non vuoi. Non più”. C’era stato un tempo in cui questo per lei non valeva, ma d’ora in poi sarebbe dovuto essere solo un brutto ricordo, un cattivo esempio da tenere come monito.
“Sai che puoi e devi dirmi tutto” la spronai. Come potevo aiutarla, d’altra parte, se si teneva tutto dentro?!
“Di sicuro mi prenderai per stupida …” disse, ma io negai, scuotendo vigorosamente la testa. Come poteva solo pensare, ancora, dopo tutto quello che avevamo vissuto insieme, che potessi prenderla per stupida? Non c’era niente in lei che non andasse, niente che fosse stupido e valesse una battuta di scherno. “Ho paura che rivedendo mio padre io mi senta in dovere di restare qui … ed io non voglio. Non voglio neanche rivedere mia madre” aggiunse “ma so che lui finirebbe per convincermi a farlo”
“Lui non lo farebbe mai” mi lasciai sfuggire “non ti forzerebbe mai a fare qualcosa che non vuoi”.
“Tu non capisci” replicò “io non sono mai stata capace di dirgli di no!”
Forse allora era più corretto dire che più che di suo padre, era di sé stessa che aveva timore, e della sua capacità di non saper mantenere controllo e autorità sulla situazione. Io le sarei stato vicino, innegabilmente, anche perché si trattava di riportarla a casa con me, e se ieri vedevo la situazione buia e nera, ora c’era una luce bianca e sfavillante alla fine del tunnel ed avrei fatto di tutto per raggiungerla insieme a lei. Anche se, indubbiamente, la sua parola contava più della mia e se alla fine lei avesse scelto di rimanere ad Indianapolis, non mi sarei opposto e non avrei dato in alcun modo a vedere il mio dispiacere.
“Certo tocca a te essere forte. Ma io credo che tuo padre capirà che non sei più quella di una volta … e non farà o dirà nulla che possa ferirti” stavo giocando troppo con le parole e con il fuoco, a dosarle male avrei potuto finire bruciato.
“No … tu non lo conosci!” obiettò “Non è un prepotente ma sa come usare le parole”.
“Credimi Allie … posso assicurarti che non è così” ribadii “ci tiene troppo a te per pensare di condurre il gioco”
Sapevo che mi ero gettato troppo oltre; lo vidi nella sua espressione, che da abbattuta passo ad essere dubbiosa ed esitante. Avevo istillato sospetto in lei ed ero sicuro che mi avrebbe fatto sputare il rospo e sarebbero stati guai, guai seri. Si stava preparando una battaglia e si prevedevano molte vittime.
“Che cosa significa Tyler?” domandò. La vidi prendere un grosso respiro, preludio ad una sfuriata con i controfiocchi, mentre spegneva la cicca nel posacenere. Io la seguii a ruota, entrando di nuovo in camera e chiudendo la finestra, gettandomi finalmente alle spalle il freddo e l’umidità di quella notte.
“Ti prego Tyler” mi supplicò, portandosi le mani ai capelli dopo essersi levata a giubba “dimmi che non c’hai parlato davvero? Dimmi che me lo sono solo immaginata!”
Avrei voluto dirle che era proprio così, che era solo frutto delle sue paure se quelle strane idee le venivano in mente. Ma non potevo, anche perché di lì a poche ore ci saremmo visti e i nodi sarebbero venuti al pettine. Così la guardai e il mio solo sguardo avvilito bastò a farla capire … e ad esplodere.
“Come …” urlò, insensibile alla norma secondo cui nella struttura era assolutamente vietato ed impensabile un tale schiamazzo nel cuore della notte. Poi si frenò e si rese conto che forse era il caso di dare una regolata ai decibel ed inizio a sproloquiare sottovoce: “Come cazzo ti è venuta in mente una stronzata simile???” Se la situazione non fosse stata grave sarei di certo scoppiato a riderle in faccia: era troppo comica quando si incazzava.
“Io non lo so dove le vai a pescare queste tue brillanti idee … cos’è, Aidan ti ha regalato il manuale del coglione perfetto a Natale?” continuò “perché è incredibile … solo tu riesci a tirare fuori dal cilindro nel momento più inopportuno la cazzata perfetta!”
“Ma io … io …” cercai di replicare, ma davanti a me avevo un essere non meglio identificato di un colore che oscillava tra il cremisi e il blu cianotico. Lei che ogni volta che parlava mi terrorizzava, proprio lei aveva paura di affrontare un pezzo di pane come suo padre. “Ma io cosa?!” rimbrottò “sentiamo che altro hai da dire?”
“Io pensavo …” così non ce l’avrei mai fatta. Mi armai di tutto il coraggio che avevo e di quel poco testosterone che mi era rimasto e li usai per tenerle testa: “Io pensavo che avessi bisogno di una mano … qualcuno che andasse a spianarti la strada e a preparare i tuoi genitori”
“Io non ho parole” commentò lei, platealmente basita, andandosi a sedere ai piedi del letto “cioè tu hai fatto proprio l’ultima cosa che avresti dovuto fare!!!”
La vidi cercare di respirare a pieni polmoni, per incamerare aria e calmarsi. Mi sembrava proprio uno di quei tori scalpitanti delle corride, furiosi e insofferenti, che hanno voglia di far fuori una volta per tutte i loro carnefici. Mancava solo che il fumo le uscisse dalle narici.
“Sappiamo tutti e due che era una cosa che volevi anche tu” le dissi, gettandomi ai piedi del letto, di fronte a lei. Cercai anche di prendere le sue mani tra le mie, ma invano. “Tu non c’eri riuscita, così mi sono fatto avanti io”
“Ma nessuno te l’ha chiesto!” mi rimproverò, alzandosi in piedi, furibonda. “Questa è una faccenda che non ti riguarda … si tratta di me e della mia famiglia” spiegò, sforzandosi di mantenere la calma “non ho bisogno di nessuno che mi faccia da ambasciatore. Io mi basto per combinare casini. Non ho bisogno che tu ne aggiunga altri … non ho bisogno di te”
Quell’ultima frase mi gelò come nessun’altra mai pronunciata da lei aveva saputo fare. Ci eravamo già presi a parolacce prima d’ora, ma quel linguaggio era parte di lei come parte di me, non ci scalfiva né feriva. Ma questa volta era ben diverso: mi sentivo offeso, per tutte le volte che mi ero fatto avanti per lei, e rinnegato, per ogni volta che era stata lei a chiedermi il suo aiuto. Cosa era rimasto di quel aiuto reciproco che ci eravamo promessi … cos’era rimasto di quell’amicizia un po’ speciale che spesso a volte andava anche un po’ oltre? Datemi la macchina del tempo: vorrei tornare alla notte di Capodanno, vorrei essermi fatto i fatti miei, vorrei non averle detto nulla, vorrei non aver saputo nulla di suo padre, vorrei non averle mai fatto incontrare il mio. Se fosse possibile resettare tutto, sarei la persona più felice del mondo.

Ok perfetto” esclamai, sarcastico e distaccato “grazie a Dio non hai bisogno di me … vedi, basta che me lo fai sapere. Così la prossima volta che hai bisogno di sfamare la micetta è meglio che ti trovi qualcun altro” Voleva merda? E merda le avrei dato. Perché questa volta mi aveva fatto male ed era giusto che sapesse quanto come mi sentissi. Ero stato straordinariamente volgare, ma dentro mi sentivo come una terra arida ed incenerita dopo un incendio, con ancora qualche focolaio tra le sterpaglie carbonizzate.
Andò verso l’armadio e prese una coperta ed un cuscino di scorta. “Sai che non era quello che volevo dire” tentò di riparare al danno, disastrosamente, gettandomi quella biancheria addosso e rivelando in quel momento tutta la fragilità che aveva dentro. Ma non mi inteneriva, non in quel momento. “… e ora scusa” proseguì, indicandomi con gli occhi il tappeto sul pavimento sul quale, apparentemente, avrei dovuto trascorrere la notte “sono stanchissima, ne parliamo domani”.
La vidi sparire sotto le coltri del letto matrimoniale, ora troppo grande e freddo per dormirci da soli. E così rimasi con un palmo di naso, ferito e umiliato da una ragazzina maleducata e pure ingrata. Le sue parole mi riecheggiarono nella mente: non ho bisogno di te … ne parliamo domani. Ma era già domani …
“No” dichiarai, nel buio pesto della stanza appena tornata all’oscurità “ma non mi metto il cuore in pace finché non mi dici cosa c’è tra noi”
La vidi riemergere dalle lenzuola profondamente sconvolta. Evidentemente non si aspettava una reazione del genere. Onestamente, da me stesso, non me l’aspettavo nemmeno io.
“E questo cosa significa? Che … che cosa c’entra?” domandò lei, mentre si avvicinava a me.
“C’entra … perché se tra noi ci fosse qualcosa mi porteresti lo stesso rispetto che io porto a te. Te ne fregherebbe un po’ più di me … anziché trattarmi come se fossi il tuo schiavetto, da usare solo quando ti fa comodo!”
Eravamo arrivati al bivio dove non avrei mai voluto trovarmi, ma era il momento di affrontare la realtà. Le sarei sempre stato d’appoggio, magari nell’ombra, ma bisognava giocare quella partita ad armi pari. Dovevo poter smettere di vivere nell’illusione di un rapporto perfetto che era solo un’utopia, un sogno da cui dovevo risvegliarmi. Ora o mai più.
“Non c’è niente tra noi” affermò lei, evitando però accuratamente il mio sguardo “siamo solo … ami” “No!” proruppi “non mi prendere per il culo con la storia dell’amicizia …”. La ritenevo troppo intelligente per rifilarmi una stronzata del genere … o semplicemente ero troppo codardo io per ammettere che avevo perso. Non volevo credere alle mie orecchie, non volevo arrendermi a quella sconfitta.
“Non è così che si comportano due amici” ribadii, puntandole un dito contro “due amici non vanno mano nella mano per strada, non si baciano sulla bocca ma soprattutto due amici non fanno l'amore come l'abbiamo fatto io e te. Perché quello era amore Allison ... non sesso. Amici … amici un paio di palle!”
Mi guardò demoralizzata, come se non fosse sua la colpa della mia sfuriata, come se lei non potesse fare nulla per risolvere quella situazione. Evidentemente non ci credeva nemmeno lei a quello che aveva detto, perché se davvero non ci fosse stato niente tra noi, non saremmo finiti a letto insieme una, due, tre volte.
“Lo sai che mi piaci” confessò “il punto è che non posso avere una relazione seria!” “Piantala” sbottai di nuovo “non sei l’unica ad avere voce in capitolo! Esisto anch’io … ed io dico che siamo una coppia porca puttana!”
Presi il mio giaccone e le mie scarpe e me le rinfilai, facendo fatica ad allacciarmi i lacci per via del tremore che la rabbia mi aveva scatenato. Sentivo la sua voce che mi richiamava in lontananza, come ovattata. Forse mi stava chiedendo dove volessi andare, cosa volessi fare o forse mi stava pregando di non andarmene. Ma non volli curarmi più di lei che a lavare la testa all’asino si spreca solo il sapone. Presi il mio borsone e lo zaino, che non avevo avuto voglia di disfare, fregandomene di ciò che avevo lasciato e chiudendomi la porta alle spalle. Passai per la reception, scusandomi per gli eventuali rumori e saldando il conto per i tre pernottamenti che avevamo prenotato.
Quando il taxi arrivò mi feci condurre all’aeroporto: non avrei sopportato un altro calvario come quello dell’andata e oltretutto il mio biglietto era nella valigia di Allison. Non sapevo quanto avrei dovuto aspettare per un volo per New York, ma non mi importava. Non avrei resistito un minuto di più in quella città, insieme a quella ragazza.
Continuavo a provare per lei quell’amore che avevo sentito sin dall’inizio, perché altrimenti non avrei perso tempo ad arrabbiarmi così tanto, ma ora volevo solo mettere 700 miglia tra noi. Fui felice di scoprire che Allison non venne a cercarmi, né alla reception, né all’aeroporto, e quando mi dissero che avrei dovuto aspettare fino alle 6 per un volo con posti disponibili in Economy, non mi preoccupai molto di addormentarmi su una panchina di metallo. Avevo smesso di combattere per lei; aveva ragione, quella era la sua battaglia ora e non era certo di uno scudiero che aveva bisogno.

















NOTE FINALI

Mi dispiace portarvi un capitolo tanto triste proprio alla vigilia dell'anno nuovo.
Piange il cuore anche a me.

Sembra la fine...ma dietro una fine si nasconde sempre un inizio.

È solo l'attesa a renderci nervosi.
Vi dico solo una cosa...abbiate pazienza.

Grazie mille e spero che le recensioni aumenteranno ora che siete in vacanza

à bientot





Federica
   
 
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