Capitolo 22
Nobody's home
“Tu non puoi fare niente per convincerla, Tyler?”
“Non credo” risposi “sta già facendo tanto … e poi, mi scusi, ma se fossi nei suoi panni io non vorrei rivederla. Ragion per cui non la forzerò a fare qualcosa in cui non credo”
“Quando credi che potrò vederla?” chiese. Non so se non approfondì il mio commento per evitare discussioni in mezzo ad una strada o perché si rendeva conto che effettivamente avevo ragione. Non volli indagare perché sentivo che, in fondo, anche per me era meglio così.
“Domani mattina andremo al cimitero …” gli dissi, mentre mi sbracciavo per far avvicinare un taxi che si era fermato di fronte ad una casa poco più avanti. “Però non si faccia illusioni … Allison non è più la bambina che ha lasciato casa sua anni fa”
“Lo immagino…purtroppo”. Si lasciò scappare quel commento, ma non gli diedi peso. Molte delle cose che si era lasciato sfuggire, molte delle osservazioni che forse aveva represso nel corso degli anni, mi ero ben curato di lasciarle al vento, senza intervenire. Era il minimo che potessi fare, non farlo sentire in colpa; lasciarlo sfogare senza che sentisse il peso di alcun giudizio su di sé.
Gli strinsi la mano, congedandomi con un sorriso impercettibile, ed entrai nell’auto che mi aspettava.
Non avevo
considerato una cazzata quell’incontro pomeridiano con i signori Riley fin
quando non mi ritrovai faccia a faccia con Allison. O meglio; nonostante fossi
pienamente convinto ancora della mia innocenza e della mia buona fede, non
riuscii a confidarlo ad Allison, temendo una delle sue solite reazioni
spropositate. Lei non notò niente di strano e io feci in modo che lei non
accorgesse di nulla.
Risultato: la
cazzata da regolare stava diventando di dimensioni mastodontiche, il che complicava
inevitabilmente i miei sforzi per tenerla nascosta.
Nel frattempo,
ci si metteva anche una insolita tensione a complicare le cose; eravamo
entrambi tesi come due corde di violino, io inconsciamente reo di un non meglio
identificato crimine contro l’umanità e già sentivo la scure del mio
giustiziere penzolare sulla mia testa, lei atterrita, in bilico su un
precipizio con degli spietati inseguitori alle calcagna. Eravamo due cadaveri
ambulanti insomma.
La cena nella
tavola calda accanto alla pensione trascorse taciturna e nemmeno, per fortuna
aggiungerei, quando venne fuori che nel pomeriggio ero stato in giro per la
città, Allison sembrò interessarsi più di tanto. Ma io dico: perché ogni fottutissima
volta che dobbiamo fare qualcosa, finiamo sempre per complicarci la vita con
complessi e menate varie? Non sarebbe più facile lasciar scorrere gli eventi
come vengono, cavalcando semplicemente l’onda del momento?
No … non
saremmo noi d’altronde … due asociali complessati e depressi, perennemente
insicuri, troppo presi a rimuginare su di sé da badare al mondo che intorno a
loro continua la sua corsa. Avrei voluto volentieri alzare la testa e guardarmi
attorno, anche solo per un attimo, ma avevo paura di scoprire un mondo troppo
veloce per me, un mondo che non mi avrebbe permesso di raggiungerlo e mi
avrebbe lasciato troppo indietro, da solo. E così me stava rintanato nella mia
spelonca buia, in compagnia almeno dei miei pensieri.
Sebbene fossi
sveglio da ormai da un indecente numero di ore, stanco dal viaggio e da una
giornata ricca di altalene emotive, me ne stavo a pancia insù nella mia parte
del letto, con le mani dietro la testa ed ad occhi sbarrati. Allison, dal canto
suo, era altrettanto sveglia ed irrequieta. Indubbiamente aver dormito nel
pomeriggio non l’aveva aiutata, ma ero sicuro che non fosse quello il vero
problema; la radiosveglia sul comodino segnava le tre di notte: era da poco
maggiorenne e tra poche ore sarebbe stata sulla tomba di sua sorella. In più,
ma questo lei non poteva saperlo, avrebbe rivisto suo padre.
Mi chiesi se
fosse il caso di dirglielo, ma ne convenni che spiegarle il mio gesto sarebbe
stato una perdita di tempo, nel caso – le probabilità era vicine al 100% - non
avesse gradito.
Dopo aver
passato un’ora a rigirarsi tra quelle lenzuola ruvide, la vidi alzarsi. Al buio
della stanza, con le sole luci dei neon che venivano dalla strada, la vidi
prendere le sigarette e uscire sul balcone, in pigiama. Mi alzai a ruota, rivestendomi
alla svelta.
“Copriti o ti
prenderà un malanno” la rimproverai dolcemente, poggiandole sulle spalle il suo
giaccone. Lei lo strinse meglio a sé, infilandolo, ma sorridendomi appena con
la sigaretta tra le labbra.
“Sono andata
in giro meno coperta di così quando faceva anche più freddo” disse, poggiandosi
sulla ringhiera del balcone e portando via il suo sguardo “ e non mi sono mai
ammalata”
Era diversa,
negli ultimi giorni, era quasi cattiva. Era come se rimettersi addosso quel
nome, Mallory, la stesse sporcando di nuovo. Ma io non volevo questo per lei.
“Si può sapere
che ti prende?” le chiesi, infine.
“Forse venire
qui non è stata una buona idea …” rispose, finalmente dando voce ai suoi
pensieri.
“Vuoi
andartene?” domandai. Sapere che non era sicura di sé mi dispiaceva, ma mi
rassicurava sul nostro futuro.
“No … ormai ci
siamo e non si torna indietro” disse, prendendo il posacenere sul piccolo
tavolino del balcone e facendovi un po’ di cenere accumulata. Io nel frattempo
mi andai a sedere su una delle due sedie che erano sul balcone, anche se mi
accorsi ben presto che la mia idea non fu affatto saggia e mi ritrovai con il
sedere ghiacciato. “Oltretutto” continuò “voglio davvero andare da mia sorella.
Ma ho paura di vedere la mia famiglia … specialmente mio padre”
“Tuo padre?!”
chiesi, interdetto. Questa era una cosa che non mi aspettavo: del resto quando
le avevo dato la notizia della sua guarigione mi era sembrato, al contrario, un
incentivo alla sua decisione di partire.
“Non sei
costretta ad incontrarlo se vuoi” la rassicurai comunque, mentre mi accendevo
anch’io una bionda, per scaldarmi “sei libera di fare quello che vuoi. Sei maggiorenne
ora. A proposito … auguri!”
Mi alzai e
l’abbracciai in vita, mentre era ancora di spalle, e nonostante l’imbottitura
del piumino riuscii ad arrivare in quel punto del collo, appena dietro
l’orecchio, dov’era più sensibile. Purtroppo non parve gradire e si divincolò
immediatamente, appoggiandosi di schiena al balcone e guardandomi in faccia,
severa: “Essere maggiorenni non significa essere liberi” esclamò, con una
freddezza ed una malinconia devastanti e lo sguardo perso nel vuoto “essere
maggiorenni significa che inizi a fare le cose perché devi”
Iniziai a
preoccuparmi seriamente: l’avevo sempre ritenuta più grande della sua età,
un’adulta intrappolata nel corpo di una piccola donna. Eppure sentivo che c’era
qualcosa che andava oltre la sua incredibile maturità e quella sua saggezza a
volte un po’ naive.
“Perché dici
questo?” le dissi “nessuno può obbligarti a fare ciò che non vuoi. Non più”.
C’era stato un tempo in cui questo per lei non valeva, ma d’ora in poi sarebbe
dovuto essere solo un brutto ricordo, un cattivo esempio da tenere come monito.
“Sai che puoi
e devi dirmi tutto” la spronai. Come potevo aiutarla, d’altra parte, se si
teneva tutto dentro?!
“Di sicuro mi
prenderai per stupida …” disse, ma io negai, scuotendo vigorosamente la testa.
Come poteva solo pensare, ancora, dopo tutto quello che avevamo vissuto
insieme, che potessi prenderla per stupida? Non c’era niente in lei che non
andasse, niente che fosse stupido e valesse una battuta di scherno. “Ho paura
che rivedendo mio padre io mi senta in dovere di restare qui … ed io non voglio.
Non voglio neanche rivedere mia madre” aggiunse “ma so che lui finirebbe per
convincermi a farlo”
“Lui non lo
farebbe mai” mi lasciai sfuggire “non ti forzerebbe mai a fare qualcosa che non
vuoi”.
“Tu non
capisci” replicò “io non sono mai stata capace di dirgli di no!”
Forse allora
era più corretto dire che più che di suo padre, era di sé stessa che aveva
timore, e della sua capacità di non saper mantenere controllo e autorità sulla
situazione. Io le sarei stato vicino, innegabilmente, anche perché si trattava
di riportarla a casa con me, e se ieri vedevo la situazione buia e nera, ora c’era
una luce bianca e sfavillante alla fine del tunnel ed avrei fatto di tutto per
raggiungerla insieme a lei. Anche se, indubbiamente, la sua parola contava più
della mia e se alla fine lei avesse scelto di rimanere ad Indianapolis, non mi
sarei opposto e non avrei dato in alcun modo a vedere il mio dispiacere.
“Certo tocca a
te essere forte. Ma io credo che tuo padre capirà che non sei più quella di una
volta … e non farà o dirà nulla che possa ferirti” stavo giocando troppo con le
parole e con il fuoco, a dosarle male avrei potuto finire bruciato.
“No … tu non lo conosci!” obiettò
“Non è un prepotente ma sa come usare le parole”.
“Credimi Allie … posso
assicurarti che non è così” ribadii “ci tiene troppo a te per pensare di
condurre il gioco”
Sapevo che mi ero gettato
troppo oltre; lo vidi nella sua espressione, che da abbattuta passo ad essere dubbiosa
ed esitante. Avevo istillato sospetto in lei ed ero sicuro che mi avrebbe fatto
sputare il rospo e sarebbero stati guai, guai seri. Si stava preparando una
battaglia e si prevedevano molte vittime.
“Che cosa significa Tyler?”
domandò. La vidi prendere un grosso respiro, preludio ad una sfuriata con i controfiocchi,
mentre spegneva la cicca nel posacenere. Io la seguii a ruota, entrando di
nuovo in camera e chiudendo la finestra, gettandomi finalmente alle spalle il
freddo e l’umidità di quella notte.
“Ti prego Tyler” mi supplicò,
portandosi le mani ai capelli dopo essersi levata a giubba “dimmi che non c’hai
parlato davvero? Dimmi che me lo sono solo immaginata!”
Avrei voluto dirle che era
proprio così, che era solo frutto delle sue paure se quelle strane idee le
venivano in mente. Ma non potevo, anche perché di lì a poche ore ci saremmo
visti e i nodi sarebbero venuti al pettine. Così la guardai e il mio solo
sguardo avvilito bastò a farla capire … e ad esplodere.
“Come …” urlò, insensibile alla
norma secondo cui nella struttura era assolutamente vietato ed impensabile un
tale schiamazzo nel cuore della notte. Poi si frenò e si rese conto che forse
era il caso di dare una regolata ai decibel ed inizio a sproloquiare sottovoce:
“Come cazzo ti è venuta in mente una stronzata simile???” Se la situazione non
fosse stata grave sarei di certo scoppiato a riderle in faccia: era troppo
comica quando si incazzava.
“Io non lo so dove le vai a pescare
queste tue brillanti idee … cos’è, Aidan ti ha regalato il manuale del coglione
perfetto a Natale?” continuò “perché è incredibile … solo tu riesci a tirare
fuori dal cilindro nel momento più inopportuno la cazzata perfetta!”
“Ma io … io …” cercai di
replicare, ma davanti a me avevo un essere non meglio identificato di un colore
che oscillava tra il cremisi e il blu cianotico. Lei che ogni volta che parlava
mi terrorizzava, proprio lei aveva paura di affrontare un pezzo di pane come
suo padre. “Ma io cosa?!” rimbrottò “sentiamo che altro hai da dire?”
“Io pensavo …” così non ce l’avrei
mai fatta. Mi armai di tutto il coraggio che avevo e di quel poco testosterone
che mi era rimasto e li usai per tenerle testa: “Io pensavo che avessi bisogno
di una mano … qualcuno che andasse a spianarti la strada e a preparare i tuoi
genitori”
“Io non ho parole” commentò
lei, platealmente basita, andandosi a sedere ai piedi del letto “cioè tu hai
fatto proprio l’ultima cosa che avresti dovuto fare!!!”
La vidi cercare di respirare a
pieni polmoni, per incamerare aria e calmarsi. Mi sembrava proprio uno di quei
tori scalpitanti delle corride, furiosi e insofferenti, che hanno voglia di far
fuori una volta per tutte i loro carnefici. Mancava solo che il fumo le uscisse
dalle narici.
“Sappiamo tutti e due che era
una cosa che volevi anche tu” le dissi, gettandomi ai piedi del letto, di
fronte a lei. Cercai anche di prendere le sue mani tra le mie, ma invano. “Tu
non c’eri riuscita, così mi sono fatto avanti io”
“Ma nessuno te l’ha chiesto!”
mi rimproverò, alzandosi in piedi, furibonda. “Questa è una faccenda che non ti
riguarda … si tratta di me e della mia famiglia” spiegò, sforzandosi di
mantenere la calma “non ho bisogno di nessuno che mi faccia da ambasciatore. Io
mi basto per combinare casini. Non ho bisogno che tu ne aggiunga altri … non ho
bisogno di te”
Quell’ultima frase mi gelò come
nessun’altra mai pronunciata da lei aveva saputo fare. Ci eravamo già
presi a parolacce prima d’ora, ma quel linguaggio era parte di lei come parte
di me, non ci scalfiva né feriva. Ma questa volta era ben diverso: mi sentivo
offeso, per tutte le volte che mi ero fatto avanti per lei, e rinnegato, per
ogni volta che era stata lei a chiedermi il suo aiuto. Cosa era rimasto di quel
aiuto reciproco che ci eravamo promessi … cos’era rimasto di quell’amicizia un
po’ speciale che spesso a volte andava anche un po’ oltre? Datemi la macchina
del tempo: vorrei tornare alla notte di Capodanno, vorrei essermi fatto i fatti
miei, vorrei non averle detto nulla, vorrei non aver saputo nulla di suo padre,
vorrei non averle mai fatto incontrare il mio. Se fosse possibile resettare
tutto, sarei la persona più felice del mondo.
“Ok perfetto” esclamai,
sarcastico e distaccato “grazie a Dio non hai bisogno di me … vedi, basta che
me lo fai sapere. Così la prossima volta che hai bisogno di sfamare la micetta
è meglio che ti trovi qualcun altro” Voleva merda? E merda le avrei dato.
Perché questa volta mi aveva fatto male ed era giusto che sapesse quanto come
mi sentissi. Ero stato straordinariamente volgare, ma dentro mi sentivo come
una terra arida ed incenerita dopo un incendio, con ancora qualche focolaio tra
le sterpaglie carbonizzate.
Andò verso l’armadio e prese
una coperta ed un cuscino di scorta. “Sai che non era quello che volevo dire”
tentò di riparare al danno, disastrosamente, gettandomi quella biancheria
addosso e rivelando in quel momento tutta la fragilità che aveva dentro. Ma non
mi inteneriva, non in quel momento. “… e ora scusa” proseguì, indicandomi con
gli occhi il tappeto sul pavimento sul quale, apparentemente, avrei dovuto
trascorrere la notte “sono stanchissima, ne parliamo domani”.
La vidi sparire sotto le coltri
del letto matrimoniale, ora troppo grande e freddo per dormirci da soli. E così
rimasi con un palmo di naso, ferito e umiliato da una ragazzina maleducata e
pure ingrata. Le sue parole mi riecheggiarono nella mente: non ho bisogno di te
… ne parliamo domani. Ma era già domani …
“No” dichiarai, nel buio pesto
della stanza appena tornata all’oscurità “ma non mi metto il cuore in pace
finché non mi dici cosa c’è tra noi”
La vidi riemergere dalle
lenzuola profondamente sconvolta. Evidentemente non si aspettava una reazione
del genere. Onestamente, da me stesso, non me l’aspettavo nemmeno io.
“E questo cosa significa? Che …
che cosa c’entra?” domandò lei, mentre si avvicinava a me.
“C’entra … perché se tra noi ci
fosse qualcosa mi porteresti lo stesso rispetto che io porto a te. Te ne
fregherebbe un po’ più di me … anziché trattarmi come se fossi il tuo
schiavetto, da usare solo quando ti fa comodo!”
Eravamo arrivati al bivio dove
non avrei mai voluto trovarmi, ma era il momento di affrontare la realtà. Le sarei
sempre stato d’appoggio, magari nell’ombra, ma bisognava giocare quella partita
ad armi pari. Dovevo poter smettere di vivere nell’illusione di un rapporto
perfetto che era solo un’utopia, un sogno da cui dovevo risvegliarmi. Ora o mai
più.
“Non c’è niente tra noi”
affermò lei, evitando però accuratamente il mio sguardo “siamo solo … ami” “No!”
proruppi “non mi prendere per il culo con la storia dell’amicizia …”. La ritenevo
troppo intelligente per rifilarmi una stronzata del genere … o semplicemente
ero troppo codardo io per ammettere che avevo perso. Non volevo credere alle
mie orecchie, non volevo arrendermi a quella sconfitta.
“Non è così che si comportano
due amici” ribadii, puntandole un dito contro “due amici
non vanno mano nella
mano per strada, non si baciano sulla bocca ma soprattutto due amici
non fanno l'amore come l'abbiamo fatto io e te. Perché quello
era amore Allison ... non sesso. Amici … amici un paio di
palle!”
Mi guardò demoralizzata, come
se non fosse sua la colpa della mia sfuriata, come se lei non potesse fare
nulla per risolvere quella situazione. Evidentemente non ci credeva nemmeno lei
a quello che aveva detto, perché se davvero non ci fosse stato niente tra noi,
non saremmo finiti a letto insieme una, due, tre volte.
“Lo sai che mi piaci” confessò “il
punto è che non posso avere una relazione seria!” “Piantala” sbottai di nuovo “non
sei l’unica ad avere voce in capitolo! Esisto anch’io … ed io dico che siamo
una coppia porca puttana!”
Presi il mio giaccone e le mie
scarpe e me le rinfilai, facendo fatica ad allacciarmi i lacci per via del
tremore che la rabbia mi aveva scatenato. Sentivo la sua voce che mi richiamava
in lontananza, come ovattata. Forse mi stava chiedendo dove volessi andare,
cosa volessi fare o forse mi stava pregando di non andarmene. Ma non volli
curarmi più di lei che a lavare la testa all’asino si spreca solo il sapone. Presi
il mio borsone e lo zaino, che non avevo avuto voglia di disfare, fregandomene
di ciò che avevo lasciato e chiudendomi la porta alle spalle. Passai per la
reception, scusandomi per gli eventuali rumori e saldando il conto per i tre pernottamenti
che avevamo prenotato.
Quando il taxi arrivò mi feci
condurre all’aeroporto: non avrei sopportato un altro calvario come quello dell’andata
e oltretutto il mio biglietto era nella valigia di Allison. Non sapevo quanto
avrei dovuto aspettare per un volo per New York, ma non mi importava. Non avrei
resistito un minuto di più in quella città, insieme a quella ragazza.
Continuavo a provare per lei
quell’amore che avevo sentito sin dall’inizio, perché altrimenti non avrei
perso tempo ad arrabbiarmi così tanto, ma ora volevo solo mettere 700 miglia
tra noi. Fui felice di scoprire che Allison non venne a cercarmi, né alla
reception, né all’aeroporto, e quando mi dissero che avrei dovuto aspettare
fino alle 6 per un volo con posti disponibili in Economy, non mi preoccupai
molto di addormentarmi su una panchina di metallo. Avevo smesso di combattere
per lei; aveva ragione, quella era la sua battaglia ora e non era certo di uno
scudiero che aveva bisogno.
Mi dispiace portarvi un capitolo tanto triste proprio alla vigilia dell'anno nuovo.
Piange il cuore anche a me.
Sembra la fine...ma dietro una fine si nasconde sempre un inizio.
È solo l'attesa a renderci nervosi.
Vi dico solo una cosa...abbiate pazienza.
Grazie mille e spero che le recensioni aumenteranno ora che siete in vacanza
à bientot
Federica