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Autore: Mystica    16/08/2006    2 recensioni
Magneto, seduto nel parco, gioca una partita a scacchi contro se stesso. Che cosa ne sarà di lui, adesso che non è più un mutante? Mystica trama vendetta verso l'uomo che l'ha abbandonata proprio nel momento peggiore. E lo avvicina, adesso che è lui ad aver bisogno di aiuto...
Genere: Azione, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Erick Lensherr/Magneto, Raven Darkholme/Mistica
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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“Questo non sono io”

Seduto da solo ai giardini pubblici di fronte a una scacchiera, di quelle a cui di solito giocano gli anziani la domenica mattina, Eric Lenscherr sentiva tutto a un tratto il peso dei suoi anni. Era il tramonto, e un vento freddo gli si insinuava fra le pieghe del cappotto facendolo rabbrividire, ma l’uomo sembrava non farci neppure caso. Niente meritava più la sua attenzione. Neppure, e soprattutto, se stesso.

Per decenni il suo unico scopo era stato quello di ritagliare uno spiraglio di speranza per i mutanti in un mondo dominato dal razzismo degli esseri umani. Dall’odio. Dalla paura. E adesso, in meno di un attimo, era divenuto ciò che detestava di più.

Il leader spregiudicato della Confraternita, il temuto e rispettato Magneto, era stato costretto ad abbandonare una causa in cui ancora credeva, per il semplice motivo che, adesso, non era più necessario lottare. Se fosse sempre stato umano, si sarebbe sentito allo stesso modo, triste e privo di obbiettivi, un vecchio seduto al parco davanti a una partita di scacchi contro sé stesso lasciata a metà?

Ancora più amara era adesso la sconfitta, ricevuta a freddo appena giunto a un passo dalla sua grande vittoria. Dopo aver sacrificato tutto, tutto ciò che ancora gli restava. E per questo ritrovandosi, ora, ancora più solo. Distrattamente, Eric prese a giocherellare con le pedine che gli stavano davanti. “Per prima cosa mandiamo avanti i pedoni”, aveva detto una volta. I suoi pedoni li aveva sacrificati uno per uno, senza rimorso. Ma non era stato sufficiente.

D’istinto, tese una mano verso il re nero. Quindici o venti grammi d’acciaio che un tempo avrebbe potuto spostare senza neppure dover allungare le dita. Un tempo, quando era ancora lui stesso, il re nero.

La mano strisciò lentamente lungo la scacchiera. A pochi millimetri dalla pedina, Eric si immobilizzò. Non avrebbe potuto giurarlo, ma gli era sembrato di sentire scorrere, attraverso il palmo della mano e dentro le ossa, una sorta di energia. La stessa che sentiva quando il suo potere si manifestava ancora.

Emozionato, tese le dita. Il re nero oscillò leggermente sul tavolo.

Eric ritirò appena la mano, e la pedina tornò immobile. Temendo di aver immaginato tutto, l’uomo tentò di ripetere l’esperimento, concentrandosi al massimo. Attese. Di nuovo quella ondata di energia, e un leggero, impercettibile movimento della pedina. Eric, la fronte corrugata, si concentrò maggiormente sul suo obbiettivo.

Una mano sottile, dalle unghie accuratamente laccate, dette un leggero colpetto al re nero, che cadde a terra. Una giovane donna dai lisci capelli corvini si sedette davanti a Eric, appoggiando il mento sul palmo della mano. L’uomo alzò lo sguardo, furente. Sul volto di lei era dipinto un sorriso sardonico.

- Raven…- mormorò lui, in un misto d’incredulità e collera. La donna sembrava perfettamente a suo agio, quasi divertita. Socchiuse gli occhi, lanciando a Eric un’occhiata penetrante.

Si fissarono, immobili, per qualche momento, poi Raven Darkholme parlò.

- E così ti sei perfettamente calato nella tua nuova parte, Eric.- era decisamente divertita- Adesso neppure tu servi più a niente.

Aveva fatto centro, si era presa la sua rivincita. Magneto l’aveva respinta, abbandonata quando lei aveva perso i suoi poteri e lei, da quel momento, era rimasta a scrutare da lontano, in attesa, come un corvo malvagio. Eppure, Eric era perfettamente consapevole che Raven non si sarebbe mai accontentata di una rivincita, per così dire, morale.

- Che cosa vuoi, Raven?- chiese, tentando di conservare il suo normale tono pacato.

Lei sorrise, non era facile ingannarla. Eppure, adesso sembrava essere sparita ogni traccia di derisione dal suo volto. Eric si chiese dove volesse andare a parare.

- Dopo tutto quello che hai detto, ti confesso che venire a cercarti ha costituito un’ulteriore aggressione al mio orgoglio. Ma la tua punizione l’hai avuta, siamo pari.

Sembrava sincera. Solo infondo al suo sguardo, brillava ancora una malizia che neppure la “Cura” era stata in grado di cancellare. Eric decise di ignorarla, sicuro che avrebbe saputo trarre qualche vantaggio dalla situazione. Sempre meglio che restarsene seduto al parco a rimpiangere il passato.

- Dunque, che cosa vuoi da un povero vecchio?- ripeté, l’angolo sinistro della bocca piegato in un amaro, ma ancora ironico sorriso. Raven lo osservò di nuovo, a lungo, prima di rispondere. Sembrava non avere fretta.

- Voglio sapere se hai intenzione di arrenderti, Eric. L’uomo non replicò. Cosa significava? Raven, per molto tempo, era stata un’abile alleata. Il suo braccio destro. Adesso, però, sembrava un’estranea a causa di quell’odio neonato che manifestava, così forte che a stento riusciva a nasconderlo, nei suoi confronti.

Non si era soffermato a interrogarsi sul “giusto” e lo “sbagliato”, quando stava inseguendo il suo ideale. Non lo avrebbe fatto neppure adesso, se non si fosse trovato in quelle condizioni. Tuttavia, alla luce dei fatti, com’era possibile non nutrire, infondo alla coscienza, la consapevolezza di aver agito in modo troppo avventato? Forte come non mai, Eric sentì il peso della sua improvvisa solitudine.

- Cosa stai cercando di dirmi?

Raven sorrise.

- Non posso raccontarti tutto, Eric. Non sei più il capo.

- Ma sei venuta qui a chiedere il mio aiuto.

Era una mossa azzardata, ma aveva fatto centro. Raven impallidì leggermente. Fino a quel momento, era stata lei a tenere le redini del gioco, fingendo di avere una soluzione infallibile a tutti i loro problemi; però, che senso aveva essere da sola in possesso di una soluzione, se per attuarla era necessario l’aiuto di lui?

- Dunque, ammettiamo che io non mi sia ancora arreso- continuò, con voce melliflua. Adesso aveva la situazione in pugno- cosa avresti da propormi?

- Ascolta. La “Cura” funziona come un vaccino. Se riuscissimo a invertire il potere del bambino che la produce, potremmo farla diventare un virus. Infondo, da secoli si parla della “malattia” dei mutanti.

Eric aveva drizzato le orecchie. L’idea era decisamente buona. Raven aveva imparato bene. Tuttavia, rimaneva un piccolo dettaglio. Naturalmente, esisteva anche la soluzione, ma perché rivelarla adesso?

- Come pensi di procurarti il bambino? Ti ricordo che adesso sei umana.

- Credi davvero di potermi ingannare? Sei stato il mio mentore, ma ciò significa anche che ho imparato a conoscerti. Non sei il tipo da starsene con le mani in mano, ti sarai accorto di stare lentamente recuperando i poteri.

Eric sorrise sinceramente.

- Sono ammirato, Raven.

Lei si chinò verso di lui, sorridendo a sua volta. Raccolse il re nero fra due dita, lo fissò per un attimo. Poi lo sollevò, rimettendolo in piedi sulla scacchiera.

- Per favore, Magneto, smettila di chiamarmi con quel nome.

***

La sede della Confraternita dei Mutanti era vuota, sinistra nella luce appena percettibile dell’alba.

Rimuginando sull’incontro della sera prima, Magneto non era riuscito a chiudere occhio. Aveva preso un libro da uno scaffale, ma l’aveva richiuso dopo essersi accorto di dover leggere tre volte ogni rigo prima di riuscire a porvi attenzione.

p>Verso le quattro e mezza si era alzato e aveva disseppellito dall’armadio la sua giacca nera. Riponendola il più lontano possibile dalla sua vista, aveva giurato a sé stesso che non l’avrebbe più indossata. Ma adesso era tutto diverso.

Domandandosi se per caso non stesse inseguendo un’utopia, aveva guidato fino al vecchio quatrier generale, un complesso di locali scavato nella roccia a picco sul mare. Dentro regnava il silenzio, eccezion fatta per le onde che si infrangevano contro gli scogli, parecchi metri più in basso.

Quello era il luogo dove aveva concepito progetti ambiziosi, a volte rasentando la fantasia. Dove aveva dato ordini, ricevuto informazioni, elaborato strategie affiancato da mutanti che condividevano il suo sogno.

“Come un vecchio che ha bisogno di una ragione di vita”, pensò. Ma sapeva di essere diventato troppo severo con sé stesso. Stava condannando l’ambizione di tutta la sua esistenza solo perché adesso gli sembrava così difficile da realizzare.

“Dovrei fidarmi un po’ di più di Mystica” pensò fra sé “Oppure cominciare ad aspettarmi qualche vendetta veramente terribile”. Non potè fare a meno di sorridere a se stesso. Era qualcosa di misterioso come la mutante gli fosse ricomparsa davanti, d’improvviso, con le informazioni che aspettava, come ai vecchi tempi. Solo che stavolta lui non gliele aveva chieste, le informazioni. Dopo tutto quello che era successo, Magneto credeva di conoscerla bene, ma forse non era così.

L’attenzione dell’uomo fu attratta dalla scrivania, un colosso di legno scuro nel lato destro della stanza. Sul ripiano, abbandonati un po’ alla rinfusa, c’erano ancora tutti gli oggetti che, dopo gli ultimi eventi, non era mai tornato a prendere.

Tra questi, un vecchio pendolo di metallo, di quelli che servono a dimostrare la conservazione dell’impulso: l’urto tra le sfere, appese ad un asticella le une a fianco delle altre, trasmette il movimento attraverso tutte loro facendole rimbalzare. Un tempo, Magneto era in grado di imprimere il movimento a quella struttura con la sola forza del pensiero.

Un tempo, Magneto era in grado di piegare il metallo ma, ancora più importante, era in grado di piegare le menti degli uomini. Con una sola parola, smuoveva le masse. Sospirando, sedette alla scrivania, gli occhi puntati sul pendolo, in attesa. Non successe niente. Senza lasciarsi scoraggiare, l’uomo avvicinò il volto ancora di un palmo. Era così concentrato che neppure osava sbattere le palpebre. Gli occhi presero a bruciargli un po’, ma non ci fece caso.

Allungò una mano, arrivando quasi a sfiorare le piccole sfere argentate che, immobili, lanciavano luccichii beffardi in tutte le direzioni. Si lasciò sfuggire un’imprecazione a mezza voce. Poi, la fronte aggrottata per la concentrazione, mosse appena la mano tesa.

Il pendolo fu percorso da una lievissima vibrazione.

Magneto si allontanò di scatto, quasi intimorito. Mystica dunque aveva ragione. I suoi stessi occhi, quella mattina al parco, non l’avevano ingannato. Si sentiva nuovamente carico di energia, di speranza. Quasi che fosse in grado di percepire quelle emozioni, il pendolo sul tavolo prese a scuotersi, tintinnando.

L’uomo lo fissò per qualche istante, poi tese la mano in avanti: fermati. Non successe niente. Magneto aveva riacquistato parte del suo potere, ma non era in grado di controllarlo. Non sarebbe stato in grado di competere nemmeno lontanamente col vecchio se stesso. Perfino da adolescente, quando il suo dono si era appena manifestato, dominarlo si era rivelato più semplice di ora.

- FERMATI!

Con un brusco gesto del braccio, l’uomo colpì il pendolo violentemente, mandandolo a infrangersi contro il pavimento di pietra. Si accasciò sulla sedia, prendendosi la testa tra le mani. Sentiva il sangue ribollire nelle vene per la collera.

Era davvero giunto il momento di prendere una decisione.

  
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