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Autore: Satomi    31/12/2011    2 recensioni
[Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - What if? -]
Una storia č un mazzo di carte, un susseguirsi di personaggi e situazioni: c’č chi osa, chi resta sul sicuro, chi si scopre all’ultimo, chi tende a restare nell’ombra.
Per cambiare una storia non serve stravolgerne l’inizio e la fine.
Basta rimescolare le carte in tavola.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. Il valore delle cose

 


“Por Dios!
Ferma!”
Una donna, facendosi largo tra la folla ammassata presso il mercato, fu lesta a raggiungere suo figlio e a trascinarlo via, prima che due pesanti zoccoli lo schiacciassero. Pur tentata di assestare sulla guancia del pargolo imprudente un sonoro ceffone, preferì prendersela col colpevole che la stava fissando con occhi sbarrati, lì sopra il carro fermato appena in tempo.
“Ohe, donna!” A Ernesto Perez non occorse molto per riaversi dalla sorpresa. “Badate a tener d’occhio vostro figlio piuttosto che gridare come una cornacchia!”
“Locotròn!” gridò lei prima di scomparire tra la folla, trascinandosi dietro un bambino alquanto riluttante. “Gentaglia” borbottò il carrettiere mentre faceva ripartire Azogue. “Come se non conoscessi quel disgraziato! Era lui che l’altro giorno cercava di soffiarmi due mangli, n’è vero, Sol?” La bambina, svegliatasi da poco, annuì vigorosamente: ricordava bene, visto che era stata lei a far fuggire il ladro lanciandogli un sasso; era stato molto buffo vederlo ruzzolare in strada colpito dritto negli stinchi. Perfino suo padre, poco propenso a vederla comportarsi come una monellaccia, aveva dovuto ammettere ch’era stato un colpo da maestro.
Comunque, per sicurezza, preferì empirsi le tasche con un paio di pietre quando il carro si fermò al solito posto; v’era sempre qualcuno pronto a profittare delle distrazioni del venditore per portar via un cocco o un ananasso. Suo padre, poveretto, non era più giovane e più d’una volta aveva la testa tra le nuvole, come quel giorno che era tutto intento a contemplare qualcosa appena tolta di tasca.
“Che sarà mai questo affare?” stava pensando Perez, mentre faceva rimbalzare sul palmo della mano un oggetto assai singolare: era composto di una sottile cannula che s’ispessiva a un’estremità e terminava con una sorta di piccola sfera cava. L’aveva trovato la sera prima, mentre tornava a casa, sul selciato nei pressi della taverna d’El Toro, ancora sottosopra dopo la lotta che ivi s’era scatenata. “Dubito che qualcuno potrebbe reclamarlo” concluse; stava per metterlo via quando si vide indosso un paio di occhi curiosi.
“Che hai, niña?” Sol non rispose, fissando con insistenza il piccolo oggetto tra le dita del padre; luccicava al sole, e questo l’aveva attirata. “Bah! Non ha valore alcuno. Prendilo, se lo vuoi” disse Perez con un’alzata di spalle, porgendoglielo; la bambina si passò attorno al collo la sottile catena qui il suo nuovo giuoco era attaccato, eccitata come dinanzi a un sacchetto di dolciumi. “Non perderci troppo tempo” la rimbrottò il padre. “E bada alle frutte.”
Non occorse molto prima che il lavoro quotidiano lo travolgesse: il frastuono della folla, le grida lanciate per attirar clienti, le contrattazioni, la mente forzata per tener dietro a tutti i conti; un paio di mani ladresche s’avventarono fameliche sui banani prima d’esser di subito allontanate. In verità Perez non vide tutto ciò di persona, occupato com’era con due vecchie conoscenti, ma fu certo d’aver udito un chiaro mugolio di dolore. “Se solo i clienti fossero di più” pensò afflitto; tornò a gridare, sebbene la gola avesse preso a fargli male.
E in quel momento un fischio acuto lo fece sobbalzare. “Buon Dio!” esclamò sturandosi l’orecchio mancino; Azogue, che oltre a essere vecchio era anche mezzo sordo, non fece un piega e seguitò ad agitare la coda per scacciare le mosche. “Che è stato?” domandò Perez alla figlia, seduta sul bordo del carro e con in bocca lo strano oggetto; lei lo fissò birichina, soffiando nella cannula e ricavandone ancora il suono di prima. Più d’un curioso si fermò a fissarla mentre forzava i suoi piccoli polmoni per suonare quel bizzarro strumento.
“Begli ananassi, señor. Quanto costano?”
Chissà, magari quella sarebbe stata una giornata migliore del solito.
 

*


Ch’ulel dispose accanto a sé, colla cura e la precisione dovuta all’abitudine, un fascio di bende pulite e un vasetto contenente un qualche preparato; solo allora s’avvicinò al ferito, prendendo a mettergli a nudo il petto. “Dove avete trovato costui?” domandò Carmaux al conte di Ventimiglia che gli sedeva accanto. Enrico e Honorata erano scesi giù per la colazione, essendo ormai il sole già alto in cielo.
L’ex-Corsaro sorrise. “In verità è stato lui a trovare me e mia moglie” rispose poi.
“Non capisco.”
“Ricordi quando, diciassette anni orsono, naufragammo sulle coste della Florida e fummo fatti prigionieri dai Caraibi?”
“Fulmini! Saremmo diventati il banchetto di quei diavoli se l’allora duchessa non ci avesse riconosciuti!”
“Ch’ulel era uno di essi, sebbene a quei tempi fosse ancora un ragazzo.” Ignorando, almeno in apparenza, l’occhiata sbigottita del marinaio, il conte continuò a narrare: “Quando io e Honorata, dopo aver preso il largo con una delle canoe, sbarcammo per riposarci, ci accorgemmo che un’altra imbarcazione ci aveva seguiti: era Ch’ulel che, per fedeltà a quella che per lui continuava a essere la sua regina, non aveva voluto abbandonarla. Ci chiese di portarlo con noi, assieme a sua sorella che allora non aveva che pochi anni, e noi accettammo. E debbo ammetterlo, fu una felice decisione.”
“Grazie, signore” disse Ch’ulel che, pur lavorando, non s’era perduto una parola del racconto; stava per applicare sulle ferite di Carmaux il proprio composto, un olio di iperico molto utile alla cicatrizzazione, quando si accorse che il marinaio era prossimo a scansarsi. “L’uomo bianco ha paura di me?” domandò quasi ironico.
“Ventre di pescecane! Sei uno di quelli che volevano banchettare colle mie carni!” Carmaux gettò al suo antico capitano un’occhiata preoccupata. “Signore, vi è da fidarsi di costui?” chiese, un po’ timoroso.
“Non temere, mio bravo” fu la tranquilla risposta. “Se può esserti di consolazione, sappi che Ch’ulel non ha sangue caraibo nelle vene; venne accolto in quella tribù dopo essere fuggito dalla propria, devastata dalla furia spagnuola. In verità è un figlio del Darien, che ha ereditate dai suoi antenati eccellenti doti mediche.”
“Però non s’imbarazzava a divorare dei poveri naufraghi!”
“Ho abbandonate da tempo quelle abitudini” disse Ch’ulel. “Ora sta’ fermo, uomo bianco.” L’olio di iperico, spalmato con abilità sul petto e la spalla dolorante, diede a Carmaux una piacevole sensazione di benessere che lo spinse a lasciarsi andare, socchiudendo gli occhi, mentre l’altro terminava di fasciarlo. “Ottimo” sentì dire dall’ex-Corsaro. “Va’ di sotto, ora, e di’ a tua sorella di portare qualcosa da mangiare; il nostro amico ha bisogno di rimettersi in forze.”
Carmaux sorrise appena. “Non ho molta fame, in verità” ammise poi con voce triste. Il conte di Ventimiglia, che aveva appena chiusa la porta, sospirò. “Se non sapessi delle preoccupazioni che s’annidano nel tuo animo” disse, “stenterei a riconoscere in te il mio vecchio marinaio.”
“Ah, capitano! Il mio appetito è ancora robusto, credetemi, ma...”
“Lo so, Carmaux. Ma non sentirti in colpa, perché non sei responsabile di quanto è accaduto.”
“Voi avete ragione, mio capitano” mormorò il filibustiere. “E io ci provo, perché i se son buoni solo a rodersi l’animo.” Sorrise ancora, sebbene non vi fosse che un’ombra della sua consueta allegria, ma ciò non sminuì l’ammirazione del conte nei suoi confronti: un altro, forse anche lui stesso, avrebbe perduta ogni speranza nel sapere il proprio compagno in mano nemica e con poche possibilità di uscirne vivo. Carmaux, invece, era ancora pronto a lottare.
“Il capitano Morgan deve sapere quanto prima” disse il marinaio dopo alcuni istanti di silenzio. “Saremmo dovuti partire iersera col nostro ostaggio.”
“Era nei nostri progetti raggiungere la Nuova Castiglia questa sera stessa” rispose il conte. “Ma viste le tue condizioni...”
“Allora partiremo stasera” affermò l’altro con decisione.
“Non forzare le cose, mio bravo. Non ti sei ancora ripreso.”
“Sto meglio, signore; non possiamo attardarci ancora, e da qui alla baia di Amnay occorrono quasi diciotto ore di navigazione. Una baleniera non può fare di più.”
“Ma una fregata sì.”
“Capitano, riflettete. Se puntiamo dritti verso la baia colla vostra nave ci prenderanno a cannonate prima ancora di poter reagire; crederanno d’aver a che fare con un qualche vascello spagnuolo.”
“Hai ragione, Carmaux” annuì il conte di Ventimiglia. “Hai dunque intenzione di precederci per informare Morgan e la sua flotta circa la nostra presenza?”
“Proprio così, signore.”
“Sia, ma mi rifiuto di lasciarti andare solo; sei ferito, potresti venir meno durante il viaggio e senza un adeguato soccorso... no, hai bisogno d’un compagno, e quel compagno sarò io.”
“Voi, capitano!” esclamò il marinaio.
“Odo stupore nella tua voce, Carmaux. Non mi ritieni adatto ad affiancarti?” Le labbra dell’ex-Corsaro si curvarono in un lieve sorriso. “Sono ancora uomo di mare, in fondo.”
“Oh no, signore, non oserei mai! Ma... non credete sia imprudente lasciare la fregata senza comandante?”
“Sei in errore, vecchio mio. La Nuova Castiglia ha già il suo capitano.”
“Chi è?”
“Enrico, mio nipote” fu la semplice risposta. “La nave è sua, e lui stesso ha scelto personalmente l’equipaggio; sono stato io ad appoggiarmi a lui per quest’impresa, non il contrario.” A interromperlo intervenne un discreto bussare sull’uscio. “Ah, dev’essere Chtilali colla tua colazione. Avanti!”
In effetti era proprio la serva indiana, che entrò nella camera con una ciotola fumante in mano. “La padrona vi attende di sotto” disse all’ex-Corsaro. “Prima che si freddi tutto.”
“Anche mia moglie ha le sue ragioni.” E il conte s’alzò con uno scatto repentino che non si sarebbe immaginato in un uomo che, a giudicare dai capelli striati di grigio in abbondanza, aveva ormai passata la cinquantina. “Mangia, Carmaux, e cerca di riposare.”
“Lo farò, capitano.”
“Allora a questa sera.”
 

*

Il signor Perez stava per far avviare il carro quando sentì qualcuno tirargli la manica. “Ebbene?” borbottò all’indirizzo del seccatore. “Oh, voi Gonzalo” disse dopo averlo riconosciuto. “Fate in fretta, mi attendono a palazzo.”
Gonzalo si morse il labbro prima di rispondere. “È stata lei, n’è vero?” mormorò all’orecchio di Perez con tono da cospiratore.
“Lei chi?”
“Vostra moglie. A farvi far tardi stanotte.”
“Eh, magari!” fece il fruttaiolo con un sospiro. “Avrei avuto un risveglio più piacevole.” Gonzalo, consapevole dell’equivoco, non ebbe tempo di spiegarsi giacché l’altro si stava già allontanando, una mano che s’agitava in segno di saluto. “Quel giovanotto ne ha di fissazioni: sempre a far domande su Nora” rifletté. “Non nego ch’ella sia una donna ben strana, ma diavolo, ne ho di sale in zucca da capire se ho dinanzi una strega o meno!” Diede un sonoro colpo sul dorso di Azogue per fargli accelerare il passo, ottenendo in risposta un nitrito che tanto sapeva di fastidio.
“Quel Gonzalo non sa cosa sia la riconoscenza, questa è la verità” rimuginò poi Ernesto Perez. “E pure credevo che la guarigione di sua moglie gli fosse servita di esempio. Ohe, Sol!” chiamò poi verso il retro del carro. “Che ha combinato stanotte quella briccona di tua madre? Ancora coi suoi decotti?” Non ottenendo risposta si girò, vedendo come la figlia fosse fin troppo occupata per sprecar parole con lui.
“Ah, monella!” sbottò, allungando una mano all’indietro per afferrare il cesto della colazione. “Monella e ladra! Volevi soffiarti tutto il pranzo?” La ragazzina, con in bocca un generoso pezzo di frittata, avrebbe volentieri risposto se il padre non l’avesse frenata. “Ah, taci! Non si parla colla bocca piena, maleducata.” Si contentò quindi di scoccargli un’occhiata imbronciata.
“Ma guardala, ora mi mette anche il muso!” borbottò Perez. “Se non le volessi un bene dell’anima, l’avrei già riempita di quelle carezze che si convengono alle monellacce come lei.” Addentò di malavoglia un biscotto, mentre la figlia ben si guardava dallo stargli vicino, temendo forse di buscarsi uno scapaccione.
“Oh, eccoci finalmente!” esclamò vedendo dinanzi a sé il palazzo del governatore. “Ferma, Azogue!” Più che il richiamo occorse una buona tirata di redini per frenare il semi-sordo cavallo. Perez si stiracchiò in tutta la sua lunghezza, tirando poi per un braccio Sol affinché scendesse con lui. “Se ti lascio qui col cesto non trovo nulla al ritorno, golosa come sei.” E con un dito stuzzicò la pancia della ragazzina, strappandole un gridolino irritato. “Ah, taci! Metti tutto qui e niente qui” replicò picchiettando col medesimo dito sul suo capo. “Quando ti deciderai a crescere?”
“Ohe, señor! Vogliamo far notte?”
Perez sospirò, rispondendo al richiamo della corpulenta donna comparsa sulla soglia della porta che dava sul retro. “Il sole è ancora alto, Juanita” replicò poi.
“Non se continuate a muovervi con quel vostro passo da tartaruga!”
Por Dios! Siete una serva o no? Dunque state al vostro posto!”
“Non arruffate le penne, señor” fu la pronta risposta di Juanita. “Non siete più nobile di me.” La serva gettò un’occhiata al carro di frutte. “È meno pieno del solito” constatò.
“Oggi ho venduto di più.”
“Ogni tanto Dio si ricorda di voi.”
Perez alzò le spalle, una mano che si posava sulla testa della figlia. “Un po’ di merito è anche suo” si disse, pensando a come la ragazzina, col suo curioso oggetto che mandava fischi, avesse attirato parecchi clienti. “Perlomeno sua madre la smetterà di lamentarsi perché la porto con me.”
In quel momento Juanita batté con forza le mani, facendo sì che due robusti negri accorressero per scaricare le frutte. Perez ne approfittò per entrare, e subito un insieme di odori assai vari gli solleticò le nari: la cucina del palazzo era così, il regno dei fumi e dei vapori che aleggiavano nel già angusto ambiente, riempiendolo di una calda e odorosa nebbia. Il ben di Dio che ogni volta gli si presentava dinanzi era tale che non poteva biasimare, né rimproverare due piccole mani che spesso e volentieri sottraevano qualcosa dai tavoli; fosse stato più piccolo, ci avrebbe provato anche lui.
Nel viavai di gente spuntò fuori la capocuoca, il ventre già pieno di suo dilatato dai vapori. “Il solito?” domandò all’indirizzo del fruttaiolo, una volta che fu a portata dei suoi orecchi.
“Come sempre.”
“Ecco qua” disse lei mentre gli porgeva il sacchetto col compenso pattuito. “Questo è da parte mia” aggiunse poi posandogli due monete sul palmo aperto. “Il mio povero stomaco sta meglio grazie a quelle erbe; ringraziate vostra moglie.”
“Riferirò.”
“Quella donna è stata la vostra fortuna, señor.” La capocuoca inclinò il capo abbronzato, i pugni grassocci ben stretti sui fianchi. “Prima che arrivasse lei eravate un poveraccio qualunque, e ora rifornite nientemeno che il palazzo del governatore.”
“Lo so.”
“Cercate di non dimenticarlo.”
“Ohe, d’improvviso siete diventata amica di mia moglie?’” domandò Perez, sospettoso. Ottenne in risposta una risata. “Sapete meglio di me come Nora parli poco” disse la capocuoca. “Non ha amici né tantomeno confidenti, causa certe brutte voci che girano. Bah! Una strega, se tale è, non porta fortuna e non fa del bene alla gente.”
Il fruttaiolo si grattò il capo ormai ingrigito, mentre pensava alla donna che anni orsono s’era legata a lui, portando seco una discreta dote. Secondo alcuni aveva operato su di lui un qualche sortilegio, pur d’accalappiare qualcuno che l’impalmasse e la rendesse rispettabile. Ma Perez era troppo sicuro del suo buonsenso da credere d’esser stato stregato: Nora aveva mostrato interesse per lui e gli aveva donato la figlia che aveva sempre desiderato, lì dove la precedente moglie aveva fallito. Tanto gli bastava.
Mentre pensava a Sol gli venne spontaneo girarsi verso di lei: la vide colle guance innaturalmente gonfie, non dissimili da quelle d’una rana. “Manda giù e posa le mani, prima che te le faccia tagliare dai servi” minacciò la capocuoca facendolo sobbalzare; la ragazzina inghiottì i due datteri con una foga tale da rischiare di soffocare.
“Attendimi fuori” le disse il padre e lei non esitò a obbedire, pur rammaricandosi di non aver potuto riempirsi le tasche. Pensò che la vita doveva esser davvero strana, se quelli come lei avevano sempre fame e le riccone, stando a ciò che diceva la mamma, mangiavano come uccellini. E sì che godevano di tutto quel ben di Dio!
Sol, ancora tossicchiando per via dei datteri ingeriti in tutta fretta, gettò un’occhiata fuori: i negri che stavano presso il carro non avevano terminato di scaricare le frutte, e lei preferì non avvicinarsi; quei grossi uomini color carbone le facevano tanta paura, come ogni volta che ne incontrava uno al mercato. Decise così di restare nel palazzo, e profittando del fatto che il padre era ancora occupato colla capocuoca prese la scalinata che portava al piano superiore, in genere usata dai servi. Sua Eccellenza non scendeva mai, solo qualche soldato veniva lì, agguantava una sguattera e se la portava in un angolo; a farci cosa, non lo sapeva. Se provava a chiederlo al padre lui le mollava uno scappellotto dicendo che non era roba per lei.
Il suo sguardo cadde subito sul tappeto che copriva il pavimento; non era la prima volta che lo vedeva, eppure a ogni occasione si perdeva a fissare quei motivi colorati e geometrici che tanto le piacevano. Si riscosse solo quando udì il passo cadenzato d’un soldato, e s’affrettò a nascondersi dietro il consueto mobile nell’angolo; i movimenti silenziosi e il suo corpo minuto le permisero di non farsi scoprire, come sempre.
Sol avrebbe voluto addentrarsi nei meandri del palazzo, per scoprire dov’era tenuta la ragazza che aveva visto arrivare una settimana prima. Aveva lunghi capelli neri che le scendevano sulla schiena, l’abito tutto bianco e un cappellino piumato che tanto avrebbe voluto possedere anche lei; una principessa senza dubbio, bellissima come quelle dei racconti della mamma. In quei giorni era salita col desiderio di poterla rivedere, anche solo per un attimo, ma era sempre stata delusa, come in quel momento. Stava per tornare giù, imbronciata, quando la sua attenzione cadde su una porta in fondo al corridoio; non era chiusa, contrariamente al solito, e questo la spinse ad avvicinarsi, non prima di aver controllato con cura che non vi fosse nessun soldato nelle vicinanze.
La sua curiosità sfumò quando s’accorse che oltre la pesante porta di ferro vi erano delle scale che conducevano verso un buio fittissimo; preferì non proseguire, impaurita, ma delle voci le giunsero agli orecchi e questo la spinse a restare sulla soglia socchiusa, in ascolto.

A un gesto del governatore il soldato lasciò andare il prigioniero, che cadde con un tonfo sul pavimento della cella.
“Resta a guardia della scala.” Il conte di Medina fu prontamente obbedito, e solo allora riprese a parlare: “Siete caparbio, signore.”
Wan Stiller non rispose, ansimante, contentandosi di sputare qualcosa che alla luce della torcia somigliava tanto a un dente.
“Tenere la bocca chiusa non vi gioverà.”
“Come gli odori di questo posto non gioveranno al vostro nobile naso.”
“Meno spirito, non siete nelle condizioni di farlo.”
“Se vi fosse qui Carmaux!” pensò con un lieve sorriso l’amburghese; lui sì che avrebbe fatti saltare i nervi a un’intera guarnigione, come quella volta a Puerto Limon, con cinquanta soldati dietro la barricata e lui a fumarsi un sigaro e a pigliare pel naso il capo del drappello. In quel momento, però, era più che contento di non avere con sé il suo compare.
Wir konnten… einen Pakt machen.”  (*)
Wan Stiller, all’udire dopo tanto tempo quella lingua ch’era sua, non potè trattenersi dal sobbalzare, pur tentando di trattenere quella reazione improvvisa. Il governatore, con suo rammarico, se ne accorse comunque. “Mi avete inteso?” domandò infatti.
“No.”
“Mentite; nessun uomo dimentica la sua lingua natale, e voi non siete diverso dagli altri, Herr Wan Stiller. Oh, eccovi a sobbalzare ancora” constatò il conte: questa volta era stato più difficile, per l’amburghese, celare lo sbigottimento che certamente provava. “La luce è fioca, ma sul vostro volto vedo sorpresa e timore.”
“Come...”
“Mastico un po’ la vostra lingua, abbastanza da riconoscerne l’accento quando lo odo; quanto al vostro nome, credo l’abbiate capito da solo.”
Wan Stiller imprecò sonoramente, ingoiando le maledizioni che avrebbe voluto lanciare all’indirizzo del notaio, quel dannato vecchio dalla memoria di ferro ch’era stata la rovina sua e di Carmaux. “Parlavate di un accordo” mormorò.
“Siete divenuto d’un tratto ragionevole; me ne rallegro” commentò con un sorriso il conte di Medina. L’amburghese reagì con uno scatto che gli provocò un intenso dolore alla spalla mancina; se la strinse, trattenendo un gemito. “Non ho detto... che avrei parlato...”
“Lo farete, e presto, perché la vostra collaborazione significa la salvezza del vostro compagno.” Al governatore bastò fissare il prigioniero negli occhi per essere certo d’aver colpito nel segno. “Ditemi ciò che desidero sapere e potrei... dimenticarmi di lui.”
“Tuoni! Dovrei fidarmi della vostra parola?”
“Sono un gentiluomo e un nobile, signore.”
Per tutta risposta l’amburghese sputò in terra un grumo di sangue. “Pensate a una proposta più convincente” replicò poi con disprezzo. Il governatore di Maracaibo sospirò, richiamando con un gesto il soldato sulla scala. “Procedete” ordinò.
“Sì, signor conte.”
“Nessuna pietà.”
“Come comandate.” A quelle parole l’amburghese scartò per istinto, pur consapevole di non poter fuggire né sottrarsi in qualche modo alla tortura; e s’accorse, con suo stupore, che il soldato stava percorrendo il resto del corridoio, senza pensare di entrare nella sua cella. “Tuoni d’Amburgo! Che significa ciò?” pensò, inquieto. A interrompere le sue riflessioni intervenne un urlo strozzato, che lo fece sobbalzare quasi avesse ricevuto lui stesso il colpo. “Cosa significa questo?” esalò; il conte di Medina lo fissò con uno sguardo intenso ma impenetrabile, del tutto ignaro del disgraziato in quel momento sotto i ferri.
“Quando parlavo di dimenticarmi del vostro amico, intendevo dire che l’avrei lasciato in pace nel suo fetido buco anziché farlo torturare dai miei uomini.” Wan Stiller sbiancò, il cuore che lasciava la collocazione originale per perdersi nei meandri dei suoi intestini. “Voi mentite” replicò. “Se davvero... l’aveste preso... avrei udito tutto!”
“Eravate incosciente quando l’abbiamo condotto qui, legato e imbavagliato per impedirgli di gridare; s’era rintanato in una locanda, ma dei suoi misteriosi soccorritori neanche l’ombra. L’avranno abbandonato per evitare di trascinarsi appresso un peso inutile.”
“Mentite!” sbottò con maggior forza il filibustiere. Le grida dell’altro prigioniero gli trapanavano il cervello, ma lui si fece forza per impedire a un solo, terribile pensiero di insidiarsi nella sua mente. “Volete costringermi a capitolare coll’inganno!”
“Forse.”
Wan Stiller non poteva credere ai suoi orecchi. “Tuoni! Vi burlate di me?” scattò, livido.
“Niente affatto, signore; ma non posso certo costringervi a dar peso alle mie parole. Libero di credere che quel poveraccio sotto i ferri sia un ladrone qualunque, e non il vostro amico.” Un urlo più forte squarciò l’aria ma il governatore, al contrario del prigioniero, non se ne curò.
“Non è lui...” mormorò febbrile l’amburghese. “Non è lui, tuoni d’Amburgo, lo riconoscerei se è lui!”
“Anche colla lingua mozzata?” Il conte di Medina si sentì indosso due occhi sbarrati per lo stupore, il dolore e, sperava, la disperazione.
“Non collaborando correte un rischio” disse. “Non tradite la vostra missione, ma al contempo mettete a repentaglio la vita del vostro compagno.”
“Non è lui.”
“Parlate, o quelle sue urla finiranno solo una volta che sarà morto.”
“Non è lui! Mostratemelo, se dite il vero!”
“Preferisco lasciarvi il beneficio del dubbio.”
“Che siate maledetto!”
“Parlate, miserabile, o giuro su Dio che una volta finito non sarete più in grado di riconoscerlo!”
“No!”
“Chi vi ha mandato? Qual era la vostra missione? Parlate!”
“No!” gridò ancora Wan Stiller, quando un oggetto traversò le sbarre fino a rimbalzare contro la parete; lo prese senza rifletterci, i polpastrelli che ne percorrevano la superficie lucida ma consumata dal tempo e si fermavano sull’incisione appena abbozzata in un angolo. L’amburghese la riconobbe all’istante, perché era stato lui stesso a eseguirla.
E si sentì morire.
“Aufhort!” (**)

I muri del corridoio le correvano ai lati, tremuli e sfocati. Sol non era del tutto sicura di aver imboccato la via del ritorno, tuttavia non cessò di correre, desiderosa solo di allontanarsi il più possibile da quel posto, di lasciarsi alle spalle quelle grida che l’avevano tenuta inchiodata dietro la porta, sopraffatta dalla paura eppure incapace di andarsene. Almeno fin quando quell’ultima parola, incomprensibile per lei, non le aveva sciolto le gambe addormentate.
Corse e corse ancora, le guance rigate di lacrime, finendo per cozzare contro qualcosa; rimbalzò all’indietro e inciampò nel tappeto a lei tanto familiare, mentre una mano calava sul suo braccio per bloccarla; un’altra, più decisa, le tappò la bocca per impedirle di gridare. “Shhh!” le sussurrò una voce ferma ma rassicurante; Sol sbatté gli occhi per liberarli dalle ultime lacrime, posandoli infine su un volto maschile dalla carnagione assai abbronzata. “Eccoti qua, briccona” disse l’uomo mollandole un buffetto. “Tuo padre è in cucina a tirar giù i santi; presto, prima che si trascini appresso tutto il paradiso.” Quelle parole ebbero il potere di tranquillizzare la ragazzina, anzi quasi riuscirono a farla ridere, mentre s’immaginava una schiera di frati barbuti che precipitava sul capo di suo padre.
Padre che non appena la vide le corse incontro, scuotendola come una bambola di pezza. “Cos’hai in quella tua testa, eh? Dove ti eri cacciata?” La fissò per bene in volto. “E perché piangi, Santo Cielo? Sembra tu abbia veduto il diavolo in persona!”
“Non proprio, señor” intervenne l’uomo che aveva ricondotto Sol indietro. “Gironzolava al piano di sopra quando l’ho trovata; deve averla spaventata una delle armature in corridoio.”
“Ah, monella che non sei altro! Quante volte ti ho detto di non salire?” Perez avrebbe volentieri schiaffeggiato la figlia, ma conscio di star dando spettacolo riuscì a trattenersi. “Grazie per averla trovata, tenente” disse chinando il capo all’indirizzo dell’altro uomo. “E perdonate il disturbo.” L’ufficiale agitò una mano, come a dire che non era stato nulla. “Vostra figlia è ancora un po’ provata” disse poi. “Lasciatele qualche minuto per riprendersi.”
“Oh, d’accordo. Vado a preparare il carro” convenne Perez. “E guai a te se vai ancora in giro!” minacciò poi all’indirizzo della figlia, mentre usciva sbuffando. Lei non rispose, il labbro che le tremava leggermente; a distrarla intervenne qualcosa che il tenente le posò in mano: era rosso, lucido e piacevole al tatto. “Una mela” spiegò lui. “Viene dalle terre della Normandia, in Europa; mordila, è buona.” Lei non si lasciò pregare e addentò subito il frutto di cui aveva udito a parlare dalla mamma, senza averlo mai veduto; il sapore dolce della polpa, asciutta ma saporita, le piacque subito.
“Sbrigati, Sol.” La voce del padre riscosse la ragazzina, che inghiottì il boccone e scappò via in tutta fretta per raggiungere Perez sul carro; l’ufficiale attese di vederli entrambi allontanarsi prima di rientrare. “Permettete?” fece alla capocuoca mentre prendeva un’altra mela dal cesto sul tavolo della cucina.
“Eh, non facciamoci l’abitudine” borbottò lei. “Ho rispetto di voi, ma...”
“Avete ragione, d’ora in poi terrò a freno il mio stomaco, parola di El Moro.”
“Bel soprannome che v’hanno affibbiato, i vostri commilitoni.”
“A me non dispiace; lo trovo, come dire, appropriato.”
La capocuoca non poté non essere d’accordo: con quella pelle scura, il tenente pareva davvero uno di quei mori che molti anni orsono avevano occupata la terra dei suoi avi. Non era un sangue blu castigliano, certo, ma anche lui aveva la sua porzione di nobiltà nelle vene.
“Era da un po’ che non vedevo quella bambina” esordì l’ufficiale dopo aver dato più d’un generoso morso al frutto. “Non è cresciuta molto, in verità.”
“Sol è minuta per la sua età” rispose la capocuoca, intenta a ripulire un ripiano.
“Quanti anni ha?”
“Dovrebbe averne undici.”
“Avete ragione, sembra più piccola. D’altronde neanche suo padre è un campione d’altezza.” A quelle parole parecchie risatine soffocate si diffusero nell’ambiente; El Moro alzò un sopracciglio in segno di disappunto. “Non mi pare d’aver detto qualcosa di divertente” obiettò.
“Perdonatele, tenente, sono null’altro che delle sciocche” fece sbrigativamente la capocuoca, gettando un’occhiataccia al gruppo di serve che la circondava; ma attese che l’ufficiale fosse uscito prima di rimproverarle aspramente. “Stupide! Non sapete mai tenervi a freno!” sbottò.
“Oh, Ana, ma lo sanno tutti!” fece Juanita, per nulla turbata.
“Sanno cosa?”
“Che quel Perez è più sterile d’un mulo!” E giù una risata che la fece tremolare tutta.
“Lei era già incinta quando venne a Maracaibo” aggiunse un’altra serva coll’aria di chi la sapeva lunga. “Me lo disse la moglie del fornaio che a quei tempi era sua vicina, e certo non è una che racconta frottole!”
“Avrà avuto la bambina da un qualche vagabondo di strada come lei” continuò Juanita.
“E una volta qui ha fatto in fretta a trovare il gonzo da accalappiare!”
“L’avete finita?” scattò la capocuoca, seccata da quelle chiacchiere inutili. “Tornate alle vostre faccende, svelte!”
“Bah!” sbuffò Juanita. “Sua Signoria non avrà appetito neanche stasera.” Anche l’altra serva convenne, annuendo vigorosamente.
“Ma sono certa che i soldati ne hanno da vendere.” A quelle parole entrambe si chinarono sui rispettivi lavori, sotto gli occhi vigili di Ana.

Il capitano Valera ascoltò con attenzione il resoconto del governatore: se inizialmente s’era mostrato scettico circa il metodo da adottare col prigioniero, ora non poteva negare che avesse avuto un certo successo. “Non sapevo parlaste tedesco” iniziò.
“Sono nato e cresciuto a Coro, dove quella lingua è ancora parlata, sebbene l’influenza dell’impero non vi sia più da un pezzo.”
“Siete stato molto abile, signor governatore.” 
“Buona parte del merito è anche vostra; se non m’aveste data quella bussola che avete raccolta dinanzi alla taverna, dopo lo scontro, dubito che sarebbe capitolato.”
“È caduto dritto nel tranello che gli avete teso.”
“Era provato per via delle torture e delle emozioni; ben pochi avrebbero retto. Il vedere l’oggetto appartenuto al suo amico è stato il colpo di grazia.”
“Perlomeno sappiamo di aver a che fare con un uomo in carne e ossa, e non con un figlio di Satana come si dice in giro” disse con sprezzo l’ufficiale. “Avevate ragione, signor conte” aggiunse poi, tornando serio. “Son venuti qui per la ragazza. Ma come hanno fatto a venirne a conoscenza?”
“Non l’immaginate, capitano?” Gli occhi del conte di Medina erano gelidi.
“In verità no, governatore.”
“Grazie a uno dei marinai della nave olandese su cui Jolanda era imbarcata.”
“Cosa?” Valera era sinceramente sorpreso. “Impossibile! Diedi io stesso l’ordine di ucciderli tutti!”
“Uno di essi si nascose sotto un gruppo di cadaveri, sfuggendo all’esecuzione. Quando, qualche giorno dopo, il suo veliero in balia delle onde incontrò un legno filibustiere, uscì allo scoperto a dispetto della debolezza e raccontò tutto, ottenendo di farsi condurre alla Tortue; da lì non fu difficile venire in contatto con Morgan per informarlo dell’intero accaduto.”
“E ora quel cane d’un corsaro si prepara a venirci addosso.”
“Sì, capitano, pronto a distruggere la città come fecero diciott’anni orsono l’Olonese, il Basco e il Corsaro Nero. Ma questa volta non ci faremo sorprendere” fece con convinzione il governatore di Maracaibo; si sedette alla sua scrivania, il mento poggiato sulle mani intrecciate. “Faremo a pezzi quelle dannate navi prima ancora che possano avvicinarsi a noi.”
“Permettete una parola, signor conte?”
“Parlate pure.”
“Ritengo che affrontare di petto la flotta di Morgan sia come gettarsi in bocca al lupo; in mare avrebbe senz’altro la meglio.”
“Oh, al diavolo!” esclamò seccato il conte. “Non sono invincibili, questi filibustieri!”
“Nel loro elemento sì, e ne hanno data prova in più d’un occasione. Da terra avremmo più speranza di sopraffarli.”
“Se lasciassi la mente correre a episodi come Veracruz e Portobello, vi assicuro che la mia sicurezza sfumerebbe.”
“Allora che avete intenzione di fare?”
“Certo non arrendermi” rispose con decisione il governatore. “Ho fiducia in questa città, nel suo forte e nei suoi soldati; Morgan troverà un osso ben duro da rodere, e se crede di potermi strappare la ragazza, si sbaglia di grosso.”
“Era ciò che volevo sentirvi dire, signor conte” convenne soddisfatto il capitano Valera. “Quali sono i vostri ordini?”
“Che nessuna nave sospetta raggiunga il porto senza che ne sia avvertito; raddoppiate la sorveglianza lì, e fermate chiunque non sia provvisto di permesso per sbarcare o imbarcarsi.”
“Sarà fatto.” L’ufficiale rifletté per qualche istante prima di riprendere a parlare. “Che ne facciamo del prigioniero?” domandò. Gli occhi del conte di Medina s’accesero subito di una luce sinistra. “Non ci è più di alcuna utilità” decretò.
“Do ordine di farlo appiccare?”
“No. Che resti in quella cella, in balia dei suoi stessi escrementi e senza cibo. Quando sarà morto, gettatelo nelle fogne.” L’astio in quelle parole era tale da sembrare addirittura sospetto. “Come facevate a conoscere il suo nome?” domandò Valera “Il notaio non disse nulla in proposito.” L’altro gli lanciò un’occhiata obliqua. “Le memorie di mio padre” rispose poi con voce sorda.
“Credevo... fossero andate perdute al momento della sua morte.” L’ufficiale era rimasto alquanto spiazzato.
“Non le aveva con sé quando la sua fregata saltò in aria” precisò spiccio il conte di Medina. “Le aveva lasciate presso il suo intendente, a Puerto Limon, difatti la narrazione s’interrompe prima della partenza per Veracruz.” Sospirò, stringendo con forza un pugno. “Per tutto il resto, non ho potuto basarmi che sulle testimonianze altrui.”
“C’è il nome di quell’uomo nel diario di vostro padre?”
“Sì, vi dico, assieme a quello del suo dannato compagno. Carmaux e Wan Stiller, i due filibustieri che fuggirono il giorno prima dell’impiccagione del Corsaro Rosso e che, col Corsaro Nero, inseguirono mio padre tra le foreste di Gibraltar. Il nome di Emilio di Ventimiglia, che sia maledetto, è quasi sempre accompagnato dai loro.”
“Abbiamo dunque tra le mani uno dei fedelissimi del Corsaro Nero” concluse Valera.
“E uno dei responsabili della morte di mio padre” aggiunse secco il governatore di Maracaibo. “Non ho nessuna intenzione di mostrare clemenza nei suoi confronti.”
“Che facciamo coll’altro, signore? Continuiamo le ricerche?”
Il conte sospirò, passandosi una mano sugli occhi. “Gli uomini ci servono altrove, pel momento. Che scappi, il coniglio, o si nasconda; non mi dannerò l’anima per un miserabile che potrebbe essere già morto, o che comunque morrà sotto i nostri cannoni.”
“Però vi dannate l’anima per quella fanciulla.”
Gli occhi del governatore lampeggiarono. “Tacete, capitano” impose. “V’impedisco di andare oltre.” L’ufficiale obbedì, pur conservando le proprie convinzioni.
Sapeva fin troppo bene come tra il suo signore e la figlia del Corsaro ci fosse ben più che una semplice eredità contesa.
 

                                                                                                                                   *

Ch’ulel si passò una mano dietro la nuca, nervoso. Era vestito con abiti spagnuoli che celavano del tutto le sue sembianze indie, tuttavia non si sentiva tranquillo, non col compagno che il conte di Ventimiglia gli aveva detto di portare con sé. Restare tutti insieme, dopo quanto era accaduto alla taverna e colle ronde a ronzare in città, era troppo rischioso.
“Lascia il mio braccio, amico. Mi reggo in piedi anche senza di te.” A interrompere il flusso dei suoi pensieri vi pensò la voce di Carmaux, che a dispetto delle ferite era assai riluttante a farsi assistere da un indiano. “E smetti di guardarmi il ventre.”
“Sei meno appetibile di quanto credi, uomo bianco” rispose Ch’ulel, riprendendo a camminare. “Non è la mole che conta, ma la carne.”
“Ohe, mi hai preso per quel don Raffaele, per caso?”
“Adagio, uomo bianco, non è il momento di offendersi.”
“E perché?”
“Due sentinelle puntano dritte verso di noi.” Il marinaio avvertì alcune gocce di sudore freddo bagnarli la fronte, nonché una maggiore presa dell’indio sul suo braccio. “Attento” sentì che gli sussurrava all’orecchio. “Se vieni meno adesso siamo finiti tutti e due.”
“Non sono un moribondo, corpo d’uno squalo!”
L’arrivo dei due spagnuoli, entrambi armati d’alabarda, li costrinse a tacere. “Dove andate?” domandò spiccio il più alto dei due.
“A prendere una boccata d’aria” rispose il vecchio marinaio, ignorando le fitte che le ferite ancora gli provocavano. “Come due buoni cittadini.”
“Non siete di Maracaibo” intervenne l’altro alabardiere guardando fisso lui e Ch’ulel. “Non vi ho mai veduto.”
“Eh, questa città non è piccola.”
“Vi servo abbastanza da conoscere molta gente.”
“In effetti sono giunto da Panama un paio di settimane fa.”
“Assieme al vostro amico?”
“Sì” intervenne Ch’ulel. “Di rado viaggiamo separati; si potrebbe dire che ci conosciamo da sempre.” Ignorò l’occhiata strana che Carmaux gli aveva lanciato, preoccupandosi più di parlare uno spagnuolo degno di questo nome.
“Il vostro nome.”
“Rafael Luz.”
“Il vostro amico si sente poco bene?” La domanda fece sussultare, anche se di poco, Carmaux mentre l’indiano non fece una piega. “In effetti...” cominciò.
“Dunque?” l’incalzò l’alabardiere più alto.
“In verità è un po’... alticcio.”
“Non sembra.”
“Cerca di non darlo a vedere, ma vi assicuro che ha alzato il gomito; glielo dico sempre che non dovrebbe, alla sua età, ma è un uomo testardo.”
“Va bene, va bene” disse il suo interlocutore, risoluto a sbrigarsela presto. “Potete andare, e badate a voi.”
“Se posso, signore...”
“Cosa c’è ancora?”
“Potreste aiutarmi a condurlo a casa? Voglio un gran bene al mio amico, ma non è... ecco... molto leggero; se crollasse avrei qualche problema a trascinarlo.”
“Ma andate al diavolo!” Entrambi gli alabardieri si allontanarono rapidi, decisi a non farsi rintronare da quell’uomo che pareva aver molta voglia di chiacchiere. Ch’ulel sorrise, soddisfatto, evitando al contempo un piede irritato che stava per pestare il suo. “Possiamo andare, uomo bianco” disse poi riprendendo a camminare.
“Ventre di pescecane! Cosa ti frullava in quel tuo cervello da antropofago?” sbottò a mezza voce il marinaio. “Mettersi a chiacchierare con quegli spagnuoli quando entrambi rischiamo la vita!”
“Credi tu che se avessimo mostrato d’aver fretta ci avrebbero lasciati in pace?” Carmaux non tardò a capire il rischioso, ma abile giuoco dell’indiano: mostrandosi propenso alle chiacchiere aveva spinto gli alabardieri a liberarsi di loro, facendo credere d’aver a che fare con due tranquilli borghesi andati a bere qualche bicchiere insieme.
“Sei furbo, Rafael Luz” mormorò compiaciuto.
“Sono Ch’ulel, uomo bianco.”
“Preferisco il nome spagnuolo, suona meglio. Come l’hai pensato?”
“Mi sono limitato a unire i primi nomi che mi sono venuti in mente: quello del tuo amico piantatore e quello della posada.”
“Non era mio amico, era la mia preda, per tutti i diavoli! E l’avrei accalappiata come si deve se...” Il marinaio s’interruppe, un’ombra che gli offuscava lo sguardo. “Maledetta spia!” borbottò poi. “Se l’avessi tra le mani...”
“Non ora, uomo bianco.” L’indiano riuscì a convincerlo ad aumentare il passo, di poco per tema d’affaticarlo. “Il conte ci attende al porto colla sua famiglia. Dobbiamo far presto.”


(*) Potremmo metterci d’accordo.
(**) Basta!


Note dell’autrice: non sapendo un benemerito nulla di tedesco sono stata assistita dalla mia consulente favorita, alias Chandrajak -w- Tuttavia l’uso stesso di questa lingua nella versione moderna sarebbe di per sé una forzatura storica: difficile che il tedesco del XVII secolo fosse uguale a quello attuale - il francese moderno, per esempio, si andava lentamente formando proprio in quel periodo.
La presenza tedesca in Venezuela è invece attestata storicamente: la stessa Coro si è trovata sotto il governatorato dell’impero nel XVI secolo, salvo poi tornare nelle mani spagnole nel 1545 e diventare prima provincia del Venezuela. Dubito, dunque, che in cento anni il tedesco sia scomparso del tutto da quella zona. Che Coro sia la città natale del conte di Medina, invece, è una mia totale invenzione.
Il personaggio di El Moro, al pari di Ch’ulel e Sol, si ispira liberamente a un personaggio appartenente a Chandrajak - se non soddisfa le sue aspettative, ha il permesso di bastonarmi v_v E per quanto riguarda il nome fittizio di Ch'ulel, non è affatto casuale: è infatti il vero nome del personaggio cui liberamente si ispira.
E visto che ho avuto la bella pensata di pubblicare il 31 dicembre, ne approfitto per augurare a lettori, recensori e a passanti eventuali un felice 2012 ^_^
Satomi

   
 
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