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Autore: taemotional    01/01/2012    1 recensioni
[JinDa]
"Il contrasto che c’era tra la sua voce e il viso era sconvolgente. E, in effetti, a Jin era venuto un colpo nel momento in cui, dopo aver sentito quella voce profonda, si era ritrovato davanti uno dei visi dai lineamenti più dolci che avesse mai visto. Il taglio degli occhi non era troppo allungato e le iridi erano nerissime. Il naso all’insù seguiva armoniosamente la curva del mento... I capelli corvini leggermente più corti dei propri gli circondavano dolcemente il viso finendo in delle punte bionde, e quando portò una mano per allontanare la frangia dagli occhi, Jin notò che le nocche erano un po’ rovinate. Come di chi pratica qualche sport simile alla boxe."
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Jin, Tatsuya, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quando la mattina dopo si svegliò, aveva la bocca stranamente impastata. Cercò di tirarsi su e si accorse di avere pantaloni e mutande completamente sfilati.
Fece una smorfia ed iniziò a spogliarsi del tutto. Non era stata una buona idea quella di toccarsi nel letto. Ora, oltre a una doccia, gli toccava cambiare pure le lenzuola.
“Che seccatura...” commentò raggiungendo la porta. Poggiò la mano sulla maniglia e si bloccò. I pezzetti della sera prima iniziarono a tornargli alla memoria, susseguendosi come i fotogrammi di una pellicola cinematografica: Tatsuya, con tutta probabilità, era ancora in sala.
Tornò indietro e infilò a caso un paio di pantaloni di una tuta, non poteva certo uscire nudo. Vivere da solo per tutti quegli anni gli aveva modificato le abitudini in maniera irreversibile, e avere una presenza in casa che ti condiziona il comportamento era una cosa che aveva dimenticato.
Controllò di non aver tralasciato altri dettagli, quindi fece un respiro profondo ed uscì.
Come aveva sospettato, il ragazzo era sul divano e sembrava stesse dormendo profondamente. Senza fare rumore attraversò la sala ed entrò nel bagno. Cercò di lavarsi nel più breve tempo possibile e, in meno di un quarto d’ora, era di nuovo nella propria camera.
Scelse distrattamente cosa mettersi - un paio di jeans scoloriti e una maglia scura - poi tornò in sala.
L’espressione del viso di Tatsuya gli diede l’impressione che stesse sognando qualcosa di divertente. Gli punzecchiò una guancia e, dopo qualche secondo, quello aprì gli occhi e guardò Jin come fosse un estraneo.
“Ah!” esclamò poi mettendosi seduto con uno scatto, “Dove sono?”
“Ieri sera hai bevuto un po’ e non sapevo dove abitassi,” rispose Jin cercando di fare il vago. Voleva vedere fin dove si ricordasse.
“Davvero...?” commentò Tatsuya guardandosi intorno, “...allora grazie dell’ospitalità!”
“Non c’è problema, abito da solo.”
“Eh? In una casa così grande?”
“Già, i miei genitori sono morti quando avevo tredici anni,” ma non me l’ha chiesto. Perché ora mi metto a parlare dei fatti miei con uno sconosciuto?
Tatsuya restò in silenzio, poi gli sorrise. “Devi aver avuto una vita difficile.”
Jin distolse lo sguardo, gli occhi gli erano diventati lucidi senza motivo.
“Preparo la colazione...”
 
“A proposito,” commentò Tatsuya ad un certo punto con la bocca piena di riso, “Non avrò mica fatto qualcosa di strano ieri sera? L’ultima volta che ho bevuto un po’ troppo non è andata bene. I miei amici mi hanno detto che ero intrattabile e che cambiavo umore ogni tre secondi... ho pure preso a pugni uno di loro solo perché voleva impedirmi di bere altro sakè.”
Jin rise istericamente, “No, no, tranquillo. Avevo tutto sotto controllo.”
“Okay, meglio,” commentò l’altro finendo la ciotola di riso. “Grazie per la colazione, cucini molto bene.”
“Quando vivi da solo devi imparare ad arrangiarti, immagino,” ancora questo discorso? Ma cosa mi prende ultimamente? “Comunque, non vai a scuola oggi? E’ venerdì.”
Tatsuya guardò l’ora, “Oggi ho lezione in facoltà solo di pomeriggio. Tu, invece?”
“Ah... io sono ancora all’ultimo anno di liceo. Uno strazio assurdo.”
“Quindi non vai a scuola.”
“No, ci vado...” precisò Jin alzandosi per sparecchiare la tavola, “E’ solo che c’è il festival scolastico invernale.”
“Ah, io ho studiato da privato...” disse Tatsuya incuriosito, “Cos’è?”
Jin rimase sorpreso da quell’affermazione. I suoi genitori dovevano essere ricchi. Proprio come i miei. Solo che lui con quel patrimonio non ci faceva nulla, e allora perché non divertirsi un po’ pagandoci la discoteca? Dopotutto non si concedeva altri lussi e, di giorno, conduceva la vita di un normale ragazzo cresciuto in una famiglia agiata.
“Ogni classe allestisce la propria aula a tema, e, per due settimane, non si fa altro che lavorarci.”
“Ah, deve essere divertente! E la tua classe che tema ha scelto?”
Jin si strinse nelle spalle, “Credo che vogliano sistemare l’aula rendendola un prato. Il tema è il pic-nic... o il campeggio, non ho capito bene.”
A Tatsuya si illuminarono gli occhi, “Non sono mai andato in campeggio! E quindi una volta ultimati i preparativi?”
“C’è il festival, in cui la gente viene a scuola e gira per le aule. Niente di che.”
“Waaa!” esclamò Tatsuya come un bambino che scopre per la prima volta l’esistenza di Babbo Natale, “Voglio venire! Perché non aiuti i tuoi compagni?”
“E’ uno spreco di tempo, nelle prossime due settimane mi alleno piuttosto.”
Tatsuya mise il broncio e sembrò immergersi per qualche minuto nei suoi pensieri. Forse si stava immaginando come potesse essere un festival scolastico invernale.
Poi tornò alla realtà e guardò Jin.
“Credo sia ora di andarmene,” disse sorridendo, “E’ stato un piacere conoscerti.”
Eh?
“Cioè?” domandò Jin seguendolo fino alla porta.
“Sei una brava persona, non mi capita spesso di incontrarne... ecco cosa intendo.”
Jin annuì, “Sì, certo... ma ora?”
“Ora? Ora torno alla mia vita monotona,” sorrise Tatsuya con una nota di malinconia. “Anche se voglio provare a cambiarla. Incontrarti mi ha fatto pensare questo, ti ringrazio.”
“Hai ancora la boxe, no? Di sicuro non è monotona come la mia,” disse Jin mentre l’altro si infilava le scarpe. Tatsuya sembrò pensarci su.
“Come fai a saperlo?” domandò voltandosi verso di lui.
“Le tue nocche...”
“Ah, sei un osservatore allora!” esclamò ridendo, poi si portò le dita al mento, “Vediamo, sentendoti parlare di allenamenti e vedendo il tuo fisico... calcio?”
Jin annuì. Si era dimenticato che anche lui aveva ancora qualcosa per cui vivere. Ma non bastava più, da tempo gli era diventato insufficiente.
Tatsuya sorrise.
“Verrai all’izakaya questa sera?” domandò Jin.
“Ah... devo allenarmi, tra due giorn-” ma si interruppe. Il cellulare aveva iniziato a squillare, Tatsuya lo prese tra le mani e guardò lo schermo illuminato. Quindi lo spense.
“Per caso...” azzardo Jin, “...la tua ex?”
L’altro non rispose e si avviò fuori.
“Hey!” lo chiamò Jin rimanendo sulla porta, Tatsuya si voltò. “Perché ti sei messo con lei?”
“Perché? Perché me l’ha chiesto.”
Jin aggrottò la fronte.
“Mi sarò messo con mille ragazze...” continuò Tatsuya, “...solo perché me l’hanno chiesto. Non è buffo?”
Jin fece per dire qualcosa, poi cambio idea e annuì semplicemente. “Ci vediamo.”
Nella loro diversità, quelle solitudini non erano poi così differenti.
 
Il lunedì seguente, a scuola, i suoi compagni di squadra lo guardarono in modo strano.
Lui entrò nell’aula fingendo di non essersi accorto di nulla finché Tanaka non lo avvicinò. Jin assunse un’aria di sufficienza e gli chiese cosa volesse. Il compagno chinò un po’ la testa.
“Ecco... Nakamaru-sensei ha detto che giovedì scorso vi siete allenati lo stesso...”
“Già.”
“Mhn... mi dispiace non averti invitato alla festa, non è stata niente di che.”
“Non importa, so che non fa figo invitare uno come me alle feste di compleanno, non è colpa tua. E’ la società che fa schifo,” disse Jin guardandosi un po’ intorno per distrarsi.
L’aula era davvero irriconoscibile. I banchi e le sedie erano stati rimossi e alcuni fili di edera finta pendevano qua e là sui bordi delle finestre e della lavagna. Alla fine, che quello dovesse essere un campeggio o un prato da pic-nic poco importava, a Jin interessava solo passare l’anno.
“Pensavamo che non saresti venuto queste due settimane...” Tanaka cambiò discorso.
Jin lo guardò storto, perché improvvisamente quel tipo gli rivolgeva la parola? Possibile che sapessero?
“Non voglio venire bocciato per aver fatto troppe assenze, ecco perché verrò ad aiutare.”
Possibile che sapessero dell’offerta che aveva ricevuto?
“Comunque,” continuò Jin tenendo d’occhio gli altri della squadra, “Qual è il tema?”
Campeggio in una radura incontaminata,” rispose il capoclasse avvicinandosi ai due, “E’ questo che scriveremo fuori dall’aula, solo entrata a coppie!
Jin alzò un sopracciglio. “Non mi pare una buona idea.”
Il capoclasse scrisse qualcosa su un blocco che teneva in mano, poi alzò gli occhi, “Ecco perché io sono il responsabile della nostra classe e tu sei quello che tira calci a una palla di cuoio.”
Tanaka osservò il cipiglio minaccioso dei due e si allontanò discretamente. Non aveva dimenticato cos’era successo all’ultimo ragazzo che aveva provato a contrastare il pensiero di Jin. Ma Tanaka non sapeva che il capoclasse, Kamenashi Kazuya, era l’unica persona che sapeva tenere testa all’altro senza rischiare nulla.
Kazuya era stato il primo e unico amico di Jin in quella scuola sin dalle medie e, sebbene non si frequentassero più da qualche tempo, tra di loro restava ancora un legame di nascosta complicità. Inoltre, lui era l’unico in quella classe a conoscere vagamente quale fosse stato il passato di Jin ma, almeno fino a quel momento, sembrava voler custodire quella storia per sé. Jin si era domandato più volte quando la loro amicizia fosse finita, sfumando nel silenzio. Probabilmente da quando Jin aveva accettato la proposta di Yuichi di entrare nel club di calcio. O forse da quando aveva iniziato a diventare dipendente dalla discoteca.  
“Io intanto avrò un futuro assicurato, tu invece cosa farai?”
Kazuya storse le labbra, “Fare il calciatore di professione non è così facile come pensi, anche se dovessi lavorare duramente non è detto che tu abbia le qualità e, soprattutto, le conoscenze adeguate per poter-” ma il suo discorso - che iniziava seriamente ad infastidire Jin - si dovette interrompere a causa dell’arrivo del loro professore di turno.
Il capoclasse andò subito a riferire come procedevano gli allestimenti per le tende ma prima, per un secondo, tornò a guardare Jin con un’espressione nostalgica. L’altro gli sorrise impercettibilmente e distolse lo sguardo.
 
Non sapeva dire bene il perché, ma quel giorno era stato stranamente bene in classe. Per la prima volta si era accorto che non esistevano solo i suoi compagni di squadra, con i loro sguardi giudicatori, ma c’era anche una buona metà della classe di cui non si era mai reso conto. Dopo secoli, aveva parlato a lungo con Kazuya e, con una certa rassicurazione, lo aveva ritrovato identico a prima. Almeno lui è ancora a posto.
Ad un certo punto si era addirittura reso conto che la ragazza con cui condivideva l’allestimento di una tenda arrossiva ogni qual volta lui le rivolgeva la parola. Poteva dire di essersi sentito normale per una volta?  
 
Mentre quella sera prendeva il solito treno, si ritrovò a sorridere. Non vedeva l’ora di sedersi al bancone, con una bella birra in mano, e una serata libera davanti. Non aveva detto a Yuichi che non si sarebbe allenato, non se la sentiva, ma immaginò che non ce ne fosse il bisogno. In effetti, ora che ci pensava, non era nemmeno la prima volta che saltava un allenamento senza avvertire.
Non era più andato all’izakaya durante quel fine settimana, dopotutto Tatsuya gli aveva detto che per quei due giorni avrebbe avuto da fare. Cosa però? Allenamenti di boxe per un qualcosa che sarebbe successo dopo due giorni. Quindi ieri?
“Boh...” mormorò mentre scendeva alla solita fermata.
L’atmosfera era placida ma mancava quella solita nebbiolina fine che rendeva tutto della stessa consistenza di un sogno. La notte era nera, profonda, senza stelle, e i passi di Jin in quella strada deserta risuonavano in maniera sinistra. Qualcosa non quadrava.
Quando arrivò davanti al negozio capì. Ancora prima di entrare sapeva che non avrebbe trovato Tatsuya seduto al bancone che si girava salutandolo con quella sua aria innocente. Buonasera.
“Buonasera,” lo accolse il proprietario sorridendo. Jin restò immobile all’ingresso. Odiava gli izakaya.
“Ehm... mi scusi,” disse chinando il capo, poi uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Doveva saperlo che non lo avrebbe più rivisto. Era chiaro, il fatto che se ne fosse andato in quel modo da casa sua, senza lasciare alcun contatto - e senza chiederne - non lasciava spazio a fraintendimenti. Era chiaro come la luna che lo osservava in alto nel cielo.
Si ritrovò appoggiato ad un muro, le mani in tasca e gli occhi che fissavano quel cerchio bianco e perfetto in cielo.
“Tu lo sapevi, eh?” mormorò con un sospiro, “Anche la prima volta tu eri lassù, solo che non ti riuscivamo a vedere per via della nebbia.”
Poi ebbe un brivido e pensò che avrebbe fatto meglio a rientrare. Perché ogni volta che qualcosa sembrava andare per il meglio, poi doveva necessariamente cadere a pezzi? L’ultima volta che aveva pensato sono felice era stato il giorno dell’incidente dei suoi genitori.
 
Durante le due settimane seguenti Jin continuò ad andare a scuola regolarmente.
I preparativi per il festival procedevano con rapidità e tutto sembrava andare per il meglio. A due giorni dalla data ufficiale mancavano solo i costumi.
Jin si oppose con forza ma, dopo l’intrusione di Kazuya, si arrese e lasciò che una sua compagna di classe gli prendesse le misure.
“Il fatto che ci siano tutte queste piccole tende separate immerse in una natura incontaminata concederà alle coppie una certa intimità,” aveva detto Kazuya come se stesse spiegando ad un bambino che le foglie sono verdi, rosse, gialle a seconda della stagione, “Ma dobbiamo anche pensare al loro stomaco. Noi saremo i loro camerieri pronti a questo scopo non appena ne avranno bisogno.”
“Non ho mai visto camerieri vestiti come pinguini aggirarsi per i boschi...” aveva obbiettato invano Jin.
A Kazuya era bastata un occhiata e l’altro aveva acconsentito in silenzio.
Naturalmente la sera continuava a frequentare anche gli allenamenti di calcio. Yuichi non aveva detto nulla sul fatto che Jin fosse mancato una volta e tutto era andato avanti come al solito. La partita seguente si sarebbe svolta durante uno dei tre giorni in cui si articolava il festival e non poteva permettersi altre assenze.
“Ragazzi,” disse Yuichi una settimana prima del festival, “Noi giocheremo il secondo giorno, alleniamoci per vincere.”
La squadra aveva acconsentito con entusiasmo e anche Jin si sentiva pronto. A lui non importava vincere, ma doveva impegnarsi e far vedere cosa valesse. A tutti i costi.
“Inoltre,” aggiunse l’allenatore prima di congedarli, “Potremo tornare nella nostra palestra una volta finito il festival. I lavori sono finiti.”
Jin schioccò la lingua e se ne andò prima di tutti. Come tutte le sere, dopo l’allenamento, tornava all’izakaya, ma ogni volta lo trovava vuoto. Non che mancassero i commensali, ma Tatsuya sembrava scomparso dalla faccia della terra. Che fosse tornato con la sua ex? O con una nuova ragazza? E allora perché Jin non ci riusciva? Se erano così simili come aveva pensato, perché lui non riusciva a tornare alla sua vecchia vita?
Ancora una settimana e gli allenamenti si sarebbero tenuti a scuola. Non aveva più scuse per continuare a frequentare quell’izakaya. Tutto sarebbe tornato alla normalità e lui avrebbe ripreso ad andare in discoteca. Non vedeva l’ora.
 
La sera prima dell’inizio del festival, sebbene non avessero l’allenamento di calcio, Jin si ritrovò con la mano sulla maniglia della porta dell’izakaya.
Mi domando perché continui a venire in questo posto.
Il cuore accelerò improvvisamente i battiti e Jin ritrasse la mano spaventato. La sudorazione aumentò di colpo e l’ossigeno non riusciva ad arrivare ai polmoni. Non ce la faccio, non devo tornare più. Tatsuya. Non verrà. Più.
E scappò verso la stazione.
La luna continuava a guardarlo, ma non poteva dirgli che, quella volta, Tatsuya c’era.  
 
Jin arrivò a scuola con il cambio d’abito in una busta. Il primo giorno del festival scolastico era, solitamente, anche quello più impegnativo. Decine di ragazzi erano arrivati da ogni dove per poter prendere parte all’evento, e gli studenti di ogni classe si davano da fare più che potevano per potersi assicurare il primo premio come ‘Classe più popolare dell’istituto’.
“Akanishi!” gridò Kazuya non appena lo vide entrare in classe, “Sei in ritardo! Cambiati!”
Jin non fece in tempo a dire nulla che quello era già sfrecciato dall’altro lato della classe - facendosi abilmente largo tra le piccole tende - per poi raggiungere un gruppo di ragazzi.
Sai, avrebbe voluto dirgli, questa notte non sono riuscito a chiudere occhio. Sospirò e lo osservò dare i primi ordini:
“Tu, và fuori e attira più clientela. Tu, inizia a far entrare le coppie. Tu, in cucina.”
Ha ragione, io non potrei mai organizzare una cosa simile. Jin sorrise debolmente e andò a cambiarsi d’abito.
Quel costume attillato da pinguino non gli piaceva affatto, da sempre aveva preferito gli abiti casual, ma ormai ci era dentro e non poteva più tirarsi indietro. E poi, il ricordo dell’ultima conversazione con Tatsuya era ancora vivo nella sua memoria. Ah! Deve essere divertente! Non sono mai andato in campeggio!  
Nemmeno lui era mai andato in campeggio, i suoi genitori erano occupati con il lavoro per 365 giorni all’anno e il massimo che avevano fatto insieme era stato andare un giorno al mare. Solo perché era capitato che, casualmente, sia sua madre che suo padre avevano delle faccende da sbrigare il quella località.
Ritornò in classe con una smorfia sul viso. Kazuya la ignorò e gli ordinò di prendere i vassoi con il tè.
“Addirittura il tè?” ma il capoclasse continuò ad ignorarlo e si allontanò di corsa.
Jin si prese un secondo per dare un’occhiata alla classe. In effetti, avevano fatto proprio un buon lavoro e, sebbene il poco spazio gli avesse permesso di installare solo una decina di tende, il concept in generale era più che buono. In più, erano riusciti a trovare rotoli d’erba sintetica da stendere sul pavimento e il soffitto era stato coperto da fogli celesti. Sorrise, non si sarebbe stupito se quell’anno avessero vinto loro.
Non appena le prime coppie entrarono nelle piccole tende, Jin iniziò a girare e a servire il tè a quelle che lo desideravano. Un altro ragazzo, invece, passava con i biscotti. Nemmeno si fossero trovati nella Londra del ‘700.
Ad un certo punto Jin sbuffò e tornò nella piccola cucina - allestita nell’adiacente aula di pianoforte - perché una cliente desiderava del tè un po’ più caldo. La ragazza ai fornelli gli rispose indignata:
“Possibile che non gli vada bene niente? E’ tutto il giorno che regolo la temperatura dell’acqua.” Jin fece spallucce, non era mica colpa sua. “Mah,” continuò la ragazza sbuffando, “Lascia qua il vassoio che sistemo il tè.”
Jin tornò verso l’aula trascinando i piedi e ignorando le facce curiose dei passanti. Era naturale che desse nell’occhio conciato in quel modo, ma lui ci era abituato.
Una volta arrivato davanti alla propria classe notò un certo trambusto provenire dall’inizio della fila di coppie. Si avvicinò.
“Vi dico che lo conosco!” diceva qualcuno ad alta voce.
“Akanishi non è qui al momento. La prego, si trovi una compagna e faccia la fila,” cercava di spiegare Kazuya.
“Ma non voglio entrare! Voglio solo sapere dov’è Jin,” disse Tatsuya.
Jin, a qualche metro da lui, restò immobilizzato e le mani iniziarono a sudargli.
Kazuya non voleva sentire ragioni e gli pregò di allontanarsi.
“Dov’è? Non è questa la sua classe?”
“Tatsuya...” mormorò Jin, poi scattò in avanti e gli afferrò un polso. Questi si girò di scatto e i due si guardarono per un istante. Erano proprio quei suoi occhi neri come la pece. No, in quel momento si illuminarono. Come se un faro si fosse acceso nel buio di quella notte.
“Eccoti...”
Jin non disse nulla, lo trascinò dentro l’aula e lo spinse in una tenda libera. Poi, poco prima di seguirlo, lanciò un occhiata a Kazuya, che capì al volo. Jin lo ringraziò muovendo le labbra, quindi si infilò dentro e chiuse la zip della tenda.
 
L’interno era molto piccolo e si poteva stare solo seduti. Jin prese posizione davanti all’altro. Sopra di loro, una piccola lampadina era l’unica fonte di illuminazione.
Restarono immobili e in silenzio per una decina di secondi, poi Ueda si mise a ridere.
“Non dici nulla?” domandò grattandosi una guancia.
Jin alzò un sopracciglio, “Cosa dovrei dire?”
“Non so...” cominciò l’altro guardando la piccola luce sopra le loro teste, “...magari ti sono mancato.”
Jin strinse le mani a pugno. “Se non ci siamo più visti è perché non ce n’era il motivo.”
“Eh...? Motivo?” fece Tatsuya ridendo, “Ma tu non li guardi mai i telegiornali?”
Il cameriere si aggiustò il soprabito. No, lui non aveva mai guardato la televisione in vita sua.
“Avrei dovuto?”
“Jin...” iniziò Tatsuya, “...non ci credo. E io pensavo che tu fossi preoccupato...”
“Per cosa?”
“Per me!”
“Non ti seguo,” sbuffò Jin, di cosa doveva essere preoccupato?
Tatsuya smise di fissare la lampadina e chiuse gli occhi, “Due giorni dopo che sono stato a dormire da te ho avuto un importante incontro di boxe. L’avversario lo sto studiando da più di un mese ed ero quasi sicuro di poterlo battere. L’incontro, però, trasmesso live in tutte le tv del Kantō e del Kansai[1], non è andato liscio come credevo e alla fine la trasmissione è stata interrotta.”
“Perché?”
“Perché io sono svenuto proprio nel bel mezzo del secondo round! Sono stato in ospedale fino a ieri mattina.”
Jin sbarrò gli occhi, “Ospedale?”
Tatsuya abbassò il capo, gli occhi ancora serrati gli mostravano immagini strane.
“Se continuo così,” disse con una nota tremante della voce, “c’è la possibilità che rimarrò ceco.”
Jin aprì la bocca ma non ne uscì nulla.
“N-non è la prima volta... ogni volta che ricevo un forte colpo alla testa... io... la boxe...” ma un tremito gli scosse il corpo e non riuscì a completare la frase. Portò le mani a coprirsi il viso.
“Scusa...” mormorò cercando di sorridere, “E’ la prima volta che mi metto a piangere davanti a qualcuno...”
Jin allungò un braccio. Non è affatto la prima volta, avrebbe voluto dirgli, ma restò in silenzio. Passò le dita dietro la sua nuca e lo tirò a sé. Tatsuya appoggiò la fronte sul suo petto. Come l’altra volta, piangi finché vuoi. Piangi anche per me.
“Mi dispiace,” sussurrò Jin carezzandogli i capelli neri. “Mi dispiace solo non averti domandato di più l’ultima volta. L’incontro lo sarei venuto a vedere, ti avrei accompagnato all’ospedale e sarei restato con te tutto il tempo...”
Tatsuya venne scosso da un singhiozzo più forte e gli strinse la maglia.
“N-non lo avresti fatto,” disse sorridendo, le lacrime gli bagnarono le labbra tirate, “Hai la scuola, l’allenamento... m-ma... sono contento che tu sia andato all’izakaya tutte le sere passate, tranne ieri... ma oggi saresti stato occupato... dovevi andare a letto dopo l’allenamento...”
“Come lo sai?” domandò Jin. Tatsuya si allontanò da lui, faticava a trattenere le lacrime.
“Me l’ha detto la luna, lei ti ha visto.”
“Non dirlo così serio che poi ci credo.”
Tatsuya rise. La pelle delle guancie iniziava a dargli fastidio per colpa del sale delle lacrime.
“E’ stato il proprietario...” spiegò Tatsuya, “E ieri sono andato... ma tu non c’eri...”
“Sei andato ieri...?”
Tatsuya annuì, poi gli accarezzò il punto in cui poco prima aveva poggiato la fronte. Jin si irrigidì.
“Ti ho bagnato il costume...”
“Ah...!” esclamò Jin allontanandogli le dita, “Non ti preoccupare, nemmeno mi piace.”
Tatsuya ritirò la mano e la strinse nell’altra. Quindi lo guardò serio, gli occhi ancora arrossati e gonfi di pianto.
“Io non capisco...” iniziò tirando su con il naso, “...non so cosa mi prenda.”
Jin non resse quello sguardo e volse gli occhi a terra, “So che non vuoi smettere con la boxe ma...”
“No, non è quello... per la boxe... non ho ancora deciso...”
“Allora cosa?” domandò Jin iniziando ad agitarsi senza motivo. I rumori di passi e le voci delle altre coppie al di fuori della tenda sembrarono cessare di botto. Un silenzio surreale li avvolse, come la nebbia fuori dalla stazione che cancellava ogni suono. Solo il loro respiro echeggiava in quello spazio limitato. Jin avrebbe voluto tapparsi le orecchie.
“Questo gilet... con la camicia...” sussurrò Tatsuya avvicinandosi all’altro, “...ti sta bene.”
Jin si spinse un po’ all’indietro, ma perché queste tende sono così piccole? Tatsuya poggiò la mano sulla sua coscia e strinse. E da quando fa così caldo?
Poi Jin lo prese improvvisamente per le spalle e lo bloccò. Per un secondo gli sembrò di sprofondare nel nero dei suoi occhi e di non poter più rivedere la luce del sole. Non poteva permettergli di fare una cosa del genere. Se lo baciava ora, che era sobrio, tutto sarebbe caduto a pezzi.
“Che vuoi fare?”
Tatsuya allentò la presa sulla sua coscia ma non arretrò di un solo millimetro.
“Te l’ho detto... non so cosa mi prenda.”
Jin volse il capo di lato. Doveva subito dire qualcosa, altrimenti...
“Non mi piaci,” disse senza pensarci, poi lo guardò di colpo. “No, cioè...”
“Ah certo, ovvio...” commentò l’altro tornando seduto dalla propria parte, un’ombra spaventosa gli copriva il volto, ma le labbra sorridevano. Jin stava per dire qualcosa quando l’altro fece per alzarsi.
“Ho saputo che domani hai la partita. Verrò a vederti,” disse, quindi aprì la zip della tenda e uscì in pochi secondi.
Passò un attimo, che gli sembrò un’infinità, in cui Jin rimase immobile a fissare un punto indefinito davanti a sé. Poi si portò una mano tra i capelli e sospirò. Sono un idiota, stai soffrendo a causa della mia insicurezza. Sospirò una seconda volta ed uscì pure lui: fuori il mondo aveva continuato a girare senza di lui.
Si affacciò in corridoio e intravide la sua figura sparire oltre l’angolo.
Ma va bene così.
Questo dolore ti proteggerà da me.
 
La sera, Jin si recò in un motel non troppo distante da casa sua.
“Buonasera,” lo salutò l’addetta alla reception, “Solita stanza?”
Jin annuì senza guardarla, quindi prese il cellulare e, rapidamente, mandò un messaggio.
“Ecco la sua chiave,” disse la ragazza con cortesia. Lui la prese senza troppe cerimonie e si avviò verso l’ascensore.
La solita stanza si trovava all’ultimo piano dell’edificio e a Jin era piaciuta sin dalla prima volta. Di per sé, la camera non era troppo grande, ma era l’unica a non avere le due pareti che davano sull’esterno. Al loro posto, c’erano due grandi vetrate.
Jin lasciò la giacca in un armadio ed iniziò a guardare fuori. Ciò che più gli piaceva di quella stanza all’ultimo piano era il panorama notturno di Tōkyō. La frenesia delle auto non poteva arrivare fin lassù e le luci quadrate delle finestre si andavano confondendo con quelle più tonde e assai più luminose delle stelle. Jin spostò leggermente gli occhi a sinistra e incrociò con lo sguardo la Torre di Tōkyō. In quel lasso di tempo era stata decorata a festa e rotoli di luci natalizie ne percorrevano tutta la lunghezza.
Oltre la torre, c’era la luna, quello spicchio quasi invisibile sembrava voler cadere da un momento all’altro. Jin la guardò con disprezzo.
“Ancora tu...” mormorò, “...guarda che, anche se rimpicciolisci, ti vedo lo stesso. Non c’è bisogno che mi spii. Non sto facendo nulla di male.”
In quel momento qualcuno bussò alla porta e Jin andò ad aprire.
“Da quanto tempo,” lo salutò la donna entrando nella stanza.
“Sono stato occupato, non pensare che tu sia l’unica con cui vada a letto.”
“Lo so, lo so,” commentò l’altra sedendosi sul letto, rivolta verso le vetrate. “Che strana la luna questa sera... sembra quasi che voglia nascondersi.”
“E’ come al solito.”
La donna lo guardò incuriosita e lo raggiunse, cingendogli la vita da dietro.
“Oggi sei strano,” commentò alzandosi sulle punte e baciandogli il collo. Jin ebbe un tremito e chiuse gli occhi.
Il buio lo avvolse, e quel nero si riempì di fantasie mai accadute.
 
“Akanishi!” lo chiamò la donna bussando ripetutamente nel bagno, “Cos’hai?”
Jin, seduto sul water, non rispose. Continuava a tenersi la testa tra le dita senza riuscire più a trattenersi. Piangeva come un bambino.
“Hey, avanti, vieni fuori!”
Jin si strinse di più i capelli e chiuse forte gli occhi. Come poteva essere così spaventato? Quel sentimento mai provato gli era nato in un punto indefinito nel petto ed era cresciuto fino a soffocarlo. Per la prima volta, mentre possedeva quella donna con una violenza che non gli apparteneva, aveva avuto paura. Paura di se stesso, paura di tornare alla sua vecchia vita, perché stava perdendo di vista cosa lui volesse veramente.
“Almeno rispondi!” continuò la donna, “Guarda che entro!”
Jin alzò di scatto il viso dalle dita e raggiunse la porta in meno di un secondo. Sbatté un pugno contro di essa.
“Vattene!” gridò con rabbia, e si afflosciò a terra trattenendo i singulti.
Silenzio, pochi secondi, poi una porta che sbatte. Jin rimase a terra, con il viso a pochi centimetri da terra. Una piccola pozza bagnata si andava formando nel punto in cui le lacrime abbandonavano con un tuffo le sue ciglia.
Perché era arrivato a quel punto di non ritorno?
Si alzò senza pensarci ed uscì dal bagno. Barcollando, raggiunse le vetrate e poggiò i palmi delle mani contro di esse.
Fuori era ancora notte fonda ma la luna aveva percorso un ampio tratto di cielo. Jin la cercò con gli occhi.
“Avanti,” mormorò guardandola, “Ora va a dirgli chi sono veramente!”
 
La mattina dopo, quando aprì gli occhi, si accorse di essersi addormentato per terra, con la testa poggiata sul tappeto di quella stanza fin troppo familiare.
Cercò di tirarsi su ma il corpo non voleva rispondere ai suoi ordini. Ebbe l’impressione che un carro armato gli fosse passato sulla schiena e che tutte le ossa si fossero inevitabilmente ridotte in poltiglia. Quando finalmente riuscì a raggiungere la posizione seduta si rese conto del luogo in cui si trovasse, e del perché fosse lì. Flash della notte appena passata gli offuscarono gli occhi e lui dovette chiuderli per trovare un minimo di pace. Restò immobile per qualche secondo, finché quel senso di nausea non si affievolì, quindi cercò di alzarsi da terra facondo perno con le mani sul letto.
Guardò fuori dalla vetrata rivelatrice ma non vide altro che un cupo cielo minaccioso. Quel coperchio grigio gli fece provare lo stesso sentimento di oppressione che lo aveva portato a chiudersi in bagno la notte prima. Si toccò gli occhi e li trovò gonfi e doloranti.
Da quant’è che non piangevo? Probabilmente dalla notte in cui quel poliziotto era andato a casa sua dicendogli:i tuoi genitori non ci sono più.
Fece un profondo respiro e cercò di focalizzarsi sulla realtà. Che ore sono?
“Cazzo...” mormorò rendendosi conto che ormai i suoi compagni di classe dovevano averlo dato per assente.
Ora doveva sbrigarsi se non voleva perdere anche la partita. Doveva riprendere il controllo della propria vita. Non era il momento per i rimpianti.
 
Quando entrò nello spogliatoio aveva il fiatone.
“Scusate...” mormorò. I suoi compagni di squadra lo guardarono di sbieco. Jin non sapeva dire da cosa lo avesse capito, ma sembrava proprio che avrebbero preferito che lui fosse stato assente.
Solo il capitano della squadra lo avvicinò. Gli porse la sua maglia. Numero 3.
“Grazie,” mormorò, poi si avviò ad una panca ed iniziò a spogliarsi.
Il capitano era un tipo abbastanza strano, taciturno e piuttosto timido, ma sapeva farsi rispettare dagli altri. Jin non riusciva a spiegarsi come facesse, con quel carattere da fallito. Eppure, se ci pensava bene, non si stupiva più di tanto di questo fatto: tutte le persone che aveva incontrato nella sua vita erano, chi più chi meno, strane. Non che lui sapesse definire cosa fosse la normalità, aveva solo questa sensazione.
“Buona sera!” gridò Yuichi entrando di colpo nello spogliatoio, “Allora siete tutti?”
Il capitano fece di sì con la testa poi si voltò verso gli altri che lo accerchiarono subito. Si diede un’occhiata in giro quindi allungò un braccio in avanti, e così fecero gli altri.
“Vinceremo!”
E tutta la squadra gridò.
Jin, che si stava ancora allacciando le scarpe, sorrise.
 
Quando la squadra uscì sul campo gli spalti esplosero.
Jin alzò il viso e rimase sorpreso dal numero di studenti e di tifosi che erano venuti a vederli. In particolare, la curva che portava i colori della loro squadra era la più numerosa.
Continuò a scrutare quella sezione attentamente. Magari lui non sa come ci si posizioni nella tifoseria... cercò anche nella curva avversaria, con scarsi risultati. Non era facile da quella distanza distinguere i volti, e gli striscioni e fazzoletti colorati non aiutavano certo la ricerca.
“Akanishi!” la voce di Yuichi che lo chiamava dalla panchina lo riportò alla realtà, “Che stai facendo?”
“Mi scusi!” gli gridò frettolosamente, poi raggiunse i propri compagni.
Era inutile, non si riusciva a vedere nulla da lì. Schioccò la lingua. Probabilmente non è nemmeno venuto. E lui, con quali occhi avrebbe guardato quelli dell’altro?
 
Dopo che la banda della scuola ebbe suonato il loro inno, i calciatori si misero in fila e la squadra della scuola avversaria fu pronta per stringere la mano ai giocatori di quella ospitante.
Jin osservò attentamente il viso degli altri, stringendo le loro mani con forza. Quella di studiare con zelo la squadra avversaria era un’abitudine che non aveva mai perso e nemmeno in quel momento di debolezza psicologica poteva permettersi di perdere la concentrazione. Sapere contro chi stai combattendo era una regola che Yuichi gli aveva detto durante l’allenamento di qualche anno prima, e Jin l’aveva assorbita come una spugna fino a che non era diventata parte di lui.
La squadra avversaria gli passava davanti veloce e, apparentemente, tutto sembrava procedere come di consueto. Jin era riuscito ad inquadrare la maggior parte delle fisionomie e, da come ricambiavano la stretta, si era pure fatto un’idea sulla loro determinazione.
Solo un ragazzo, il numero 3, attirò leggermente la sua attenzione. Inizialmente Jin pensò che fosse colpa del numero sulla sua maglia ma, in un secondo momento, realizzò che era stato il tempo: quel giocatore dai capelli biondicci si era attardato più del solito nello stringergli la mano, e i suoi occhi lo avevano scrutato con troppa insistenza. Era durato meno di un secondo, ma a Jin non sfuggiva nulla. Continuò a seguirlo con lo sguardo anche mentre continuava a stringere la mano ai propri compagni. Potrebbe essere qualcuno contro cui ho già giocato? Impossibile, me lo ricorderei.
All’improvviso un suo compagno di squadra gli diede un leggero pugno sul braccio.
“Che stai facendo?”
Jin lo guardò disorientato, “Eh?”
“Va a posizionarti, che aspetti...”
“Ah, sì.”
Doveva rimanere concentrato, e impedire ai suoi occhi di guizzare verso gli spalti.
 
La partita iniziò senza troppi problemi e Jin fu messo nella condizione di segnare un goal già nel primo quarto d’ora di gioco. Sorrise nel vedere la loro tifoseria esplodere e anche alcuni suoi compagni di squadra si congratularono.
“Bravo, Akanishi!” gli gridò Yuichi dalla panchina con uno dei suoi soliti sorrisi. Jin annuì non troppo soddisfatto, dopotutto quella era una squadra piuttosto debole per quanto riguardava la difesa. Non sarebbe stato difficile segnarne almeno un altro durante il primo tempo.
E invece ecco che gli avversari iniziarono a diventare violenti e Jin si ritrovò a terra con una caviglia dolorante. L’arbitro fischiò il fallo e assegnò un calcio di punizione alla squadra ospitata.
“Akanishi, tutto bene?” gli domandò il capitano raggiungendolo di corsa.
Jin cercò di mettersi in piedi con una smorfia, “Sì, dammi qualche secondo...”
“Hanno già capito chi è il nostro giocatore migliore,” commentò il capitano mentre Yuichi arrivava con il ghiaccio, “Sta attento d’ora in poi.”
Jin annuì. 
“Ce la fai a continuare?” chiese l’allenatore premendo la busta congelata sulla caviglia che iniziava a gonfiarsi.
“Ovvio,” rispose Jin secco, “Abbiamo un rigore da segnare,” poi si allontanò.
Yuichi guardò il capitano, che capì subito.
“Akanishi!” lo raggiunse.
Jin si voltò.
“Ecco,” mormorò il capitano, “Non lo batterai te il rigore.”
“Come?”
“Ti sei appena fatto male, Nakamaru-sensei ha detto che potrai continuare a giocare, ma il rigore lo batterò io.”
Jin schioccò la lingua e si avviò oltre la lunetta del campo. “Come ti pare.”
Strinse i pugni, come faccio a far vedere di cosa sono capace se non mi lasciano nemmeno battere i rigori? E questi idioti - e guardò alcuni giocatori della squadra avversaria - come si sono permessi?
“Ah!” esclamò qualcuno alle sue spalle e Jin si voltò, “Ora ricordo!”
Il giocatore numero 3 mosse qualche passo verso di lui. Il capitano intanto si preparava a tirare.
“Che vuoi?” domandò Jin scocciato.
“Hey, hey, calmo...” disse il ragazzo sorridendo.
“Non mi dire quello che devo fare.”
L’avversario si mise a ridere, “Ma come fanno le ragazze a sopportare uno come te? Si vede che l’unica cosa che gli interessa di te si trova nelle mutande.”
“Cos-”
“Tu potrai non riconoscermi, ma in discoteca non ci sono molti tipi come te, non ti si dimentica facilmente.”
Jin sgranò gli occhi, questo ragazzo... frequenta quello stesso locale che...
Il cervello smise di connettere. Era la prima volta che le sue due vite si intrecciavano in quel modo. Questo non andava affatto bene.
“Aah!” esclamò allora quel giocatore dalla maglia numero 3, “Allora ho capito perché hai deciso di fartela con i ragazzi ultimamente! Le donne non ti sopportano più!”
Jin non ci vide più. Lo afferrò per la maglia.
“Che cazzo vuoi.”
“Niente!” disse l’altro alzando le mani, “Ma la notizia che ora vai con i ragazzi si è diffusa rapidamente, sai?”
Jin aprì la bocca ma non ne uscì altro che un flebile: “Eh?”
“Anche se non sono un finocchio come te, quel ragazzino non era davvero niente male,” continuò l’altro, “Magari gli daresti il mio numero?”
 La presa si allentò leggermente.
 
“Akanishi!” gridò Yuichi entrando in campo di corsa. Jin se ne stava in piedi, trattenuto da due suoi compagni, e respirava con difficoltà. Gli occhi fissi davanti a sé sembravano scrutare il nulla.
Di fronte a loro, a terra, se ne stava il ragazzo avversario, con un labbro spaccato e il naso che sanguinava.
“Che diamine ti salta in mente!” gridò Yuichi afferrandolo per le spalle, “Non mi avevi promesso che non sarebbe più successo?”
Jin sembrò riacquistare lucidità e guardò il proprio allenatore come se non capisse perché si trovasse lì.
“Io... mi dispiace...” mormorò, poi si divincolò da quella presa e, correndo, andò a chiudersi negli spogliatoi. L’arbitro, in campo, aveva alzato il cartellino rosso.
 
Mentre infilava con foga i propri vestiti nel borsone tentò invano di non pensare a quello che era appena accaduto. Ma era impossibile, si vedeva ancora davanti la faccia di quell’avversario strafottente. Le sue parole gli ferivano i timpani, e gli venne voglia di prenderlo a calci, finché non avesse sentito le sue ossa spaccarsi sotto quei colpi. Era stato fortunato, se non l’avessero fermato sarebbe andata proprio così.
Uscì dagli spogliatoi a passo svelto ma, una volta fuori all’aria aperta si bloccò. E ora?
Mollò il borsone a terra e si lasciò andare sui gradini della scuola. Intorno a lui, il festival invernale continuava imperterrito ad andare avanti e nessuno si fermò a guardarlo. Sono tutti così presi a divertirsi. E io invece cosa ho fatto di male per subire tutto questo? Si passò una mano tra i capelli ancora leggermente umidi di sudore.
“Hey, ma quello non è Jin Akanishi?”
“Non avevano la partita per entrare nei quarti di finale oggi?”
“Forse è già finita.”
“Impossibile!”
Jin sprofondò il viso tra le braccia poggiate sui ginocchi.
 
Ormai era consapevole che il proprio corpo si spostava senza che la mente ne fosse conscia.
Quando scese dal treno non erano nemmeno le sei di pomeriggio, ma il sole era già calato oltre l’orizzonte, lasciando il posto alla notte.
Percorse il tragitto fino all’izakaya avvolto dalla solita foschia. Sembrava che amasse quella zona.
“Buona sera!” lo salutò il vecchio proprietario una volta che fu entrato.
Jin si trascinò fino al bancone e ordinò la solita birra. Quella sera non c’era molta gente, ma dal tavolo vicino alla porta provenivano schiamazzi insopportabili.
“Chi sono?” domandò Jin al proprietario.
“Non vengono spesso, ma oggi alcuni di loro hanno ricevuto una promozione in ufficio, quindi li lascio divertire. Spero che non ti diano troppo fastidio...”
Jin scosse la testa, “Si figuri,” e strinse forte il bicchiere. Doveva uscire da lì nel più breve tempo possibile o non avrebbe resistito. Odiava il se stesso di quei momenti, quando la razionalità abbandonava il suo corpo. In quei momenti, sarebbe potuto accadere di tutto.
Trangugiò la birra quasi in un solo sorso e tirò fuori un paio di banconote da 100 yen. In quel momento, il proprietario diede il benvenuto ad un cliente appena entrato. Jin alzò di colpo la testa dal proprio portafogli. Poteva essere che il suo intuito si sbagliasse una seconda volta?
Si voltò verso l’entrata e rimase paralizzato nel vedere Tatsuya che lo raggiungeva al bancone.
Era diverso dal solito, l’espressione del suo viso era diversa. O forse erano solo i capelli che, piastrati e accorciati fino ad eliminare tutte le meches bionde, gli circondavano il viso in maniera differente.
“Un tè nero,” disse al proprietario, che subito si mise al lavoro.
Jin continuava a guardarlo senza dire una singola parola. Era davvero irriconoscibile, un’altra persona.
Al tavolo vicino all’entrata intanto, le urla aumentavano e alcuni impiegati si alzarono per ballare, mentre altri cantavano canzoni d’epoca.
In quel momento, Tatsuya si voltò per la prima volta verso l’altro e lo osservò.
“Quel destro è stato formidabile! Hai mai pensato di fare il pugile?” domandò scoppiando di colpo a ridere.
Jin aggrottò le sopracciglia e i lati della bocca si stirarono leggermente in un sorriso.
“Hai visto la partita allora...”
“Te l’avevo detto che sarei venuto, no?”
Dopo quel primo momento di silenzio, Tatsuya sembrava essere tornato quello di sempre.
“Com’è andata a finire?” domandò Jin osservando la superficie scura del tè che il proprietario aveva appena portato. Tatsuya lo prese e ne bevve un sorso.
“Non lo so, non vedendoti tornare, me ne sono andato pure io.”
Jin si domandò se l’avesse capito che era stato espulso dalla partita.
“Comunque,” continuò Tatsuya guardando con attenzione il proprio bicchiere di ceramica, “Come va la caviglia?”
“Ah,” mormorò Jin. Si era completamente dimenticato del fallo subìto, ma, ora che si concentrava in quel punto del proprio corpo, lo sentiva pulsare con insistenza. “Tutto okay.”
“Meno male...”
“Mhn...”
Jin chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
“Senti Tatsuya,” iniziò facendo particolare attenzione alla scelta di parole, “Ieri non intendevo quello che ho detto.”
Tatsuya soffiò sul proprio tè sebbene fosse freddo ormai da un pezzo. Sembrava che cercasse solo un pretesto per non guardarlo negli occhi.
“A cosa ti riferisci?” la sua voce tremò leggermente.   
Jin si prese qualche secondo. Devo essere sincero, ormai è inutile negarlo. Il suo cuore lo dava per scontato da un pezzo e gli mancava solo dare a quel sentimento una forma socialmente comprensibile. Jin schiuse le labbra per rispondere quando qualcuno si intromise tra di loro. Era uno di quegli impiegati che poco prima ballavano senza senso dall’altra parte dell’izakaya.
“Hey, bellezza,” iniziò avvicinando il viso a quello di Tatsuya, “Shall we dance?
“Scusa, non so parlare l’inglese.”
Sentendo la sua voce profonda quell’uomo rimase un secondo interdetto. Poi sembrò trovare la cosa stranamente interessante, perché si mise a ridere.
“Significa, vuoi ballare?
Tatsuya alzò un sopracciglio, “Sono impegnato, non lo vedi?”
Quell’uomo scosse la testa.
“Avanti...” continuò portando una mano su un suo fianco, “Sarà divertente.”
Le dita scivolarono sempre più in basso.
“Ora basta!” gridò Jin saltando in piedi e allontanando bruscamente quell’individuo. Quindi lo afferrò per la cravatta. Il bicchiere di sakè sfuggì dalle dita dell’uomo e cadde a terra rompendosi in mille pezzi. Nel locale scese il silenzio e il proprietario si sporse allarmato dal bancone.
“Non ti ha già detto che non gli interessi?”
“Ehy... tu, marmocchio, che vuoi?”
Jin strinse di più le dita a pugno.
“Non lo devi toccare, capito?”
“E tu chi saresti per dirmelo?”
Jin lo strattonò più vicino e caricò un colpo.
“Akanishi.”
La voce di Tatsuya arrivò alle sue orecchie affilata come una lama. Le dita chiuse a pugno restarono immobili a mezz’aria.
“Andiamocene,” sentenziò Jin mollando l’uomo, “Prendi il cappotto.” Poi pagò il tè di Tatsuya e lo trascinò fuori con sé.



[1] Due regioni del Giappone in cui si trovano rispettivamente Tōkyō e Ōsaka.
   
 
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