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Autore: Kathryn Krystine    01/01/2012    4 recensioni
Alla Vigilia di Natale, si sa, sono tutti più buoni. Tutti tranne Duncan, che dell'imminente arrivo del Natale non sembra nemmeno accorgersi: a causa del suo ben noto caratteraccio ha deciso che queste inutili feste le passerà da solo, senza nessuno che possa dargli fastidio. Ma non c'è spazio per egoismi e cattivi sentimenti durante un periodo così magico...
Riuscirà Duncan a capirlo?
Che ruolo avranno in tutto questo i tre Fantasmi del Natale?
E, soprattutto, cosa diamine è una "proiezione astrale"?
(Mia personalissima rivisitazione del grande classico "Il Canto di Natale" di Dickens)
Dal capitolo 2:
"Sei patetico.” Chris lo guardò dritto negli occhi. Era inquietante. Sembrava che cercasse di leggere i suoi pensieri più profondi, la sua anima. Istintivamente, Duncan si coprì di più con la coperta. “Guardati. E’ la Vigilia di Natale e tu te ne stai qui rannicchiato sul divano, da solo, ad ubriacarti...”
“Era solo una lattina di birra, che sarà mai...”
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Duncan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Christmas Carol - Il Canto di Natale

 

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“Duncan, tutto a posto? Ti prego, rispondi!” La voce di Lindsay sembrava giungergli da mondi lontani.

Aprì gli occhi, trovandosi davanti il suo viso preoccupatissimo.

“Si... A posto...” riuscì a dire.

“Scusa, forse avrei dovuto avvertirti prima di quello che stava per succedere... insomma, volare non è proprio una cosa da niente...”

Volare.

Dio, ma perché non si svegliava da quell’incubo?

Lindsay gli porse una mano. “Su, alzati, rischi di prenderti un malanno se resti ancora lì al freddo!”

Solo alle sue parole si rese conto di quanto avesse effettivamente freddo. Prese la mano della ragazza e si alzò, accorgendosi con enorme sorpresa che fino a pochi secondi prima era stato sdraiato sulla neve. L’ultima volta che aveva controllato, non c’era neve in camera sua...

 “Dove siamo?” chiese dubbioso. Si guardò intorno, ma sebbene il posto gli apparisse stranamente familiare non riusciva a collocarlo in alcun modo nei suoi ricordi.

“Come, non la riconosci? E’ sempre Leavesden, ma qualche anno fa! Ti avevo detto che ti avrei mostrato il tuo passato!” rispose semplicemente Lindsay.

La sua città nel passato. Ovvio, come aveva fatto a non arrivarci prima?

E comunque, a che cosa sarebbe servito mostrargli cose che già conosceva? Non poteva certo cambiare il passato, lo aveva detto la stessa proiezione-coso. Stavano solo perdendo tempo, ne era sicuro.

Lindsay parve quasi leggergli nel pensiero. “Sono sicura che rivivere il tuo passato potrà aiutarti, Duncan” sorrise sibillina. “E ora, per favore, guarda da questa finestra.”

Gli indicò la piccola finestra illuminata e spruzzata di neve che dava sull’interno di una casetta piccola, ma accogliente.

Duncan si avvicinò lentamente, e sbirciò dall’apertura.

Una famigliola era riunita attorno all’albero di Natale in una stanza traboccante di festoni, decorazioni e luci. La donna stava passando un pacco regalo ad una  bambina dagli occhi azzurri e i capelli neri, che rideva felice in braccio a quello che doveva essere suo padre. Un ragazzino che non mostrava più di quattordici anni, ma per il resto somigliava parecchio alla piccola, rideva insieme a lei e porgeva a sua volta un pacchetto alla madre. Sembravano tutti così felici che Duncan sarebbe stato colpito anche se non li avesse riconosciuti al primo sguardo.

La sua famiglia.

Sua madre, tonda e allegra, e lì accanto suo padre, dalla fronte spaziosa e l’aria riflessiva. Non mancava nemmeno Jessie, che in quel periodo non doveva avere più di sette anni  ma aveva la stessa aria vivace e scanzonata di sempre. E quel ragazzetto con i capelli scarmigliati era decisamente lui. Con qualche anno e qualche malefatta in meno, ma pur sempre lui.

Si ritrovò a deglutire a vuoto un paio di volte, nel vano tentativo di mandare giù quel groppo che gli ostruiva la gola. E rimase a contemplare la scena per  un tempo indefinito.

“Il tuo ultimo Natale felice” mormorò Lindsay alle sue spalle. Duncan, che aveva quasi dimenticato la sua presenza, sobbalzò. “E ora, per favore, allontanati un momento.”

Duncan, sebbene riluttante, obbedì, dopodiché la giovane agitò leggermente il braccio in direzione della finestra. Come se l’avesse evocata lei stessa, una nuvola di fumo perlaceo si sollevò dal terreno e coprì l’intera casa, avvolgendola per qualche secondo, per poi ritirarsi con la stessa rapidità. Il tutto avvenne così rapidamente che Duncan credette di aver sognato.

“Siamo andati avanti di un anno” annunciò la bionda, e gli fece cenno di avvicinarsi di nuovo alla finestra. Il suo solito sorriso dolce aveva assunto un velo di malinconia. “Credo che ricorderai ancora bene gli avvenimenti che hanno segnato questo Natale.”

Se li ricordava eccome, Duncan. E non aveva nessuna voglia di riviverli. Ma quella finestra lo attraeva come una calamita attrae un chiodo, e, sebbene una voce dentro di sé continuasse a intimargli di scappare via, si accostò nuovamente alla casa e ne spiò l’interno.

Stavolta la donna aveva perso tutta la sua allegria: sedeva pallida e sconvolta su una seggiola accanto al camino, mentre la piccola Jessie sedeva in silenzio a pochi passi da lei, le guance rigate di lacrime. L’uomo si era alzato in piedi, con uno sguardo gelido che non si addiceva al suo viso gentile. Aveva fissato dritto negli occhi il piccolo Duncan, che rispetto al bambinone allegro dell’anno prima si era trasformato in un ragazzino dall’aria menefreghista, il  viso cosparso di piercing e i capelli tinti di un colore sgargiante.

“La polizia ci ha chiamato poco fa” aveva esordito l’uomo, con voce tagliente “Allora, è vero? Hai davvero rubato all’orfanotrofio con i tuoi degni compari? Sapevamo che le compagnie che frequenti non sono esattamente dei perfetti gentiluomini, ma...”

Il ragazzino aveva abbassato gli occhi. “Si, è tutto vero.” aveva borbottato.

“Sul serio, Duncan? Rubare all’orfanotrofio? A Natale? Ma che razza di persona ho cresciuto?” Gli occhi di suo padre si erano ormai ridotti a due fessure. Alla madre sfuggì un singhiozzo triste.

Il piccolo Duncan non sapeva come replicare. Guardava l’uomo con occhi consapevoli, come se chiedesse aiuto. Ho sbagliato, lo so. Aiutami a rimediare. Capiscimi. Perdonami.

“Parla, piccolo idiota. Dì che ti dispiace” si ritrovò a supplicare sottovoce il Duncan adulto, che ormai si era avvicinato tanto alla finestra da avervi lasciato impressa l’impronta del suo naso.

La sua controparte ragazzina non gli diede ascolto. Fissò lo sguardo in quello di suo padre per qualche secondo, forse alla ricerca di un po’ di comprensione. Non ne trovò traccia, e poco dopo i suoi occhi divennero lo specchio di quelli dell’uomo: due pozzi gelidi e accusatori.

“Si, forse dovresti chiedertelo. Siete voi che mi avete cresciuto, è colpa vostra se sono così.” Insinuò in tono provocatorio.

“Vattene! Vai in camera tua, vai da qualche tuo amico, ma vattene! Non voglio averti davanti almeno fino a domattina. Poi discuteremo della tua punizione.”

“In camera mia? Punizione? Ma non farmi ridere.” Duncan aveva accennato una risatina amara e, senza voltarsi indietro nemmeno per un momento, era uscito dal portone da cui era entrato poco prima, sfiorando senza saperlo la spalla del Duncan più vecchio che lo osservava. E che, per un momento, aveva avuto l’irrefrenabile voglia di prenderlo a calci nel sedere. Cosa che si era trattenuto dal fare solo perché non voleva abbandonare la “sua” finestra.

Sua madre si era alzata dalla seggiola e aveva fatto per seguire il figlio oltre la porta, ma suo marito l’aveva fermata: “Lascialo. Quando vorrà tornare lo farà da solo. Si è comportato da criminale, e io non voglio avere criminali in casa.”

La visuale dell’interno della casa sbiadì sempre di più fino a trasformarsi in buoi pesto, e Duncan capì che lo spettacolo era finito.

Non che ci volesse la finestra per ricordare cosa veniva dopo.

Da bravo idiota quale era, si era rifiutato di tornare a casa a meno che i suoi genitori non lo avessero supplicato: cosa che non avvenne. Così per qualche giorno aveva fatto la spola tra i suoi “amici”, che lo avevano ospitato a turno, e poi si era stabilito da uno zio che viveva dall’altra parte della città e aveva accettato di tenere con sé il ragazzino per un po’. Probabilmente era stato lui ad avvertire i  genitori di Duncan, che si erano fatti sentire una sola volta per chiedere di lui. Anzi, solo sua madre lo aveva fatto: suo padre si guardava bene dal telefonare.

Un paio d’anni dopo Duncan aveva finalmente messo la testa a posto e abbandonato le cattive compagnie, e aveva deciso di prendere un appartamento tutto per sé. Ma nemmeno questo aveva portato ad una riconciliazione con i suoi genitori.

Stavolta allontanarsi dalla finestra non gli costò nessuna fatica: non aveva alcuna voglia di continuare a vedere sua madre in quello stato, né di sentire suo padre continuare ad inveire contro di lui. Sebbene non avesse mai saputo cosa i suoi genitori si fossero detti quella sera, aveva provato ad immaginarlo molte volte: purtroppo tutte le sue peggiori previsioni si erano dimostrate vere. E la cosa peggiore era che non poteva certo biasimarli: chi è che avrebbe voluto un criminale in casa?

“Perché mi mostri queste cose, Lindsay?” domandò con rabbia alla ragazza che ancora stava alle sue spalle.

Insomma, era stato un perfetto idiota da ragazzino, e lo sapeva. Quindi, che senso aveva fargli rivivere il tutto, riaprire le piaghe di quella ferita che con il tempo aveva iniziato a fare un po’ meno male?

Lindsay questa volta sorrise ancora. “Mai sentito dire che ‘sbagliando si impara’? ” gli suggerì. “Cerca di vedere dove hai sbagliato e impara dai tuoi errori per non ripeterli. Semplice.”

Duncan stava per apostrofarla con una delle sue risposte taglienti, quando una seconda nuvola di polvere si sollevò dal terreno, e fu nuovamente costretto a proteggersi il viso con le braccia per evitare la pioggia di granellini.

Quando li riaprì, si ritrovò come per magia nel suo letto, le coperte di sghimbescio e il cuore che batteva a mille.

  
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