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Autore: ponlovegood    02/01/2012    4 recensioni
Raccolta di cinque storie, una per ognuno di loro.
«Certo che ci farebbe davvero comodo un altro musicista per la band» sospirò e lentamente iniziò a raccogliere le sue cose per poi rimetterle nella borsa.
«Ehi, solo perché sbavi dietro a quel tipo io non acconsentirò a fargli far parte della band. Poi un chitarrista c’è già» esclamò Ryo con convinzione.
«Uno, io non gli sbavo dietro e due, era solo un commento generale. So perfettamente che un altro chitarrista non serve» replicò l’altro un po’ stizzito.
«Ah ok, mi stavo già preoccupando»
La campanella suonò. Era ora di ritornare alla triste realtà scolastica.

[da cap. 1 Sveglia pt. 4]
«Il mese prossimo vado a trovare i miei. Voglio presentarti a loro»
Al suono di quelle parole mi andò di traverso il the che stavo bevendo; lui invece continuò a guardarmi con tutta tranquillità.
«C-che… che cosa?»

[da cap. 2 La porta di casa pt. 1]
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aoi, Kai, Reita, Ruki, Uruha
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Pioggia
 
Io sono Yuu.
Io sono Aoi.
E ne sono perfettamente cosciente… o forse no?
Beh, per certo posso dire di sapere di essere un essere umano, sono vivo, ho cuore, un cervello, respiro, dormo, parlo e –per la gioia di pochi- canto anche. Ho dei sentimenti, dei sogni, dei desideri, delle paure. Sì, di questo sono certo.
Ma allora perché, allo stesso tempo, non sono nessuno?
 
In famiglia, prima di me, ci sono sempre stati il mio oniisan e la mia oneesan e io, da bravo ultimo arrivato, mi ero preso ciò che restava, cercando di ritagliarmi un mio spazio vitale. Tuttavia questo si rivelò sin da subito un compito davvero arduo; per chi non lo sarebbe stato, ritrovandosi a confronto con una sorella e un fratello pieni di doti –se paragonate alle miei- eccezionali? Sembrava proprio che tutto il gene del talento ( sempre se esiste) se lo fossero spartiti tra di loro, senza pensare ci sarei stato anche io.
Non ricordo che nella nostra casa ci siano mai state pressioni da parte dei miei genitori per spronarmi a battere i miei fratelli, né mai ci paragonarono l’uno all’altro, ma io non potevo far altro che patire l’abisso che c’era tra di noi, nonostante quella mia sofferenza non avesse alcun fondamento logico. O meglio: gli altri ritenevano che la mia frustrazione fosse insensata, io no.
Ma loro non capivano, loro non si trovavano nella mia stessa situazione. Non potevano comprendermi.
Per anni fu questa la situazione in cui mi ritrovai a vivere e, col tempo, essa finì col condizionare la mia stessa vita . Nonostante non ci fosse mai stata una dichiarazione ufficiale, era guerra aperta tra me e i miei fratelli. Eppure io sembravo l’unico determinato a combatterla.
Il mio desiderio di fare sempre di più e farlo sempre meglio mi portò a non ottenere nulla, solo una frustrazione ulteriore. Ogni volta che credevo di aver raggiunto il mio obbiettivo, me lo vedevo portar via da sotto gli occhi. E sembrava anche che nessuno dei due lo facesse, come dire, apposta, che  provasse gioia nel vedermi sconfitto nuovamente. O forse neanche se ne rendevano conto; dall’alto del loro podio d’onore non si accorgevano del fratellino che continuavano ad umiliare con tutti i loro innumerevoli successi.
Quella in cui vivevo non fu mai veramente casa mia e quella non fu mai veramente la mia famiglia.
Perché in una famiglia normale ed ordinaria –cosa che noi non eravamo- non ci sarebbero dovuti essere tali sentimenti di competizione, rabbia e gelosia. Una famiglia normale sarebbe andata ad assistere all’Hanami, portando con sé i bento preparati con cura e amore, festeggiato il capodanno mangiando l’ozoni [1] e partecipato ai festival estivi  per poi assistere allo spettacolo di fuochi d’artificio.
Ho vaghi ricordi di quando –ancora molto piccolo- prendevo parte a queste uscite familiari, ma ben presto i miei fratelli smisero di venire per via dello studio o per via di uno o l’altro impegno. Così si smise di dare importanza a questo genere di cose.
Dopo il trasloco le cose, se possibile,   andarono ancora peggio; avevamo cambiato casa per dare la possibilità ai miei fratelli –ovviamente si parlava sempre di loro- di ‘espandere i loro orizzonti scolastici’.
E quando tutti e due ebbero preso il loro diploma del liceo e furono poi entrati all’università, si può dire che i miei genitori ritennero di aver portato a termine il loro scopo nella vita. Questa sensazione di essere l’ultima ruota del carro e di non essere preso in considerazione da nessuno, mi seguì come un’ombra per anni, per tutta la durata della mia –sfortunata- carriera scolastica.
Quando entrai al liceo, sapevo bene che nessuno si sarebbe aspettato niente da me, ma, d'altronde, era mai stato il contrario?
E così, a quel punto della mia vita, mi ritrovai a pensare: ma allora perché andare avanti? Per chi lo sto facendo? Perché continuare ad impegnarsi per poi dimostrare solamente di essere inferiore?
Passai ore e ore a cercare delle motivazioni che mi spronassero ad andare avanti, ma, a dire il vero, non ce n’erano. Ciò su cui avevo basato al mia vita fino a quel momento non era altro che una stupida gelosia infantile.
Rinunciai a tutto.
E così smisi di cercare di essere qualcuno che non ero.
Ma allora, chi ero io veramente?
Non ho idea di quanto quella mia decisione giovò alla mia vita, ma, conoscendomi, anche se potessi tornare indietro nel tempo, rifarei la stessa scelta. Fatto sta che però le cose non cambiarono o, comunque, cambiarono molto poco: ancora non riuscivo a trovare chi davvero potessi apprezzarmi per come ero, forse perché, effettivamente, io non ero ancora io.
Potrà essere terribile ed ingiusto quanto volete, ma quando si è un liceale –per sopravvivere- bisogna sapersi adattare in qualche modo e con qualsiasi mezzo e sperare che quei tre anni si sbrighino a giungere al termine.
Io, effettivamente, ci ero riuscito e la cosa sembrava anche funzionare piuttosto bene. Avevo, tuttavia, abbandonato temporaneamente la ricerca del ‘vero me’ –a dirla così sembra io stia parlando della caccia al Sacro Graal-, chiudendola in uno dei cassetti dove ero solito collezionare i miei (numerosi) insuccessi. Se, anche solo per un istante, mi fossi fermato a pensare avrei di certo capito di essere, come adolescente, un fallimento su tutti i fronti. Eppure –e di questo sono certo- nessuno notò mai quanto fosse falsa la vita che conducevo lì a scuola; ero stato davvero bravo a trovare un modo per sopravvivere in quell’inferno.
A scuola ero il re, ero popolare e ribelle, ero rispettato da tutti e non mi importava di niente e di nessuno. Insomma, ero passato da un eccesso all’altro.
Anche se ero consapevole di stare solo facendo finta, col tempo mi ci abituai, o meglio: mi ci dovetti abituare per forza di cose e alla fine arrivai quasi a credere di essere sempre stato quel tipo di persona.
Finito il liceo potei finalmente sbarazzarmi di quell’identità che non mi apparteneva, ma fu più difficile di quanto mi sarei potuto aspettare: mi ritrovai come nudo e senza alcuna protezione, alla mercé del mondo esterno, molto più grande e pericoloso della realtà scolastica a cui ero abituato.
L’unica certezza alla quale potevo aggrapparmi era il progetto che avevo deciso di portare avanti, ma, la mia, era una certezza davvero debole. Non ero solo, ma forse era proprio quello a farmi vacillare e dubitare; infondo vivevo in una situazione altamente precaria: i ragazzi avrebbero potuto sbarazzarsi di me senza fin troppi problemi, immaginavo. Effettivamente non mi era mai sembrato di essere poi così bene accetto: con grande insistenza del primo chitarrista mi era stato offerto un posto nel gruppo, ma il bassista sin da subito non mi era parso entusiasta della mia presenza. Ed io, in un certo senso, non potevo che dargli ragione: le mia abilità di chitarrista non erano poi così eccezionali se paragonate a quelle del nostro primo chitarrista. No, non ero geloso di lui, ma infuriato con me stesso per quanto fossi inutile ed incapace. Ammiravo davvero quel ragazzo di due anni più piccolo di me (anche se questo non ebbi mai l’occasione, o il coraggio –vedetela un po’ come vi pare- di dirglielo) e mi disprezzavo con altrettanto fervore.
Alla fine, l’unica cosa che mi rimase da fare, fu essere nuovamente uno Yuu che non ero.
 

«Yuu»
«Yucchan!»
La voce di una ragazza, che a tratti ancora presentava una tonalità infantile, mi chiamava dolcemente. Feci una corsa rapidissima sotto la pioggia per raggiungere la mia oneesan che mi aspettava poco fuori del cancello sotto un grande ombrello. Mi rifugiai all’asciutto, al suo fianco. Lei mi sorrise e ci incamminammo verso casa saltando nelle pozzanghere con gli stivali da pioggia.

 

«Shiroyamakun!» esclamò una voce al mio fianco sovrastando il rumore della pioggia che batteva con insistenza sulle finestre.
«Eh?!» sobbalzai.
«Smettila di distrarti o non riuscirò mai a capire come diamine fare questo passaggio» mi rimproverò puntando il dito sugli spartiti.
«Ancora non riesco a capire come tu, proprio tu, non riesca a suonare questo pezzo» sospirai guardandolo; lui era sempre così bravo, com’era possibile che mi stesso chiedendo aiuto?
«Non ci riesco, ok? Tu invece sì e quindi mi sembra più che ovvio che tu debba spiegarmelo» esclamò con una voce e con una faccia talmente serie da risultare esilaranti. Vedendo un sorriso farsi largo sul mio volto, la sua espressione mutò trasformandosi in una strana smorfia che, almeno secondo lui, doveva essere offesa.
«Forza, forza! Continuiamo» dissi sorridendo ancora più divertito dalla situazione. Gli lanciai una breve occhiata e la sua espressione sembrò essersi raddolcita almeno un pochino; posai una mano sul suo ginocchio e gli sorrisi. Lui si voltò e mi lanciò un’occhiata ancora un po’ risentita, ma poi finalmente si risistemò la chitarra sulle ginocchia e raddrizzò gli spartiti. «Ne, Shiroyamakun, ti scoccia dovermi spiegare questa cosa?» mi domandò con voce seria, ma decisamente diversa da quella di prima. «Eh?! Ma che ti salta in mente? Sono davvero felice di poter essere utile, almeno ogni tanto»
«Sei un cretino» sentenziò.
«Come prego?» mormorai sbigottito.
«La tua sola presenza è importante, ricordatelo. E non provare mai più a sminuire il lavoro che fai»
Intanto la pioggia aveva smesso di cadere.
 
«Aoi»
«Aoiii~»
«AOI, cazzo!»
«Aoikun?»
Quattro distinte voci si insinuarono nella mia testa, fastidiose come il ronzio di una mosca.
Lentamente aprii gli occhi e mi ritrovai circondato da quattro jrocker in nero.
«Eh?» mormorai fissandoli un po’ stranito.
«Dimmi, ti capita spesso di deconcentrarti in questo modo? Non è che hai qualche problema? Intendo: qualcosa di serio?» domandò Reita fissandomi ancora da più vicino.
«Eeh?!» fu l’unica cosa che riuscii a dire.
«Era parecchio che non succedeva, vero Yuu?» Kouyou mi sorrise divertito.
Li fissai tutti uno ad uno, cercando di ricordare come avessi fatto a perdere la concentrazione in quel modo e soprattutto per quanto tempo fossi rimasto imbambolato a far nulla.
«Immagino mi debba scusare» mormorai giocherellando distrattamente con le corde della chitarra che tenevo in mano.
«Certo che devi!» ed ecco che anche Ruki –ovviamente- aveva qualcosa da dire, «se ti addormenti in studio questo album lo finiremo l’anno prossimo e magari sarà la volta buona che il mondo finisce davvero»
«Non stavo dormendo e smettila di dire cazzate, per piacere» bofonchiai.
«Guarda che Ruki ha ragione» disse Kouyou con voce calma. Lo fissai sbigottito: stava dando ragione a lui invece che a me?! «Cosa?!» esclamai con un tono di voce esageratamente acuto.
In quell’istante il mio sguardo, prima ben fisso su Kouyou, si spostò –come attratto da chissà quale strana forza- verso la finestra e scorsi due bambini che si divertivano a saltellare nelle pozzanghere lasciate dal temporale appena passato. Sorrisi debolmente vedendomi rispecchiato in essi e nel ricordare la mia infanzia. Forse un osservatore esterno avrebbe potuto benissimo dire che quel periodo della mia vita non era stato così terribile come io invece lo avevo vissuto in prima persona.
Poi tornai a guardare verso il moro, ancora, però, un po’ risentito nei suoi confronti.
«Certo, ha ragione nel dire che non ci sei tu, qui noi non possiamo andare avanti» sorrise e improvvisamente fu come se alla sua immagine si sovrapponesse quella di dieci anni prima, quella del ragazzo che mi aveva rimproverato per essermi sottovalutato e che infuse in me più coraggio di quanto si possa pensare.
E per un attimo anche i miei altri bandmates sembrano essersi ringiovaniti ed essere tornati ad avere quelle facce da ragazzini scapestrati con le quali li avevo conosciuti. E fu come essere di nuovo tutti insieme nel nostro vecchio studio di registrazione, timorosi che mai nessuno ci avrebbe presi in considerazione. Ma, a dire la verità, anche se così fosse stato, forse non me ne sarei dispiaciuto poi così tanto perché alla fine, anche senza il successo e tutto il resto, mi sarebbero sempre riamasti loro, quei ragazzi che erano diventati una seconda famiglia. E un punto di riferimento ben saldo nella mia vita.
Così come erano apparse, quelle ombre del passato svanirono e davanti a me rividi i miei compagni di adesso nello studio di registrazione illuminato dalla debole luce del sole che sbucava dalle nuvole.
Alla fine ce l’avevamo fatta: eravamo diventati chi volevamo essere. E l’avevamo fatto insieme; tante erano state le difficoltà e altrettante sarebbero venute in seguito, ma le avremo superate.

 
E ancora oggi mi accompagna questa certezza, ma insieme a tante altre: la certezza di avere una famiglia (di sangue e non) sempre pronta a sostenermi, la certezza di amare immensamente e profondamente ed essere ricambiato allo stesso modo, la certezza di avere dei sogni, dei pregi e anche tanti difetti, la certezza di stare facendo ciò che amo, ma soprattutto la certezza di essere Yuu, di essere Aoi e di essere ciò che sono.
 

I am who I am, no matter what.

 
 
[1] Tradizionale zuppa di capodanno.
 
pons chat
No no no. Non sono morta né ho deciso di abbandonare questa fic, questo non potrei ami farlo, assolutamente! State tranquilli che non succederà perché sono troppo legata e questa storia per lasciarla incompleta.
Ma ora basta coi sentimentalismi!
Sì, la scuola ha avuto un ruolo chiave nel mio ritardi immane, ma ad essa si sono sommati tanti altri fattori, tra cui  la poca o quasi assenti ispirazione, ma anche la poca voglia di scrivere che, aimè, si fa sentire spesso. Ora come ora spero questo non ricapiti più, ma ho i miei seri seri dubbi.
Scusate, davvero.
Ma passando alla storia~
Purtroppo è corta, lo so. Ma, sin da subito, era stata pensata come oneshot e allungarla non avrebbe avuto poi molto senso. Devo ammettere che l’idea mi piace molto, ma è la realizzazione che mi lascia sempre a desiderare. Nella mia testa risultava chiarissima, quasi come se stessi guardando un film, ma nello scritto… mi sembra pesante e forzata.
Bah.
Spero che vi sia piaciuta, almeno un pochino. Mi auguro soprattutto che la cara Blue Swallow (ecchecavolo, mi ero da poco abituata al tuo nuovo nick e tu lo cambi ;O;), grande fan del vecchio Aoisan ♥, l’abbia apprezzata.
Poi i miei più sentiti ringraziamenti vanno a Denki Garl che si è fatta un mazzo tanto a recensire tutti gli altri capitoli. Grazie, grazie mille. Anche per avermi fatto notare i miei errori!
E poi grazie a Undertaker che è, ormai da un po’, una fan fedele.
E grazie mille a tutti quelli che mi seguono e basta, anche senza commentare.
 
Vi aspetto nelle recensioni, spero.

Un abbraccio,
pon ♥

  
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