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Autore: Alice Morgan    04/01/2012    4 recensioni
La diciassettenne Ariel Green non ha mai creduto di essere una ragazza normale. Perché Ariel, dopo la perdita del padre, è venuta in possesso di un potere terribile ed oscuro: percepire la morte imminente di chi le sta a fianco. Per le vie sporche e strette che si srotolano dal centro cittadino, negli ospedali e persino sui mezzi pubblici … ogni volta che qualcuno sta per morire, lei lo sente. E non può fare nulla per fermarlo. Fino a quando, un giorno, un terribile presentimento fa tremare ogni singola cellula del suo corpo e la lascia senza fiato. Per la prima volta la Morte non sembra cercare nessuno. Perché, questa volta, la Morte vuole lei.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.


Capitolo 1 – prima parte
Premonizioni
 

 

La morte è l'assoluta fantasia di ogni uomo.
Helen Morrison

 
 
 
Quel pomeriggio di febbraio Ariel era certa soltanto di tre cose. Primo, pioveva a dirotto da due giorni. Secondo, l’ultimo compito di trigonometria le era andato da schifo. Terzo, sua madre l’avrebbe ammazzata. Era ormai un anno che continuava a ripeterle quanto il suo rendimento scolastico fosse di vitale importanza per entrare in una buona università e Ariel, neanche fosse un mago, era riuscita a far svanire le sue possibilità di avere la sufficienza in matematica in meno di dieci minuti.
In effetti, sapeva che il test le sarebbe andato male prima ancora che il professor Campbell glielo consegnasse. Non c’era da stupirsi, in fin dei conti, giacché aveva trascorso il pomeriggio precedente riposando sul divano, anziché studiando.
L’uomo panciuto aveva attraversato la sinistra del suo banco appoggiandovi il foglio bianco degli esercizi. L’eco del fruscio che l’aveva accompagnato sembrava volerne sottolineare l’innocenza, ma le apparenze ingannano e si sa. Il professor Campbell, per esempio, non era una persona antipatica, nonostante la materia che insegnasse potesse suggerire l’esatto contrario. Prima di guardare la verifica, Ariel aveva fatto un gran sospiro.
Tredici esercizi.
Davanti ai suoi occhi le equazioni e disequazioni di trigonometria sembravano riderle in faccia. Aveva afferrato penna e foglio cercando di concentrarsi il più possibile, ma numeri e incognite non le suggerivano nulla.
Tabula rasa.
Come sempre, del resto.
Così aveva chiuso gli occhi e si era alzata dalla sedia, pronta per la consegna. Aveva incrociato lo sguardo poco sorpreso del professor Campbell - non era la prima volta che la vedeva consegnare un compito di matematica in bianco – che si era limitato a prenderle il foglio dalle mani e ad acconsentire, quando Ariel gli aveva chiesto di poter uscire dall’aula. Non che dovesse fare qualcosa, di fuori, ma l’osservare i suoi compagni indaffarati non le era parsa una prospettiva allettante. Ovviamente, nel momento esatto in cui si ritrovò sotto il diluvio, le sembrò una pessima idea.
Erano le due del pomeriggio e lo stomaco le brontolava violentemente. Sarebbe voluta entrare nel bar più vicino per stare al coperto e ingozzarsi di cioccolata, crogiolandosi nella disperazione, ma non aveva con sé un soldo.
Iniziò a frugarsi nelle tasche del cappotto alla ricerca del cellulare. C’era una sola persona alla quale avrebbe potuto rivolgersi in una situazione come quella.
L’unica persona, al di fuori della sua famiglia, cui voleva veramente bene.
L’unica che la capiva, che l’ ascoltava e che la trattava con dolcezza.
L’unica che …
«Che diavolo vuoi, Ariel?».
Ariel era talmente persa nei suoi pensieri che per un attimo rimase a chiedersi cosa stesse facendo con il telefono in mano.
«Ciao, Zac. Sto bene, grazie per avermelo chiesto» disse, sarcastica. «E tu? Stai meglio?».
L’uomo all’altra parte del cellulare grugnì. Evidentemente no.
Invece di rispondere alla domanda chiese: «Com’è che non sei a scuola?».
Ariel attese. Non voleva dire al suo migliore amico il perché non fosse in classe, né tanto meno raccontargli dei suoi disastrosi voti in matematica. Non che Zac non fosse a conoscenza del suo pessimo talento con i numeri, però farlo preoccupare non le sembrava una grande idea.
Zac riprese a parlare: «Ho capito, non vuoi dirmelo. Senti, non per essere scortese, ma stavo dormendo e … » sbadigliò, come a voler dimostrare la veridicità delle sue parole, « … beh, non è che sia proprio un fiore in questo momento, quindi, se non ti dispiace …».
«Posso venire a trovarti?», si affrettò a chiedere Ariel. Il ragazzo non disse nulla. Ariel lo conosceva abbastanza bene da potersi figurare la scena di lui, steso sul divano, mentre il suo cervello elaborava una risposta abbastanza gentile – o crudele, a seconda della giornata – per dirle di no: Zac non amava avere gente in casa. Ma con sorpresa della ragazza, disse: «Okay, vieni pure. Ma ti avverto, se domani hai la febbre la colpa non è mia». Riattaccò.
Non importa, pensò Ariel, la febbre l’avrei presa comunque, bagnata fradicia come sono.
 

***

 
La casa di Zac era fuori città, situata al limitare dei grandi boschi. Ariel vi aveva messo piede sì e no tre volte nei suoi diciassette anni e ritornarvici era sempre un po’ strano.
Zac viveva da solo con la nonna, ma quest’ultima, ormai troppo anziana, non era più in grado di prendersi cura di lui. D’altra parte, la ragazza sospettava che l’amico non avesse mai avuto veramente bisogno di aiuto: lo conosceva da una vita ed era sempre stato in grado di badare a se stesso. Ripensava con nostalgia alle volte in cui giocavano assieme a nascondino nei boschi o facevano a gara a chi inventava la storia di fantasmi più terrificante. Alcune le ricordava ancora.
La ragazza fu distolta dai suoi pensieri dal rumore dell’autobus che si fermava, imperterrito e incurante del mal tempo, proprio davanti a lei e apriva le sue porte.
«Ciao, Carl», disse all’autista mentre si issava sugli scalini.
Era un uomo di mezza età, basso e tarchiato e strani ciuffi di capelli color topo gli ricoprivano a chiazze la nuca. Ad Ariel non era mai andato molto a genio, ma sua mamma le diceva sempre che era buona educazione salutare anche chi non ti sta molto simpatico.
Carl rispose cimentandosi in un sorriso senza denti: «Ciao, Ariel. Finito prima oggi a scuola?». La ragazza si maledisse in silenzio per aver dato nell’occhio, ma si limitò a dire: «Già. Sai com’è … sciopero degli insegnanti». Prima che l’autista potesse chiederle qualcos’altro, prese posto in uno dei sedili in fondo e si calò le cuffie del suo vecchio mp3 sulle orecchie.
What I’ve Done dei Linkin Park rendeva muti tutti i suoni che la circondavano – i pettegolezzi delle vecchie signore sedute davanti, lo scrosciare dell’acqua piovana sui finestrini, le imprecazioni soffocate di Carl al volante – eppure era quasi certa di riuscire a percepire il forte brontolio che proveniva dal suo stomaco.
Con un po’ di imbarazzo, si accorse di stare morendo di fame. Frugò nello zaino alla ricerca di qualcosa lontanamente paragonabile a un pasto, ma tutto quello che ne uscì fu una caramella mou spiaccicata e dall’aspetto non propriamente commestibile. Non era molto, ma Ariel non era di certo una ragazza che si potesse definire schizzinosa. Mentre mangiava, pensò che almeno, una volta arrivata a casa di Zac, avrebbe potuto farsi offrire qualcosa da mettere sotto i denti.
Persa fra le immagini di grandi tazze di cioccolata calda, rimase quasi senza fiato quando una forte scossa di adrenalina le percorse tutta la schiena. Sapeva esattamente cosa sarebbe successo di lì a pochi secondi, ma, quando accadde, fu colta comunque alla sprovvista.
Era come se avesse fatto la doccia nell’acqua gelata; fitte di freddo e panico le attraversarono il corpo da cima a piedi. I Linkin Park tacquero, mentre nella sua testa prendeva spazio un forte ronzio e i contorni di Carl, delle vecchiette e dei sedili si facevano via via sempre più sfocati. Iniziò a mancarle l’aria e ci mancò poco, quando decise di alzarsi, che cadesse per terra. Aveva la nausea e avrebbe voluto vomitare nel grande cappello di piume, vecchio di secoli, che indossava una delle donne davanti a lei. Si tolse con uno strattone le cuffie dell’mp3 e, senza troppe cerimonie, le lasciò cadere con un tonfo.
La donna piumata, si girò per fissarla e per un momento assunse un’espressione che era un misto tra preoccupazione e terrore. «Stai bene, cara?», le chiese con un tono di voce che le ricordava vagamente sua madre. Ariel avrebbe voluto risponderle, ma un brivido raccapricciante la scosse impedendo alle parole di uscirle di bocca.
Stava sudando freddo e alcune ciocche dei suoi rossi capelli le si erano appiccicate in modo fastidioso alla fronte.
Conosceva troppo bene quella sensazione per non essere investita dal panico. La prima volta che l’aveva provata aveva cinque anni e stava guardando suo padre mentre veniva investito da un SUV a tutta velocità. Da allora non ci aveva messo molto a capire cosa stesse a significare. Per le vie sporche che si srotolavano dal centro cittadino, persino negli ospedali … ogni volta che qualcuno stava per morire, lei lo percepiva. A volte le sembrava addirittura di sentire il puzzo della Morte che giungeva silenziosa, pronta a spegnere la vita al malcapitato di turno: sospettava da un po’ che a provocarle i conati di vomito fosse proprio quell’odore nauseante.
Quasi non si accorse di aver raggiunto Carl e di avergli appoggiato la mano sinistra sulla spalla. Probabilmente gli stava facendo male perché l’autista si voltò verso di lei con il dolore disegnato in viso. «Ariel cara, che ne dici di tornare a sederti?», chiese sinceramente a disagio. Era ovvio che lo strano comportamento della ragazza lo disturbava. Ariel cercava di mettere a fuoco il profilo dell’uomo, ma con scarsi risultati. Per un momento, ebbe quasi il folle impulso di scoppiare a ridergli in faccia, tanto sembrava sorpreso.
«Ariel, mi stai facendo male! Ahi! Si può sapere cosa ti prende?». Carl era visibilmente e insolitamente irritato, mentre alzava la voce.
Ariel chinò il viso verso il suo, quasi volesse baciarlo, e con tutto il fiato che aveva in gola si limitò a sussurrargli all’orecchio: «Corri». Poi chiuse gli occhi e si accasciò sul sedile libero più vicino, incurante degli sguardi perplessi che la circondavano.
Insieme al ronzio assordante che aveva in testa, si accavallava una nuova voce che, per quanto potesse essere semplice e insignificante, in quel momento sembrava avere la potenza di un urlo.
Zac. Zac sta per morire.



Note dell'autore: 
Oh, beh, direi che la prima bomba l'ho sganciata :)
Ricapitolando: Zac è in pericolo e Ariel sembra essere l'unica a saperlo per via del suo potere. Riuscirà ad opporsi al destino dell'amico? E, nel caso contrario, cosa accadrà alla nostra protagonista?
Scopritelo nella seconda parte!

  
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