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Autore: Sylphs    06/01/2012    3 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2

 
 
 
 
La sottile bacchetta di legno stretta nel pugno grassoccio di monsieur Brochet si abbatté sulle mani di Vivian con vigore sadico e il rimprovero giunse compunto e petulante: “Mademoiselle Carré, quante volte devo ripetervi che non potete fare strane aggiunte alle melodie?”
La ragazza digrignò i denti, sferzata da una stilettata di dolore acuto alle dita ormai scarlatte, e fulminò il suo maestro con un’occhiata d’odio inespresso, costringendosi a non gemere. Se era quello il modo in cui intendeva insegnarle, dubitava fortemente che avrebbe fatto progressi, anzi, era probabile che a furia di bacchettate le sue povere mani sarebbero rimaste menomate a vita. Erano già due ore che sopportava i suoi continui rimbrotti in una piccola saletta della musica ai piani alti dell’Opera, seduta su un morbido sgabello foderato di velluto rosso dinnanzi ad un pianoforte a coda bello come non ne aveva mai visti, ed era risultato chiaro fin dall’inizio che il suo rapporto con “uno dei migliori insegnanti che l’Opera Populaire potesse vantare” aveva preso una piega niente affatto amichevole. Quel signore distinto e pomposo ricoperto di fronzoli e gioielli, con la parlata altisonante e una ridicola parrucca settecentesca ad incorniciargli il grasso viso incipriato, l’aveva accolta con la benevolenza compassionevole che merita una povera orfana priva di protezione e senza nemmeno domandarle il suo livello (bene o male, non era una novellina alle prime armi!) aveva preteso che ricominciasse da zero, facendole ripetere fino all’isteria la scala di do e imponendole goffi brani per principianti che le sue agili dita suonavano con fin troppa facilità.
Ogni suo tentativo di convincerlo a imporle prove più ardue non aveva dato frutti: Brochet si era limitato ad annunciare con consumata nonchalance che quelli erano i suoi metodi e che così avrebbe fatto. Ma non era insito alla sua natura chinare la testa di fronte ad un così evidente sfruttamento della sua povera condizione e ad una tale perdita di tempo, perciò, trascorsa una mezz’ora, aveva trovato da sola il modo di rendere più gradevole quella prima lezione. Peccato che il suo maestro non si fosse rivelato d’accordo.
“Avreste dovuto suonare un la maggiore, non un si” la rimbeccò, seccato, puntando il dito carnoso sullo spartito appoggiato al leggio: “Sono sicuro che ve ne eravate accorta, mademoiselle”.
“Beh, sì” ribatté lei massaggiandosi le mani, un sorriso di falsa cortesia dipinto sulle labbra: “Però, maestro, se mi è concesso dirlo trovo che un si ci starebbe molto meglio. È più acuto, più straziante, e conferisce una nota di maggiore intensità alla Serenata Triste” quelle ultime due parole non erano scevre di ironia. Sotto il compatto strato di cipria, le guance dell’uomo si imporporarono: “Non ho intenzione di giocare con voi, mademoiselle. Se desiderate cominciare al meglio il vostro tirocinio presso questo tempio della musica, dovete attenervi allo spartito, vous avez compris?”
“Oui” disse aspramente: “Ma il fatto è, monsieur, che l’autore di questi esercizi era palesemente privo di immaginazione, come dimostrano la prevedibilità e la banalità dei suddetti, perciò non ci vedo nulla di male ad aggiungere un tocco personale al suo scarso lavoro”.
Quello di farsi detestare doveva proprio essere un suo vizio, pensò osservando la smorfia livida di Brochet. Era assai poco saggio entrare di propria volontà nella lista nera del suo insegnante di piano già dalla prima lezione, peraltro dopo essersi alienata le simpatie delle altre allieve, ma qualcosa nel suo carattere, nella sua mente, forse la visione che aveva del mondo e delle sue ingiustizie, delle raccomandazioni e di quell’apparenza che sempre trionfava sulla sostanza, la spingeva a ribellarsi a chiunque si prestasse a quei giochi, e certo lo faceva a sue spese, ed era soltanto una ragazzina vanesia e piena di sé, lei per prima lo affermava, ma segretamente coltivava la convinzione che con un poco più di allenamento avrebbe potuto superare Brochet senza alcuna fatica. E odiava, odiava essere trattata da nullità solo perché le sue origini non erano onorevoli e perché sua madre si era compromessa prima del matrimonio.
“Smettetela di dire assurdità” sbottò l’insegnante: “Non avete né l’esperienza né il diritto di giudicare l’operato di altri, dal basso della vostra…”
“Della mia cosa?” la giovane si volse di scatto a guardarlo e nei suoi grandi occhi nocciola si accese una breve scintilla di rabbia: “Che cosa intendete dire, monsieur?”
Brochet distolse lo sguardo: “Nulla, nulla. Volevo semplicemente farvi capire che la modestia è una delle qualità più ammirevoli, in un’artista”.
“Davvero?” fu uno sforzo notevole reprimere l’impulso di insultarlo. Non poteva essere scacciata il giorno del suo arrivo. Strinse forte i pugni e si calmò un poco, ma non rinunciò alla sua battaglia: “Modestia o no, ad Annecy mia madre mi ha impartito qualche lezione quando ero piccola. Non era la maestra ideale, certo, tutta la sua abilità risiedeva nel canto, ma i suoi insegnamenti mi hanno permesso di raggiungere un livello che supera abbondantemente quello di tali esercizi”.
Brochet non parve dare peso eccessivo alle sue parole: “Comportandovi in questo modo, mademoiselle, non fate altro che convincermi ancora di più della maniera in cui vi sto offrendo il mio sapere. Essendo cresciuta fino a pochi giorni fa in un ambiente sperduto e isolato in cui avevate scarse occasioni di misurarvi con altri musicisti, senza dubbio vi siete persuasa di possedere un’abilità particolare, e dunque di ambire ad un programma di studi avanzato. Ma qui, a Parigi, all’Opera Populaire, uno dei più celebri teatri mai esistiti, non siete altro che una principiante con qualche rudimento alle spalle, e prima vi renderete conto della cosa e farete come vi dico, meglio sarà per voi”.
Avrebbe desiderato strozzarlo. Porre fine alla sua miserevole esistenza, o almeno illuminarlo su quanto egli stesso fosse mediocre nel suonare il pianoforte (le aveva dato una breve dimostrazione prima di iniziare, e l’aveva trovata piatta e scolastica, priva di verve e di sentimento). Non aveva affatto annunciato di possedere un’abilità particolare, era vissuta fin troppo a lungo all’ombra di sua madre per sperare un giorno di ottenere una fama simile alla sua, semplicemente aveva espresso il desiderio di esercitarsi su melodie un po’ più impegnative. Ma quando un individuo era sordo, parlare non sarebbe servito ad alcunché, né aveva la possibilità di lamentarsi con Madame Lefevre, vista la già enorme disponibilità con cui l’Opera l’aveva accolta. Si vedeva costretta a tenersi ciò che le aveva donato la sorte.
Brochet, a fronte del suo silenzio, si rassicurò leggermente: “Adesso ricominciate dal principio, mademoiselle”.
Lei posò le dita sui tasti con un’espressione arresa. Ma arrivata al punto in cui era stata interrotta poco prima, suonò nuovamente un si.
Il colpo di bacchetta fu quasi una benedizione.  
 
“Allora, come è andata?”
La timida Emma, con il suo debole sorriso incerto e le sue spalle curve sotto il peso dell’insicurezza, l’aveva attesa sulla sommità della sontuosa scalinata di marmo che conduceva ai piani bassi dell’Opera, illuminata in pieno dalla luce dorata di un immenso lampadario e un po’ rauca di tono a causa della lezione di canto appena terminata, e scorgendola mentre usciva dalla saletta, Vivian provò una sincera gioia. Aveva proprio bisogno di una presenza amica dopo un’esperienza tanto umiliante, e la fragilità mista a gentilezza di quella “piccoletta” le ispirava tenerezza e simpatia. Accanto a lei si sentiva grande e protettiva e aveva la sensazione di poterla avvolgere e tenere al sicuro.
“Puoi vederlo da te” allargò le dita ricoperte di tagli e contusioni con fare melodrammatico e torse la bocca in una smorfia ironica: “Quello spaventapasseri incipriato mi ha massacrata!”
I dolci occhi verde scuro di Emma si spalancarono leggermente: “Oh, cielo! Mi dispiace” c’era una sincera costernazione nella sua voce. Vivian scrollò le spalle con falsa disinvoltura, ansiosa, come suo solito, di sdrammatizzare: “Oh, non fa nulla, sai, io vengo presa a vergate quasi ogni settimana”.
Per una brevissima manciata di secondi ebbe il timore che Emma non avesse compreso che la sua era una battuta, perciò si produsse in un ghigno allusorio. A quel punto l’altra si rilassò e rise: “A quanto pare non deve essere stata una lezione piacevole”.
“Puoi dirlo forte! Quel tipo sembra non capire che non sono affatto una novellina. Mi ha costretta ad eseguire la scala cinque volte di seguito e se solo mi azzardavo a metterci del mio…” si esaminò le dita con una smorfia: “Beh, puoi immaginarlo”.
Emma le rivolse un goffo sorriso di incoraggiamento: “Dovete soltanto abituarvi l’uno all’altra, Vivian. Sono sicura che domani andrà meglio”.
“Io no” commentò, tetra, la giovane: “La verità è che sono un’anima intollerante alla compagnia. Capisci cosa intendo? È come se qualcosa mi obbligasse ad andare contro alla gente per qualsiasi sciocchezza, ma il problema è che…non so cosa”.
“Io ti invidio” ammise Emma con una vampata rosea che le pervadeva le pallide guance: “Dici sempre quello che pensi, il che è una virtù invidiabile, dato che perfino quelle come Colette si mascherano in pubblico. Io invece non ci riesco neanche se mi costringo. Ho una paura terribile del giudizio degli altri”.
Vivian le prese la mano con dolcezza mentre procedevano, affiancate, giù per la scalinata, sollevando le ampie gonne per non averne impiccio. Emma ebbe un breve sussulto all’improvviso contatto e diede l’impressione di volersi ritrarre, ma alla fine accettò la stretta. La ragazza le sorrise: “Sai cosa penso per rassicurarmi, quando ho paura di esprimermi?”
“Cosa?”
“Che gli altri hanno ancor più paura di me”.
Emma la fissò intensamente negli occhi, e Vivian ricambiò con serenità, decisa a dimostrarle la verità delle sue affermazioni. Si era sempre considerata una persona fondamentalmente intuitiva, e l’atteggiamento della sua nuova amica l’aveva sufficientemente edotta. Abbassò la voce nel domandare: “Hai difficoltà ad integrarti in questo ambiente, non è vero?”
L’esile fanciulla distolse lo sguardo con il viso che le avvampava. La sua suonò come una confessione strappata con riluttanza: “Il fatto è che provengo da una famiglia…non troppo rispettabile. E questo…questo fa sì che le altre si tengano alla larga da me”.
“Capisco cosa vuoi dire” sospirò Vivian, amara.
“Quelle come Meg e Colette, ricche e dotate di presenza scenica, non si soffermano a riflettere su quanto sia difficile adeguarsi alle regole di questo posto provenendo da un ambiente come il mio. Ho dovuto faticare il doppio di loro per risaltare nella massa, mi sono impegnata con tutta me stessa perché non c’è nulla che equipari la gioia che provo quando canto” la passione nel racconto di Emma era forte, inossidabile, e sorprese la ragazza, che la reputava un’anima quieta e sottomessa: “E anche così, tra due sere, durante la rappresentazione, non sarò altro che una semplice corista”.
Vivian sollevò un sopracciglio bruno: “Quale rappresentazione?”
“Eseguiremo “Il re degli elfi” di Shubert, e Colette sarà la solista” non c’erano dubbi sui sentimenti di Emma in merito a quest’ultima notizia. Vivian rifletté per qualche istante: “Io ovviamente non sono inclusa”.
“Sarebbe magnifico se così fosse, ma purtroppo sei appena arrivata! Però mi farebbe molto piacere se venissi ad assistere, sarebbe la mia prima esibizione in pubblico e so già che avrò una delle mie solite crisi di panico” Emma parve farsi ancora più piccola e curva. Vivian le circondò audacemente le spalle con un braccio: “Ti offrirò tutto il sostegno morale possibile, Emma. Non sono aliena all’ansia da prestazione. Mia madre, ad esempio, ne soffriva terribilmente, quando doveva esibirsi nello scalcinato teatro di Annecy. Pensa che si portava dietro una boccetta di sali in caso di svenimento e che rifiutava di indossare il corsetto, per timore di smettere di respirare!”
Emma spalancò gli occhi: “La grande Amélie Carré? Non ci credo!”
“Credici. La verità nuda e cruda, amica mia, è che non esistono idoli. Li crediamo tali perché è questa l’immagine che vogliono darci, ma sotto la superficie non sono altro che comuni esseri umani, come me e te”.
Camminarono per un poco in silenzio, le scarpe che risuonavano sul pavimento intarsiato e le gonne che frusciavano al suolo, circondate da lussureggianti stucchi, quadri dal valore inestimabile e decorazioni che avrebbero fatto invidia al palazzo del re. Emma, maggiormente avvezza a girovagare per l’Opera, avanzava a testa bassa e con passo rapido, Vivian al contrario si soffermava su ogni particolare, affascinata dalla prospettiva di prendere dimestichezza con quel luogo tanto mistico e labirintico. Aveva la curiosa impressione che quel fasto e quel tripudio di ori e pietre preziose nascondessero qualcosa di gran lunga più interessante per lei, e che nell’aria, nei muri, nel pavimento su cui stavano camminando scorresse una corrente di ipnotica magia, un vento di segreti che non riusciva a cogliere ma che percepiva nella sua interezza. Questo le riportò alla mente il discorso che le altre fanciulle stavano portando avanti prima della sua comparsa e quel poco che era riuscita a udire.
“Scusa, Emma…”
“Sì?”
“Prima ho sentito Colette e le altre parlare di una ragazza di nome Christine Daaé” corrugò la fronte: “Il nome non mi dice nulla, e non è mia abitudine farmi i fatti degli altri, ma a giudicare dalla loro foga, sembrava un argomento molto interessante. Sai dirmi di chi si tratta?”
L’altra impallidì leggermente. Rallentò il passo, costringendo Vivian a fare lo stesso, e si guardò intorno con fare furtivo, come ad assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi. Un simile atteggiamento la incuriosì ancora di più: “Che ho chiesto?”
“Davvero non lo sai?” bisbigliò Emma intimorita. La segretezza aveva sempre causato grande fastidio a Vivian, amante della stabilità e dell’indole diretta, e ogni qualvolta si presentava un’atmosfera enigmatica, veniva colta dal bruciante impulso di risolverla. Assunse un tono piccato: “Come posso saperlo? Sono appena arrivata!”
Emma distolse il viso, alla maniera di qualcuno costretto ad affrontare una questione sporca e compromettente: “Sì, perdonami…il fatto è che se ne è tanto chiacchierato a Parigi che non sono abituata a discorrere con qualcuno che non è a conoscenza di quei fatti”.
“Io vivevo ad Annecy, ricorda. Ma insomma…chi è questa Christine?”
Emma rispose con riluttanza: “La migliore amica di Meg”.
Vivian batté le palpebre: “Qual è Meg?”
“Marguerite Giry, la figlia di Madame Giry, una delle più rinomate maestre di ballo dell’Opera. È bionda di capelli e oggi portava un costume verde”.
A Vivian sovvenne la vaga rimembranza della fanciulla esile e serica che non l’aveva degnata di mezzo sguardo. Annuì per mostrare di aver capito, ma comprese che Emma non le aveva detto tutto: “E che fine ha fatto la Daaé?”
La ragazza emise un pesante sospiro: “Si è ritirata dalla scena sei mesi fa a seguito di una serie di…misteriosi eventi verificatisi durante una sua interpretazione da protagonista, e ha preso per marito il giovane Visconte Raoul DeChagny, con cui condivideva un’intesa fin dall’infanzia”.
A Vivian interessavano assai poco le unioni degli aristocratici, anche se immaginava bene che un simile matrimonio doveva aver destato l’invidia delle fanciulle, che vedevano in Christine la beneficata dalla sorte che loro non erano state. Lei, da parte sua, era rimasta colpita soltanto da un particolare: “Cosa intendi con misteriosi eventi, Emma?”
L’amica le dedicò uno sguardo curiosamente intenso. Non si stava comportando come una fanciulla che condivide un pettegolezzo succulento con un’altra, non c’erano tracce di frivolezza o di eccitazione in lei, anzi, affrontava la questione con la serietà venata di paura che di solito viene usata in circostanze gravi o dolorose. Quando si decise a parlare, lo fece con un tono molto basso, quasi cospiratorio, e con una certa enfasi: “Hai mai sentito nominare il Fantasma dell’Opera?”
Vivian alzò un sopracciglio. Doveva ammettere che le premesse l’avevano portata ad immaginare qualcosa di più concreto: “No. Questo nome non ha significato per me, più di quanto non l’abbiano il lupo cattivo o la strega fattucchiera”.
Malgrado il suo tono scettico, Emma non abbandonò il suo fare cospiratorio: “È una leggenda, un mito che governa questo posto ormai da anni, e senza il quale l’Opera Populaire perderebbe la sua anima. Fino a poco tempo fa, non era altro che un flebile mormorio ripetuto dagli artisti se si verificava un incidente o se qualcuno si faceva male senza apparente motivo, ma da quando Christine è scomparsa dal teatro nel bel mezzo del Don Giovanni Trionfante, ha acquisito un rilievo di gran lunga superiore”.
Fece una pausa ad effetto. Vivian la fissò. Si chiese se scoppiarle a ridere in faccia. Non aveva nulla contro di lei, ma credere nelle favole alla loro età era semplicemente ridicolo, e sprecare tempo dietro a simili fantasticherie…beh, non ne vedeva lo scopo. Per quale motivo la gente aveva sempre bisogno di attribuire un’origine soprannaturale ai fenomeni che non sapeva spiegarsi? Come per la religione, le catastrofi naturali e le misteriose sparizioni infantili prese per crudeli scambi operati da fate maligne, quella leggenda altro non era che un modo di spiegare una faccenda altrimenti irrisolta.
“Aspetta, fammi indovinare…” disse infine: “Questo fantasma ha trovato l’esibizione di Christine talmente stomachevole da piombare sul palcoscenico nel bel mezzo della rappresentazione e portarla nel suo regno incantato per punirla?”
Emma trasalì come se avesse pronunciato una terribile bestemmia: “Ti sto dicendo la verità!”
“Certo” Vivian si permise un sogghigno asciutto: “Non ho dubbi in proposito, d’altro canto ho sempre pensato che esistessero gli spiriti. Andiamo, Emma! Non vorrai credere a questa storia come tutte le altre? Non c’è alcun fantasma al teatro dell’Opera!”
“E tu che ne sai?” la fanciulla si arrestò di botto e le piantò addosso uno sguardo trepidante: “Non eri presente la notte del Don Juan, non hai visto quel che è successo! Il Fantasma, uomo o spettro che sia, si è palesato ai nostri occhi per reclamare l’anima di Christine, che gli apparteneva da tempo, e l’ha condotta con sé nel suo rifugio sotterraneo per farne la sua sposa!”
“Ma davvero? E come mai allora ciò non si è verificato? Se non ricordo male, la giovin fanciulla si è maritata con un Visconte sei mesi orsono, senza che nessun fantasma facesse irruzione nella chiesa gridando ”.
Le gote di Emma si tinsero di un violento rossore: “So che non mi credi, probabilmente non mi crederei neanch’io se non avessi assistito alla scomparsa di Christine, ma quella notte c’ero, e ti giuro che…che qualcosa…ho visto”.
“Se anche fosse” osservò Vivian con tono pratico: “Ci doveva essere di sicuro una spiegazione razionale, che la paura del momento vi ha impedito di trovare. In ogni caso, mi è molto difficile accettare la versione del fantasma…tanto per saperlo, che fine avrebbe fatto, poi?”
“Quella stessa notte, un nutrito gruppo di uomini è riuscito ad aprirsi la via per la sua Dimora nel Lago, nei più oscuri recessi dei sotterranei dell’Opera, e l’ha depredata di tutti i terribili marchingegni che il proprietario vi aveva posto. Sfortunatamente non c’era traccia di lui e Christine si è rifiutata di fornire spiegazioni su quel che era accaduto, ma da quel giorno gli incidenti al teatro sono cessati, e tutti sono stati d’accordo nel ritenere di averlo messo in fuga”.
Vivian non l’avrebbe ammesso neanche al proprio cuore, ma quella vicenda assurda e senza senso, in una maniera oscura e segreta, le era penetrata nella mente come una droga e l’aveva colpita più di quanto si sarebbe aspettata. Congetturò ad alta voce: “C’è qualcun altro che conosce la strada per questa Dimora nel Lago?”
“Non che io sappia” rispose Emma: “E poi, è un luogo maledetto”.
Vivian fece un brusco gesto: “I luoghi non sono maledetti. Diventano soltanto quello che vuole il proprietario, e si rinnovano in un eterno ciclo, divenendo teatro di avvenimenti fasti e nefasti a seconda del caso. Perdona la mia presunzione, ma non comprendo: vi arrovellate sull’esistenza effettiva del Fantasma dell’Opera, ma nessuno di voi cerca di penetrare nei suoi domini per scoprirlo di persona. Che logica c’è in tutto questo? Mi viene da pensare che sotto sotto siate spaventati dalla prospettiva di affrontare le vostre superstizioni…come se ne aveste bisogno”.
“Io non so come la pensano gli altri” mormorò Emma, desolata: “Da parte mia, non ho alcun desiderio di indagare su questa storia. Colette e le sue amiche possono dire tutto ciò che vogliono, ma Christine era una ragazza gentile e dolce, e la sua scomparsa è stata una terribile sventura. Non voglio sapere in quali circostanze si sia verificata”.
Vivian rimase in silenzio, celando un’improvvisa insoddisfazione dinnanzi a quella risposta modesta e sincera. Le era inconcepibile chiudere gli occhi di fronte ad un mistero, accettare per buona un’assurda versione superstiziosa senza andare in fondo alla faccenda e comprenderne tutte le implicazioni. Non aveva mai veduto il teatro dell’Opera prima di quel giorno e non aveva avuto modo di assistere agli eventi di cui parlava Emma, ma solo udire quella storia aveva fatto scattare nella sua mente una leva di cui ancora non conosceva la natura. Se quel luogo nascondeva qualcosa e se nessuno si prendeva la briga di scoprirlo, addirittura dopo quella fantomatica “notte del Don Juan”, allora occorreva porre rimedio al più presto.
Sospirò. Che sciocchezza. Cosa mai poteva fare, lei? Aveva ben altro a cui pensare in quel periodo, dare retta ad una ridicola leggenda per compiacere il suo desiderio di avventura era un comportamento puerile e stupido. D’altronde, il “Fantasma” se n’era andato, o no? Non avrebbe potuto comunque svelarne la natura, nemmeno se le fosse venuto il ghiribizzo di farlo. Però, restava fermamente convinta che i miti dovessero essere sfatati, soprattutto a fronte di omicidi e incidenti. Sorvolare sulla questione attribuendola all’intervento di uno spirito soprannaturale era una via troppo semplice.
Emma, osservando l’espressone assorta che era comparsa sul viso olivastro di Vivian e la posa corrucciata e pensierosa delle sue labbra scarlatte, le sfiorò timidamente il braccio: “Sei rimasta affascinata da questa storia, non è vero? Io ho sempre pensato che in essa ci fosse qualcosa di…magico”.
La fanciulla si accigliò: “Devo ammettere che ha un certo fascino, ma non nel modo che dici tu. La magia non esiste, almeno secondo me. La trovo interessante perché nasconde un segreto, e di solito sono peggiore d’un gendarme, quando si tratta di misteri. Vorrei che la verità fosse nota a tutti e che la nebbia di menzogne e superstizioni venisse dissipata”.
“Allora sei arrivata tardi, temo. Altri prima di te hanno già fatto un tentativo, riuscito solo a metà”.
“Forse sì…forse no” sembrava quasi che Vivian parlasse rivolta a se stessa.
Ma intanto avevano finito di scendere la scalinata ed erano giunte nell’atrio, dove le altre fanciulle, nuovamente abbigliate per uscire, sostavano a scambiarsi qualche ultima parola prima di dileguarsi nelle vie innevate di Parigi. Vivian intercettò subito la Meg che aveva nominato Emma, avvolta in un prezioso soprabito rosso col cappuccio e intenta a discorrere a mezza voce con una donna anziana e distinta, dotata dei suoi stessi occhi grigi e gentili. Doveva essere Madame Giry, la maestra di ballo. Malgrado le rughe che le solcavano la pelle, il suo viso conservava ancora le tracce di una perduta bellezza, e c’erano screziature ramate nella sua chioma raccolta, ma ciò che più di tutto impressionò Vivian fu la sua espressione profondamente umana e dolce, quasi ieratica, e la maniera placida e prudente con cui si guardava intorno. Decise che quella donna le piaceva, ma che sua figlia era troppo graziosa e impeccabile. A queste considerazioni interiori seguì una netta impressione d’essere osservata, che la indusse a voltarsi e a spostare altrove la propria attenzione.
Un giovane d’una ventina di anni circa, alto e dal fisico asciutto, ritto di fianco al portone chiuso come se vi si fosse bloccato nella mossa di andarsene, la fissava con deliberata insistenza, esplorandole il corpo con un paio di occhi dall’iride d’un azzurro glaciale, non scevri di superbia e di una certa dose di disprezzo nei confronti del mondo. Il suo volto dalla morbida pelle color latte aveva lineamenti cesellati e fieri, lievemente aguzzi, ma non per questo meno fascinosi: ad una fronte ampia e ad un mento importante s’accompagnavano due morbide labbra accese e un naso diritto e ben disegnato, e la maniera in cui teneva spianate le spalle e larghe le gambe evidenziava un’elevata sicurezza di sé. Senza dubbio un giovanotto assai piacente. Indossava un’elegante giacca di seta rosso scuro, sotto una camicia dalla stoffa d’un bianco purissimo, e un paio di aderenti calzoni inguainati in costosi stivali di pelle. I folti capelli biondo chiari, terminanti in impeccabili basette, gli conferivano un’aria di falsa innocenza, smentita dalla supponenza dello sguardo. Non s’era fatto problemi a mostrarle il suo interesse, e la curiosa mescolanza di gelida impassibilità e audace intensità nei suoi occhi color ghiaccio rendeva impossibile decifrarne i pensieri.
Sicuramente molte fanciulle si sarebbero lasciate invadere dall’emozione avvedendosi d’essere osservate da un simile giovane, il cui vestiario ne indicava peraltro le origini nobili, ma Vivian era reduce dall’errore di sua madre e sapeva bene che la bellezza dilagante era proprio parte della trappola. Nella scala sociale, lei per quel ragazzo non era altro che feccia, feccia interessante, certo, e magari anche desiderabile, ma niente più di questo, e ricambiò il suo sguardo a testa alta, senza mostrare disagio. Non era sua abitudine chinare il capo con verecondia femminile e arrossire come una timida fanciullina. Il giovanotto, però, non diede segno di voler nascondere la sua strana curiosità e si ritrovarono impegnati in una battaglia di sguardi, entrambi ansiosi di vedere chi l’avrebbe abbassato per primo. Nelle sue pupille, sotto la superbia e la sicurezza, a Vivian parve di intravedere un accenno di malizia astuta e perfino una vena di malevolenza, che le fece scorrere un brivido lungo la schiena. Diavolo, di trappole da disonore ne aveva vedute parecchie, ma quella le superava abbondantemente tutte quante!
Fu lui a perdere, ma non per propria colpa. Una voce acuta e impostata, il tono seccato e infastidito, interruppe brutalmente la loro battaglia esclamando con forza: “Antoine! Antoine! Sono stanca, vogliamo andare?”
Il giovane staccò lo sguardo da lei, e fu come se un filo invisibile venisse reciso. Si volsero tutti e due al punto da cui era provenuto il richiamo, e Vivian rimase sinceramente sorpresa nel vedere Colette in piedi accanto a quel guardone, i biondi capelli raccolti sotto un cappellino e le mani affusolate che si infilavano spazientitamente i guanti di pizzo. Aveva notato anche lei il loro scambio d’occhiate, e la smorfia sul suo viso rendeva palese la sua scarsa gioia riguardo alla faccenda: “La carrozza è in attesa da molto, Antoine” soggiunse stizzita: “Voglio tornare a casa!”
Il giovane alzò uno dei chiari sopraccigli arcuati in una posa infastidita, ma ubbidì alla scortese esortazione e aiutò la fanciulla ad indossare un prezioso mantello di seta azzurra, che le infilò con gesti poco delicati. Mentre faceva scivolare le braccia nelle maniche, Colette scoccò a Vivian uno sguardo velenoso, che assolutamente non meritava e che la spinse a domandare a Emma: “Chi è quel giovanotto biondo?”
La sua amica diede al soggetto una rapida sbirciata e subito si distolse, arrossendo, come se avesse fatto qualcosa di proibito. Si tese su di lei e le bisbigliò all’orecchio: “È il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau. Suo padre è pieno di soldi, vivono in un enorme palazzo che si affaccia direttamente sulla Senna. Quando ne erediterà il titolo, sarà uno degli uomini più influenti di Parigi!”
“Caspita” commentò Vivian con sarcasmo, seguendo con gli occhi l’elegante coppia che, a braccetto, usciva nel clima impietoso che regnava fuori dal teatro: “E che cosa ha a che fare con Colette?”
“Lei è sua sorella, la Marchesina Colette. Viene a prenderla ogni sera in carrozza quando terminano le lezioni. È la più raccomandata della compagnia, si mormora che il Marchese abbia pagato Firmin e André per farle ottenere il ruolo di solista, dopodomani. È per questo che ce l’ha tanto con Christine, non riesce a concepire il fatto che abbiano favorito la figlia di un violinista squattrinato a sue spese…ma non è solo questa la ragione. Aveva messo gli occhi sul Visconte Raoul fin dalla prima volta che era venuto all’Opera ed era sicura che il suo rango le avrebbe permesso di sposarlo, ma anche in quell’ambito si è vista sopravanzata da Christine”.
“Oh, beh, posso capire perché la odi, in effetti, sebbene non condivida le sue idee” poi, con tono giocoso e leggero: “Hai notato come mi fissava quel bellimbusto? Sembrava che volesse spogliarmi con gli occhi!”
Una violenta vampata arroventò il volto della pudica Emma: “Vivian! Devi stare attenta. Quel giovane è un dissoluto. Si da ai piaceri più trasgressivi, forte del suo rango e della protezione che esso gli concede, e ha tentato di sedurre quasi tutte le ragazze di qui…beh, non me, comunque. Io non corrispondo al suo ideale di donna” era impossibile capire se la cosa le dispiacesse o la rassicurasse. Vivian scosse il capo: “Sta tranquilla, ho la testa sulle spalle, so quanto sia pericoloso impigliarsi in una relazione clandestina con un aristocratico. Per giunta c’è qualcosa in lui che non mi va giù, sono al sicuro”.
Fuori dal teatro, all’interno di una sontuosa carrozza trainata da quattro cavalli purosangue, due fratelli discutevano. Il maggiore, avvolto in un cappotto di pelliccia che costava mezza Parigi e munito di bastone da passeggio, stava chiedendo alla minore: “Chi è la ragazza dai riccioli scuri che parlava con quel topolino spaurito della tua compagna di corso?”
L’interpellata si produsse nella sua abituale smorfietta di disprezzo e rispose un po’ più aspramente del necessario: “Nessuno, Antoine. Una stracciona, una miserabile poverella venuta dalla campagna. È l’orfana della Carré”.
“Ti riferisci per caso ad Amélie Carré, la celebre cantante caduta in disgrazia?”
“Bien sur. Quella fuggita ad Annecy per sfuggire allo scandalo. È morta di febbre polmonare poco tempo fa e la figlia è stata adottata da Madame Lefevre” fece una piccola pausa, poi guizzò sul giovane un’occhiata inquisitoria: “Ma perché ti interessa tanto, mon frére?”
Lui scrollò le spalle: “Tanto per saperlo. Non c’è un motivo particolare”.
Ma il sinistro luccichio nei suoi occhi diceva tutto il contrario.
 
 
 
  
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