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Autore: Silvar tales    06/01/2012    2 recensioni
“Sei un angelo?”
La ragazza si alzò, reggendosi su gambe non più tremanti. La sua espressione si era fatta più fredda.
“Sono venuta per Sasori”, concluse, prima di dirigersi verso la brughiera.
A Deidara mancò un battito.
La guardò scomparire dietro la scogliera, diretta ad Ayreos, avvolta in una bolla luminosa, mentre il blu profondo dei suoi occhi si trasformava in carbone, un carbone più nero dei residui dei falò domenicali.
E si lasciò invadere dai sensi di colpa.
[Turno 4, Stanza 7: Isole]
[44 punti ottenuti al contest "Le Dodici Stanze - Chi la dura la vince" indetto da ellacowgirl in Madame_Butterfly]
Genere: Drammatico, Erotico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara, Konan
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Deidara sfida Le Dodici Stanze '
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Il Passaggio oltre la Brughiera




“Là, su una di quelle zattere di terra sparse nel mare aperto, c'è un paesello, con il suo campanile e la sua storia”.
Questo si sentiva raccontare dalle guide turistiche, e i visitatori curiosi allungavano il collo, si sporgevano dalle ringhiere della nave volendo scorgere un tetto, o una torre, o una qualche costruzione umana.
Ma Ayreos - così si chiamava - era ben nascosta tra la vegetazione, i muri delle case si mimetizzavano con la scarpata di roccia attorno alla quale erano arrampicati, così che sembrava che la montagna fosse bucata di tante gallerie. E quando la sera le finestre si accendevano di rosso e giallo, sulla parete scura spiccavano tanti lumini, sparpagliati come lucciole attorno ad un tronco millenario.
Deidara era poco più che un ragazzino, nato e cresciuto su quello scaglione di terra montuosa in mezzo al mare greco. Da quando era nato non aveva visto che mare e cielo, e nidiate di cormorani e sterpaglie incolte crescere nei cortili delle case medievali. Gli sembrava di vivere in una bolla e, guardando le isole nei dintorni dell'arcipelago, gli pareva di vedere solo altre bolle, ognuna che racchiudeva un mondo a parte.
Qualche volta aveva meditato di scappare, sdraiato su quella spiaggia gialla che tanto adorava, e tanto odiava allo stesso tempo. La odiava perché era proprio quello il trampolino dal quale non riusciva a tuffarsi, una spianata di rena arancione e rugosa, zeppa di conchiglie, sassi, detriti lasciati dai fiumiciattoli e dalle onde.
Quel tramonto, Deidara s'era recato nella cala, facendosi strada tra la brughiera spinosa. Stringeva la mano di Sasori, un suo compaesano poco più piccolo di lui, dal viso delicato e dagli occhi dolcissimi. Si erano adagiati sulla spiaggia, quel rettangolo di terra incastrato tra le scogliere. Quasi nessuno sapeva come arrivarci; la strada che portava a quella stretta nicchia era nascosta tra i pini marittimi e il sottobosco, e diventava poi un nastro di ghiaia scivolosa, che serpeggiava tra i bassi cespugli della brughiera. Erano sicuri che nessuno avrebbe indovinato dove passavano le sere e le notti, sarebbe stato come salire su uno scalino lunare.
Su quella spiaggia segreta, all'ombra delle scogliere lunghe e grigie, si sentivano liberi di dimostrare tutto il loro affetto reciproco; si abbracciavano, si baciavano, si coccolavano per ore, si divertivano a spogliarsi e a guardarsi a vicenda, pieni della curiosità tipica della loro adolescenza.
Finché un giorno Sasori si ammalò gravemente, di un male sconosciuto.
Nessuno sapeva cosa l'affliggesse, nessuno riusciva a far cessare la sua febbre, o a calmare i colpi di tosse che lo devastavano. L'unico rimedio sembrava tenerlo avvolto fra le coperte del letto, tutto il giorno e tutta la notte. Naturalmente le uscite con Deidara vennero proibite a priori.
Per i primi tempi il ragazzo, preoccupato e ansioso, trascorreva i suoi lunghi pomeriggi soleggiati al capezzale dell'amico; poi, vedendo che le condizioni di Sasori non accennavano né a migliorare né a peggiorare, gli fece sempre meno visita, e continuò a tener fede al suo spirito selvaggio vagando per le scogliere ed esplorando tane, spiagge, relitti arenati.
La sera, quando tornava al villaggio, raccontava a Sasori di tutte le avventure passate, dei nuovi nascondigli e nidi di gabbiani che aveva scoperto, e gli portava le uova di razza, quelle con quattro uncini, dure e gommose, che parevano le borsette delle bambole.
Ma una notte non tornò.
Era tornato a cala Jumi, la spiaggia dov'era nato, quella mitica, sulla quale si cantavano tante leggende. Era tramonto, la luce forte ravvivava ulteriormente il biondo dei suoi capelli, e accendeva di un verde smeraldino i suoi occhi azzurri. Si sedette mogio sulla sabbia, osservando il quieto ondeggiare del mare. C'era qualcosa che gli impediva di essere spensierato, e che non aveva nulla a che vedere con il tempo che si abbruttiva a nord. Era come un presentimento, un presagio.
Lanciò svogliatamente una manciata di sassolini nell'acqua, divertendosi ad osservare i cerchi concentrici che si intrecciavano fra loro.
E qualcosa lo fece sobbalzare.
Un verso umano, un gemito di dolore, gorgogliante, come provenisse dall'acqua.
Deidara fece un balzo indietro e si alzò in piedi, osservando col cuore in gola un'alga particolarmente filamentosa che affiorava in superficie. Di un insolito blu elettrico.
Sotto l'alga spuntò poi una fronte, pallida e corrucciata, due occhi anch'essi di un profondo blu mare, e un naso, e una bocca, e la forma levigata di un viso femminile.
Era una sirena.
Sciocchezze, si rimproverò Deidara, non esiste nessuna creatura del genere.
Cercò di ragionare velocemente e a mente lucida, indeciso se scappare o ammirare incantato il corpo nudo della ragazza che emergeva dall'acqua.
“Chi sei?” riuscì infine a balbettare, cercando di vincere lo sconvolgimento iniziale.
“Mi chiamo Konan”, disse lei con la stessa strana voce di prima, frizzante, rotta, difficile da interpretare. “Tu invece?”
“Mi chiamo Deidara...” Rispose titubante, cercando di dare un senso a tutta la situazione.
“Deidara”, ripeté Konan, mentre gli si avvicinava con movenze delicate del bacino. Raggiunse il ragazzo, lasciandosi alle spalle le bolle e la schiuma delle onde, e si sdraiò sulla sabbia, invitandolo ad imitarla. Lo guardò negli occhi, facendogli assaggiare la profondità abissale dei suoi.
“Il mare ha scelto te”, gli sussurrò a fior di labbra, prima di baciarlo piano. Deidara l'accolse con naturalezza, senza porsi nessun perché. La toccò sulle spalle umide e ruvide di sabbia, in mezzo alle gambe, fra le cosce morbide e abbondanti, dove s'incastravano minuscoli pezzi di conchiglia. Si lasciò privare dei vestiti, così spesso ingombranti e superflui in quel contesto. Lasciò che fosse l'atmosfera onirica a trascinarlo. Perché sì, doveva trattarsi di un sogno. Un sogno ad occhi aperti.
S'impadronì di quella ninfa, giocando a catturarla per poi liberarla nuovamente, ignaro del fatto che era lei a metterlo in trappola.
Un delizioso gioco di pelli bagnate e respiri soffocati, incorniciati dall'odore salato del mare.
Poi la ragazza gli sfuggì, sgusciò fuori dalle sue gambe e dalle sue braccia, e andò a riposarsi sulla sabbia fresca. Il suo seno si alzava e si abbassava frenetico, nel tentativo di calmare il battito cardiaco. Konan era bella, di una bellezza candida e quasi sovrannaturale. Forse era l'atmosfera a renderla così venerea.
Le toccò la schiena, seguendo la leggera linea della spina dorsale, increspandole la pelle pallida di brividi. Fin quando, sotto uno dei suoi tocchi, sentì la pelle incresparsi ed aprirsi. Due crepe lineari le si aprirono sul dorso, dando vita a due ali bianche e ripiegate, avvolte in una sottile pellicola di liquido che si infranse immediatamente, sciogliendosi in tante piccole gocce.
“Sei un angelo?”
La ragazza si alzò, reggendosi su gambe non più tremanti. La sua espressione si era fatta più fredda. “Sono venuta per Sasori”, concluse, prima di dirigersi verso la brughiera.
A Deidara mancò un battito.
La guardò scomparire dietro la scogliera, diretta ad Ayreos, avvolta in una bolla luminosa, mentre il blu profondo dei suoi occhi si trasformava in carbone, un carbone più nero dei residui dei falò domenicali.
E si lasciò invadere dai sensi di colpa.

Quella notte, Sasori diede il suo ultimo respiro.
   
 
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