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Autore: Marge    09/01/2012    5 recensioni
Se esistesse, vorrei mettere come genere "verismo". E' la prima storia che pubblico di questo tipo, ma credo sia lo stile che più mi si addice, che trovo più personale e che, infine, mi dà maggior soddisfazione.
Ambientata ai nostri giorni, protagonista è Jenica, prostituta rumena lungo la via Aurelia, appena fuori da Roma.
Scritta per il Title Contest - I titoli dello zio Emilio indetto da Satomi, al quale si è classificata prima ed ha ricevuto il premio "Interprete".
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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La sovrana del campo d’oro


“A’ signorì, come lo vole il cornetto? Ce l’ho semplice, voto e senza gnente!”
Ride, il ragazzetto dietro al bancone; ha un tatuaggio che gli serpeggia sul collo, dall’orecchio fino a scomparire nel colletto della camicia bianca. La ragazza scuote le spalle, senza farsi contagiare dal suo umorismo, e torna a leggere i titoli del quotidiano a disposizione; ma l’altro non demorde: “E il caffè, com’è? Normale?”
“Lungo, schiumato caldo, grazie” risponde lei senza alzare gli occhi. Il doppio senso si palesa immediatamente nella mente del barista, che ridacchia mentre rivolge l’attenzione all’altra cliente: “E te, come lo voi? Mi sa che di cosi lunghi e schiumati caldi ne vedi già troppi, eh!”
“Smettila di fare lo stronzo” ribatte acida Jenica, con le sue vocali chiuse che sembrano sempre arrabbiate.
“Oh, nun te se pò di' niente de mattina, eh!”
Senza degnarsi di rispondere ancora, Jenica addenta il suo cornetto; la colazione con quel dolce burroso e sfilacciato le è subito piaciuta: ottima tradizione italiana. È diventata una tappa fissa, la mattina, quando fa una pausa tra il turno notturno e quello della giornata. Mentre mangia, con la coda dell’occhio, nota che l’altra ragazza la sta osservando senza parere, tra una notizia di politica ed una d’attualità. Jenica è in tenuta da lavoro. Le rivolge uno sguardo incattivito, della serie “Che cazzo guardi?”, ma quando l’altra distoglie imbarazzata gli occhi, si concede il lusso di osservarla a sua volta con attenzione, e la sua fantasia comincia subito a prendere il volo: è più grande di lei, stabilisce, di qualche anno; forse è laureata da poco, porta gli occhiali e veste bene, non ha il cattivo gusto della romana qualunque: non sembrano abiti cinesi, i suoi. Visto che è in quel bar, in un benzinaio qualsiasi dell’Aurelia, poco fuori città, di sicuro non è però neanche una gran riccona, di quelle che hanno l’appartamento in Prati e fanno colazione a piazza Mazzini. Jenica decide che deve provenire da uno dei paesi lì intorno, e che sta andando a lavoro a Roma, come fanno praticamente tutti. Tailleur grigio, giovanile, e capelli dalla piega casereccia ma ordinata: probabilmente lavora in un ufficio. Legge il giornale: si interessa, non è una cretina. Sta sfogliando le pagine di politica. Chissà se guadagna qualcosa di decente, o ha uno di quei contratti-trappola all’italiana, una specie di rimborso spese a dodici ore al giorno festivi inclusi, senza ferie né orari, che comunque le scadrà tra pochi mesi, rispedendola a casa dai suoi a mandare curriculum ovunque. La voce di sua madre le risuona nelle orecchie: “In Italia c’è lavoro, vacci! C’è andata anche tua cugina, e spedisce ogni mese molti soldi! Ti metti da parte qualche cosa, e fra qualche anno torni, compri casa e ti sposi!”
In Italia il lavoro c’è per gli stranieri, è vero. Bisogna solo entrare nel giro giusto: quella sua cugina, ad esempio, aveva un fidanzato che aveva una zia che faceva la badante ad una vecchia; morta quella, nel giro di tre giorni ne aveva già trovata un’altra; ci aveva messo poco a trovarne una anche per lei, e con un lavoro così, con vitto e alloggio gratis, si può veramente mettere da parte un bel gruzzolo.
Ma Jenica, chissà come, è finita nel giro sbagliato; è stata veramente una stupida, anche perché credeva di aver colto una grande occasione, ed invece di finire a pulire culi ai vecchi o spezzarsi la schiena a forza di fare pulizie, le avevano promesso che avrebbe fatto la baby sitter. Guardare bambini! Una soluzione ottimale: era praticamente una bambina anche lei, dopotutto. Si era immaginata con grande piacere lunghi pomeriggi passati con in mano quei fantastici giocattoli costosi, che da piccola se li sognava. Damian le aveva perfino detto che così avrebbe imparato, per quando si sarebbero sposati e ne avrebbero avuti di loro.
Ed invece, era stato proprio lui.

L’estate dei suoi tredici anni, Jenica aveva avuto la rosolia. Il caldo della febbre si era sommato a quello della stagione, costringendola a letto in un bagno di sudore, e sua madre, animata dalla solerzia di una solida donna di campagna, si era prodigata nel prepararle ciorbă e bors senza sosta, costringendola ad ingurgitarle nonostante fossero bollenti, e secondo il parere di Jenica, anche ributtanti. Fosse stato per lei, avrebbe mangiato solo rinfrescante gelato. Ma di gelato non ne aveva mai mangiato molto, dopotutto.

Il sole entra quasi con violenza nella sua camera; l’aria è afosa e quasi irrespirabile, così secca da far fatica a rotolare verso i polmoni. Con le labbra screpolate, Jenica fissa il soffitto senza pensare a nulla; il bianco le sembra fresco, e così lo osserva, muta. D’un tratto si accorge che deve fare pipì, ma non le va di alzarsi. Di riflesso, scende con la mano a toccarsi l’orlo della camicia da notte bianca, che è risalito sulle cosce e le copre a malapena il pube. Non ha le mutande, perché le fanno caldo, e se ne sta distesa di fronte alla finestra spalancata, dalla quale non arriva neanche un soffio d’aria.
Sa che qualcuno potrebbe passare e vederla, così, con ciò che ha fra le gambe in offerta, e questo la eccita. Uno qualsiasi dei suoi cugini, o uno zio, o uno dei ragazzi che lavora la terra lì potrebbe accorciare la strada nel tornare a casa per pranzo, decidere di attraversare il cortile e cogliere quello squarcio.
Jenica si sente bellissima, e forse lo è: il seno comincia a svilupparsi, la pelle è liscia e compatta, le gambe si sono allungate così tanto, nell’ultimo anno, soprattutto da quando le mestruazioni le sono colate giù per la prima volta, strappandole un grido di giubilo. Le piace crescere.
Si tocca leggermente, lì dove ancora non è importante, dove ancora potrebbe, se sua madre entra improvvisamente in camera, far finta di grattarsi un pizzico di zanzara.
Le gambe sono coperte dalle marezzature della rosolia, ma sono così chiare, ormai, che, nella penombra della stanza, se qualcuno la osservasse da fuori, dove il sole splende impietoso, non si vedrebbero. Per fortuna, è quasi guarita, e non ne può più di starsene relegata in camera, mentre sua sorella è in giro tutto il giorno, là fuori.
Ha cominciato a toccarsi quando le sono spuntati i primi peli. Era solo curiosità: tra tutte le parti del suo corpo, quella ha cominciato a cambiare più delle altre. Ha imparato dove le dita possono stuzzicare, dove fanno solletico, ha trovato i suoi buchi, che non credeva di avere, bagnati e caldi, e sa dove premere e giocare per far salire dei brividi fin nella pancia.
Davanti la finestra, allarga leggermente le gambe per far spazio alla mano. Sorride al soffitto, mentre i polpastrelli, quasi esitanti, esplorano la pelle bollente, cercando quel punto che le sembra, la faccia sciogliere come un gelato. Un fresco gelato goccia a goccia…
Ne sente il sapore sulla lingua mentre il brivido del piacere le scuote le ginocchia, socchiude gli occhi, e lo vede, Damian, dall’altro lato del cortile, con la vanga posata su una spalla. Anche lui la guarda, e non ha espressione in viso. Jenica si lascia andare, finisce con calma di godere, facendosi scappare un soffio a labbra dischiuse, e senza togliere la mano, lo continua a fissare.
Si guardano finché sua madre non la chiama per il pranzo.

In quell’estate dei suoi tredici anni, Jenica si innamorò perdutamente, per la prima ed unica volta della sua vita. Si innamorò perché lui era rimasto lì a guardarla.
“Sei la mia principessina, la mia regina, la mia dea” le diceva Damian, rubandole i primi baci. Si guardavano elettrizzati, senza parlare, ricordando quella mattina così calda.


“Sai, tesoro, ho deciso che d’ora in poi farò solo sesso sicuro” esclama l’uomo, quasi ridendo, preludio ad una battuta facile cui Jenica sa già che dovrà ridere, nonostante non venga pagata anche per essere comprensiva. Tuttavia, recitare la parte della donna interessata alle cazzate che escono dalla bocca di uomini come quello è fruttuoso, il cliente torna, quindi lei domanda, con un mezzo sorriso malizioso: “Ah, sì?”
“Solo a pagamento! Così trombo di sicuro!” conclude lui, e si sganascia dalle risate, facendo vibrare la pancia grande come un cocomero, ed offrendole la vista di due file di denti imperfetti, alcuni con otturazioni, tutti comunque ingialliti dalla nicotina.
Quell’uomo è un medico, è separato, ha un rapporto praticamente inesistente con i suoi due figli, ama mangiare, ha una specie di compagna con la quale però condivide molto poco, vista la frequenza con cui la sua macchina si ferma sul ciglio dell’Aurelia: Jenica sa molto di lui, perché è uno di quelli a cui piace chiacchierare, dopo la scopata. Ed anche ora, mentre infila nelle mutande il pene sazio ed avvizzito, ricomincia a lamentarsi del figlio maggiore, senza lavoro. Si riveste anche lei, di fretta, perché ha freddo, e poco dopo viene nuovamente scaricata al suo posto di lavoro, con cinquanta euro in più in tasca, già ipotecati da colui che possiede il suo presente. Il sole sta sorgendo, dietro ai campi coltivati. Se guarda attorno a sé, Jenica vede solo quei campi, e la lunga striscia d’asfalto che si snoda verso nord e verso sud. Le macchine che sfrecciano sono ancora poche, ed ognuna che passa, Jenica la guarda fissa, da quando compare all’orizzonte a quando la sorpassa con un sibilo, cercando di immaginare la vita di coloro che vi sono dentro.
Alcune macchine la fanno i fari, passando, in omaggio alle sue cosce scoperte in bella vista, agli stivali dal tacco alto. Si volta, ben sapendo che offrire il lato posteriore comunque non farà desistere il prossimo cliente dal fermarsi, ed osserva solo i campi.
Jenica pensa a molte cose, in quel momento di silenzio e beata solitudine: a sua madre ed ai suoi piatti, che da bambina odiava e che ora brama ad ogni pasto; a suo padre che non c’è più, per fortuna, perché lei non sopporterebbe il suo sguardo, se sapesse del suo mestiere; pensa a sua sorella, al sicuro in Romania, e giura a se stessa che mai, mai finirà in Italia a fare quel lavoro, dovesse raddoppiare il debito con il suo capo per lasciarla vivere libera. Infine, pregustando con malcelato piacere il dolore che ne arriverà, pensa a Damian, a quando era una ragazzina innamorata di lui, ed alla bestia in cui poi si è trasformato.
Mic prinţesă, la chiamava.
Non è tanto l’idea che l’abbia venduta a quella maniera: storie tristemente note, non è stata certamente la prima, né tantomeno l’ultima. Il dolore arriva ripensando alla sua ingenuità: sente pietà di se stessa, e da sola si ripete povera, povera piccola principessa. Povera Jenica, cosa farai, dopo? E quando arriverà, quel dopo? Ci sarà mai? Una parte di lei non vuole credere veramente che un futuro semplice, una famiglia, una casa, una bambina tutta sua, da innalzare sopra ogni bruttura, non siano più possibili; ma in fondo sa, che non potrà, mai. Non più, e per questo si compatisce.
Il sole infine appare sopra l’orizzonte; Jenica ha sempre preferito il giorno alla notte, e con sollievo accoglie la luce chiara, che spazza via gli incubi della notte. Fra poco potrà tornare a casa, per una mezza giornata non pensare a nulla, non lavorare. I campi si inondano di luce, sono luminosi a tal punto da sembrare dorati, risplendenti di milioni di piccolissimi fiori gialli. Jenica alza una mano e saluta quella folla di piccoli sudditi, sorride come una sovrana, ben sapendo che sono sicuramente loro, ad essere i più ricchi.
Povera, povera Jenica, si ripete ancora.




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Scritta per il Title Contest – I titoli dello zio Emilio indetto da Satomi, nel quale si è classificata prima ed ha ricevuto il premio “Interprete”.
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