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Autore: Elenis9    09/01/2012    5 recensioni
Morgana e Alessandro sono uniti da un matrimonio combinato che sembra essere destinato all'infelicità, le differenze fra loro sono insormontabili: lui col suo silenzio e la sua freddezza e lei con quella voglia di essere se stessa, libera da tutte le regole imposte dalla sua condizione di nobildonna.
Ben presto però si accorgeranno che il matrimonio non è il loro unico problema: il Re è minacciato da continui attentati e Alessandro, essendo suo fratello, non può che essere coinvolto.
Dalla storia:
"Si piegò su di me con lentezza, dandomi il tempo di ripensarci, di scansarmi, ma io non ne avevo intenzione, fremevo per un misto di aspettativa e timore e desideravo che il tempo si fermasse e accelerasse insieme.
Mi sfiorò prima la fronte con un lieve tocco di quelle labbra caldissime, poi si spostò verso l’orecchio, solleticandomi col respiro e con un piccolo morso sul lobo, strappandomi brividi che mi corsero lungo tutta la schiena."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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ATTENZIONE!
Questo è il secondo capitolo che pubblico a distanza di pochi giorni, 
controllate di aver già letto il precedente =)
Buona lettura! 


“Questa notte.. sai, non venire”.
“Non ti lascerò”.
“Sembrerà che io mi senta male… sembrerà un po’ che io muoia. È così. Non venire a vedere, non vale la pena…”
“Non ti lascerò”.

Il piccolo principe

 
Stavamo viaggiando da circa un quarto d’ora quando la carrozza si fermò all’improvviso.
All’inizio pensammo ad un intoppo lungo la strada, ma c’era uno strano silenzio che fece immediatamente rizzare le antenne ad Alessandro, che aprì la porta della carrozza per scendere a dare un’occhiata.
Stavamo attraversando il tratto boscoso che separava la nostra tenuta dalla piccola cittadina, intorno a noi il bosco era fin troppo fitto: non eravamo più sul sentiero.
“Che succede, Riccardo? Hai sbagliato strada?” Domandò Alessandro, trovandosi davanti il faccione rubicondo dell’uomo. Era venuto lui a prenderci con la carrozza perché Francesco, che di solito ci accompagnava, era rimasto ad occuparsi del frutteto: la pioggia implacabile degli ultimi giorni non era stata clemente con gli alberi, evidentemente.
“Perdono, mio signore!” Esclamò questi con una vocetta squillante che mal si addiceva alla sua corporatura robusta. Con un movimento solo, rapido, pugnalò Alessandro; il pugnale lo teneva in mano, nascosto tra le pieghe del mantello.
“Perché?” il principe sembrava del tutto incredulo mentre guardava il sangue che macchiava la sua mano destra, corsa istintivamente a tamponare la ferita. Nel frattempo la mano sinistra aveva già estratto la spada, muovendosi quasi indipendentemente dalla sua volontà. “Per quanto mi hai venduto, eh? Per quanto?” Ringhiò, puntandogli l’arma alla gola. La mano non tremava, non c’erano esitazioni: una volta le aveva raccontato che era stato addestrato a tenere salda la spada sempre, in qualsiasi condizione fisica o emotiva.
Riccardo biascicò qualcosa di poco sensato sulla sua famiglia, i suoi bambini o forse sua moglie, qualcosa su dei soldi… poi chiese ancora perdono e tentò la fuga, lasciando cadere il pugnale.
“Vigliacco” la voce di Alessandro si spense in un borbottio mentre rinfoderava la spada, lasciandolo scappare, e si girava verso di me.
Io mi sentivo più o meno una statua di ghiaccio: rigida e incapace sia di muovermi che di formulare un pensiero che non fosse: sta sanguinando, sta sanguinando!
“Morgana…” stava per aggiungere qualcos’altro ma barcollò pericolosamente e fu costretto a sedersi per non cadere. Questo mi diede una specie di scossa: dovevo far qualcosa.
“Risparmia il fiato, mio signore. Fra poco dovrai salire a cavallo” la mia voce sembrava quasi normale mentre scendevo dalla carrozza e liberavo uno dei cavalli. Era un maschio, notai distrattamente, un maschio nero. Tornado?
Ringraziai il cielo che fosse lui: era il cavallo migliore che avevamo, e il più intelligente, anche.
“Fai il bravo, piccolo… ti prego” mi tremavano così tanto le mani che faticai a sciogliere tutti i lacci che lo imprigionavano. Non c’era una sella ma potevamo farne a meno: l’importante era raggiungere un qualunque posto prima che fossero i lupi a raggiungere noi.
Alessandro riuscì a mala pena ad issarsi sul cavallo, dalla ferita perdeva abbastanza sangue da aver già formato una grossa chiazza sui vestiti e sul sedile della carrozza.
Liberai velocemente anche il secondo cavallo, ero talmente sconvolta che l’animale reagiva innervosendosi a sua volta e di certo non potevo permettermelo.
“Scusami, scusami. Va tutto bene” Mormorai salendogli in groppa, cercando di rassicurarlo con la voce. Per fortuna, essendo uno dei nostri cavalli, mi conosceva e si lasciò tranquillizzare, obbedendo docilmente ai miei ordini.
“Abbiamo deviato parecchio dal sentiero... com’è possibile che non ce ne siamo accorti?!” L’agitazione che stavo provando a reprimere trovò che parlare sarebbe stata un’eccellente valvola di sfogo, perciò le mie labbra iniziarono a formulare parole su parole, velocemente, senza quasi farle passare prima dalla mia testa.
Intanto avevamo spronato i cavalli a partire e ci stavamo dirigendo verso la città: avevo deciso che sarebbe stato molto più veloce portare Alessandro a casa di Federico e andare di persona a prendere il medico che abitava poco distante, piuttosto che tornare indietro verso casa nostra e mandare qualcuno a prendere il dottore da lì. Troppo lontano, troppo tempo. Non potevamo permetterci di perdere neanche un secondo.
Alessandro si premeva una mano sulla ferita, cercando di fermare il sangue come poteva, e teneva l’altra sul collo di Tornado. Si sforzava palesemente di restare dritto, ma aveva il viso così pallido che per poco non risplendeva nel buio del bosco.
Procedevamo abbastanza spediti, ma mi sembrava sempre che fosse troppo piano, quasi che quel bosco fosse infinito.
“Alessandro” lo chiamavo ogni tanto, giusto per sentirlo grugnire un “sto bene piccola, non preoccuparti”.
Sapevo che non era vero, la sua voce era sempre più roca e faceva sempre più fatica a star dritto sulla schiena del cavallo.
Ad un certo punto, mentre uscivamo dal bosco, rischiò di scivolare giù dall’animale. Si riprese per un pelo, stringendo il crine di Tornado e accucciandosi di più sul suo collo, stremato.
“Siamo quasi arrivati, ancora poco, te lo prometto” dissi, portandomi accanto a lui. Con una mano gli scostai i capelli che si erano appiccicati alla fronte, sudata nonostante il freddo pungente; teneva gli occhi aperti ma sembrava che anche questo gli costasse fatica.
“Non preoccuparti, Principessa, non fa neanche più male” mi rassicurò con un soffio di voce, allungandomi la mano. Il sangue impregnava il giaccone fino alla manica.
Cercai di rivolgergli un sorriso, abbassandomi a baciarlo sulla fronte e il cuore sembrò sprofondarmi nel petto: la sua pelle era fredda! Mi tolsi il mantello che avevo sulle spalle e glielo sistemai addosso come meglio potevo, sperando di tenerlo al caldo il più possibile.
“No, Morgana...” cercò di protestare, ma lo bloccai prima ancora che finisse la frase.
“Non ho freddo. E poi manca pochissimo, davvero”. Un ultimo bacio leggero, a for di labbra, e spronai il cavallo a ripartire.
Tornado mi stava dietro, seguiva fedelmente tutti i miei movimenti quasi avesse capito la situazione e stesse facendo del suo meglio per aiutarmi. Beh, gli promisi mentalmente una valanga di mele e zuccherini, ovviamente.
La casa di mio fratello non distava più di cinque minuti. Pochissimo, eppure abbastanza perché Alessandro perdesse completamente conoscenza, accasciandosi contro il collo di Tornado e costringendomi a rallentare perché non scivolasse dalla sella.
Quando arrivai di fronte al cancelletto di ferro battuto che conoscevo tanto bene mi sentii sollevata come non mi accadeva da tantissimo tempo.
Smontare da cavallo, aprire il cancello e bussare alla porta furono azioni così automatiche che le feci senza quasi rendermene conto.
Quando sulla porta si presentò Diana, la nostra vecchia governante, per poco non le scoppiai a piangere in faccia. Per poco, perché mi diedi un contegno e le ordinai di far uscire mio fratello immediatamente, di prenderlo per un orecchio e portarmelo, se necessario, non m’importava cosa stava facendo.
Lei non disse nulla ma si dileguò nel labirinto di corridoi, pronta a fare come le avevo chiesto. Santissima donna.
“Siamo arrivati, mio signore” mormorai, carezzandogli una guancia. A quell’altezza il suo viso era quasi al pari del mio e, se prima mi era sembrato semplicemente pallido, adesso era così bianco da poter far concorrenza al latte.
Aprì appena gli occhi fissandoli più nel vuoto che sul mio viso e accennò un sorriso stanco.
“Sei bellissima, Morgana” biascicò, prima di ripiombare nell’incoscienza.
Mio fratello arrivò sulla porta spinto, o quasi, da Diana, che continuava a ripetergli che non le importava se indossava soltanto una veste da camera, che ero stata io a precisare che doveva uscire prima di subito.
Vi ho già detto quanto adoro quella donna? Per la maggior parte della mia infanzia era stata una balia, una mamma e un’amica, per me, ed io le ero grata dal più profondo del cuore.
“Federico, devi…” pausa, perché non avevo alcuna intenzione di lasciarmi andare ad una crisi isterica, né in quel momento né mai. “… portarlo in braccio. È privo di sensi” conclusi, guardando mio fratello con la mia migliore espressione supplichevole.
Lui ricambiò il mio sguardo con un’espressione strana, non era sconvolto come mi aspettavo, ma era sorpreso e anche… indeciso? No, non era possibile che avesse un conflitto interiore sulla possibilità di aiutarci. Lui era mio fratello, santo cielo!
L’avrebbe fatto che gli piacesse o meno, altrimenti sarei stata capacissima di raccogliere la sedia da giardino che era lì a pochi passi e dargliela in testa finché non fosse rinsavito.
Fortunatamente non fui costretta a perdere tempo in quel modo. Fede si fece avanti cercando di sollevare Alessandro con le sue sole forze.
Con uno sforzo non da poco e qualche gemito di protesta da parte dell’altro, ce la fece, nonostante mio marito fosse di almeno una spanna più alto di mio fratello e certamente più robusto.
Barcollando paurosamente e col viso tutto rosso e teso per lo sforzo, Federico trasportò il ferito in casa. Io rimasi sulla porta a guardarlo finché non sparì dietro l’angolo, a quel punto cercai Diana con lo sguardo.
Lei annuì: “mi prendo cura del cavallo, bambina. Vai pure”.
La ringraziai mentre correvo verso Tornado e mi issavo sulla sua groppa, spronandolo al galoppo.
La casa del dottore, Luca, era vicinissima, bastava aggirare la piazzetta di fronte la casa di mio fratello e prendere una delle stradine subito a sinistra.
Per un caso fortuito che non osavo definire, fu lo stesso Luca ad aprirmi la porta.
Ero talmente agitata che parlai a raffica, rigettando sul povero dottore una valanga di parole incomprensibili tra cui, probabilmente, spiccavano “ferito”, “sangue” e “deve seguirmi” che furono quelle che quasi gli urlai in faccia. Lui fu bravissimo ad arginare la mia crisi di nervi nel modo migliore: fu velocissimo nel procurarsi i suoi attrezzi e nel seguirmi senza fare domande.
Montai a cavallo e praticamente lo obbligai a fare lo stesso senza aspettare che qualcuno preparasse il suo o qualsiasi altra cosa avesse in mente.
Dovevamo far presto. Presto.
Perché per tutti sembrava tanto difficile da capire?
Alla fine, giustificandosi con una cosa del tipo: va bene, ho capito. Si arrese al mio volere e finalmente riuscii a portarlo a casa.
 
Era quasi un’ora che aspettavo, passeggiando davanti alla porta di una delle stanze degli ospiti. Federico mi aveva chiusa fuori, sostenendo che fosse una cosa cui una donna non doveva assistere: troppo sangue, stai scherzando?
Dannazione!
C’era mio marito, era il suo sangue! E non m’importava nulla se a mio fratello sembrava una cosa troppo impressionante, io volevo stargli accanto in quel momento, volevo vedere l’espressione del dottore e rallegrarmi del fatto che non era niente di grave.
Perché non poteva essere grave. Non poteva.
Nonostante cercassi di convincermene, in parallelo c’era una vocina che continuava a sussurrarmi nel cervello: “se per colpa di Federico muore senza che io sia lì a tenerlo per mano, giuro che… che…” ma non riuscivo mai a trovare qualcosa che fosse abbastanza terribile da compensarmi di una perdita del genere.
Non c’era niente di ciò che avrei potuto fare che mi avrebbe fatto tornare indietro al momento giusto, niente che mi avrebbe fatta sentire meglio, meno in colpa. Niente che avrebbe permesso a mio fratello di liberarsi del mio odio.
Ogni tanto si sentivano dei rumori da dietro quella porta spessa ma non riuscivo a distinguere le voci o le parole. Potevo soltanto sperare che fossero buone notizie.
Diana continuava a cercare di consolarmi in qualche modo. Prima aveva provato col the, poi vedendo che non aveva sortito l’effetto desiderato era partita con gli abbracci e le coccole, poi accorgendosi che non riuscivo a star ferma in un punto, si era limitata a sedersi nello stesso corridoio in cui io stavo facendo il solco, solo per farmi sentire la sua presenza.
Ogni tanto le concedevo un sorriso o una parola, giusto per farle capire che apprezzavo, che le ero grata e che non volevo se ne andasse; poi tornavo a chiudermi nella mia testa in cui c’era in corso la lotta fra le due parti del mio cervello che sostenevano che Alessandro si sarebbe sicuramente ripreso velocemente e l’altra che insultava Federico per avermi chiuso fuori.
“Morgana!” distinsi chiaramente il mio nome pronunciato nella stanza. Doveva essere stato gridato o non sarei riuscita a sentirlo così bene, perciò sarei stata pronta a scommettere che la voce che avevo sentito non apparteneva a Luca e nemmeno a Federico. Tanto meno a Fede.
A quel punto, non potevo starmene lì con le mani in mano, giusto?
“Maledizione, Fratello! Fammi entrare o ti giuro che troverò il modo di sfondare questa dannatissima porta!” La finezza mi aveva abbandonata: non avevo mai usato tante parolacce in una sola frase e, certamente, neanche un tono tanto maleducato.
La porta si aprì di scatto. Federico aveva l’aria di essere sul punto di esplodere con una di quelle ramanzine eterne sull’educazione e sul linguaggio, nonché sulla mia posizione sociale e bla, bla, bla. Tutte cose che sapevo a memoria e di cui in quel momento non poteva importarmi di meno.
“Morgana…” la voce che pronunciò il mio nome non era quella di mio fratello. Era scura e profonda sebbene fosse solo un sussurro fioco e arrotolava la r in quel modo tutto particolare che mi faceva sempre sorridere.
In realtà più che sorridere tirai una specie di sospiro di sollievo e dissi qualcosa come: “grazie al cielo”, prima di cercare di oltrepassare la “barriera Federico” che ancora si ostinava ad ostruirmi il passaggio.
“Dove sei?” soffiò ancora, non potevo vederlo ma sentivo che qualcosa si muoveva nella stanza “dove sei?”.
Altri movimenti, un gemito e un’imprecazione di quello che doveva essere il dottore.
“Falla entrare, per l’amor di Dio! Se continua così non riuscirò mai a ricucirlo!” Esplose Luca, evidentemente esasperato.
Federico si girò per ribattere qualcosa e mi lasciò un piccolo spiraglio di cui approfittai immediatamente.
La stanza era illuminata per permettere al dottore di vedere bene cosa stava facendo, aveva in mano un bel paio di pinze con cui teneva ago e filo.
Alessandro era sdraiato sul letto quasi completamente nudo e il lenzuolo sotto di lui era pieno di sangue. Il suo viso era pallido come lo ricordavo ed era girato verso di me. Una bottiglia semi-vuota di un qualche alcolico era sdraiata al suo fianco e lui  mi fissava con occhi febbricitanti.
“Non faceva che entrare e uscire dallo stato cosciente” spiegò Luca, accennando un sorriso “perciò gli abbiamo dato l’alcol, ma è troppo agitato, non riesco a farlo star fermo” concluse.
 
Annuii, ignorando i continui sbuffi di Federico che continuava a sostenere che non avrei dovuto assistere e tante altre belle cose che non mi presi nemmeno la briga di ascoltare.
“Che fai, principe? Non è da te essere capriccioso” dissi, allungandomi sul letto per sfiorargli un braccio. I suoi occhi, che non mi avevano lasciata un secondo da quando ero riuscita ad entrare, sembrarono riacquistare lucidità per qualche secondo.
“Resta” fu l’unica cosa che disse, allungando una mano verso di me, cercando la mia.
“Ma certo che resto. Cosa credi? Non è facile liberarsi di me” ostentai un’aria di superiorità che proprio non mi sentivo e risposi al suo sorriso accennato con un altro sorriso.
“Non c’eri, prima” mi rispose, stringendomi spasmodicamente le dita fra le sue e facendomi anche un po’ di male, sebbene la stretta non fosse poi così forte.
“Adesso ci sono e non ti lascerò.” gli accarezzai il braccio teso con la mano libera, sentendo il suo corpo rilassarsi sotto le mie dita. Stava di nuovo soccombendo all’incoscienza.
Luca sembrò essermi grato per questo e riprese a manovrare ago e filo con movimenti esperti e sicuri di quelle dita agili.
“Sei bravissimo” sussurrai ad Alessandro quando si svegliò dopo non più di tre minuti, riprendendo conoscenza e cercandomi subito con lo sguardo. Una stretta alla mano, un sospiro e di nuovo perse i sensi.
Continuò così fino alla fine dell’operazione, anche mentre i dottore disinfettava e puliva di nuovo la sutura, coprendola con delle face e delle garze che gli avvolse attorno all’ampio torace.
Ogni tanto si svegliava e mi guardava, quasi ad assicurarsi che fossi ancora lì con lui, sistemava meglio le nostre mani intrecciate e poi di nuovo scivolava via da me, verso l’incoscienza.
Persino quando Luca e Federico lo trasportarono in un’altra stanza non mi lasciò la mano. Sembrava trovare confortante quel contatto e io, forse, lo trovavo più confortante di lui.
Fu proprio mentre lo adagiavano sul letto che si svegliò per l’ennesima volta. I suoi occhi si aprirono di scatto e rimasero fissi sul soffitto della camera per un paio di secondi, poi la mano di Alessandro si rilassò, lasciandosi scivolare le mie dita e, nello stesso istante, anche i suoi occhi si chiusero.
“Alessandro?” Un presentimento orribile mi chiuse le viscere mentre riprendevo la sua mano con la mia.
“Maledizione!” Luca, che si era chinato a controllare i parametri vitali di mio marito, cominciò a pompare sul suo petto con le mani. “Se ne sta andando!” ringhiò, continuando a premere il torace di Alessandro con un certo ritmo.
No che non se ne sta andando!


So di meritare la morte per il finale di questo capitolo ma se lo postavo tutto mi veniva davvero troppo lungo e allora... beh ho dovuto spezzare...
Grazie a tutte le ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo ^^ Spero che vi piaccia anche questo, nonostante l'evidente piega drastica che hanno preso gli eventi... 
Beh, nel prossimo capitolo si inizia a svelare il mistero degli attentati!
A presto!

  
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