Capitolo 23
Lonely lone
Non serviva a molto pensarti se
poi voltandomi non c’eri.
A cosa serve l’immaginazione se
poi non c’è la realtà a completarla?
Lonely spell to conjure you,
but conjure hell is all I do
Così me ne stavo ferma, raggomitolata nel mio
angolo di letto, freddo e vuoto, cercando di guadagnare del calore che non sarebbe
arrivato mai. Me stavo con gli occhi sbarrati, perché a chiuderli l’unica
immagine che si formava era il ricordo di quella litigata in piena notte,
scellerata e stupida, come stupide erano state le mie parole.
Sempre meglio che starsene a
piangere e a compatirsi addossati ad una parete o alla porta, cosa che avevo
già abbondantemente fatto non appena lui
aveva lasciato la stanza. Incapace di corrergli dietro, me ne stavo
pietrificata, messa al tappeto dalla mia stessa idiozia; continuavo a ripetere
a me stessa quanto fossi stata stupida e, tiritera della mia breve esistenza,
cogliona e stronza. Perché ce ne voleva di cattiveria per dire quelle parole ad
un ragazzo come Tyler: era facile dire che aveva un cuore d’oro, ma lui andava
ben oltre l’immagine di bravo ragazzo. Era un angelo, un essere soprannaturale
che aveva avuto la pazienza di curarsi di me, di starmi vicino, di aiutarmi. Mi
ha vista quando ero invisibile, mi ha ascoltata quando ero muta, ha continuato
a parlarmi persino quando ero sorda. E l’unico ringraziamento che ero stata in
grado di dargli era uno schiaffo morale, uno sputo sporco sulla sua anima
pulita.
Non
ho bisogno di te,
gli avevo detto, non ho bisogno di te.
Bugiarda, testarda e stupida. Perché non solo sentivo di aver bisogno di lui
come l’aria nei polmoni, ma ero stata ulteriormente egoista nel sentirmi
l’unica protagonista di quella cosa bellissima che stavamo portando avanti,
qualunque cosa fosse.
Ed ora mi ritrovavo in una
città piena di ricordi dolorosi, a dover affrontare un passato scomodo: ed ero
da sola. Per la prima volta nella mia vita sentivo di aver davvero paura del
buio.
No sweetheart in the dark to call my
own
E non c’erano più le braccia
dove andarsi a rifugiare, le mani lunghe che asciugavano le mie lacrime erano
andate via. E mi mancavano da morire: era come non poter respirare ad alta
quota, era come l’arsura nel bel mezzo del deserto. Ma io non avevo bisogno di
lui … vai a raccontarlo a chi ancora ti crede Allison!
Immobile ed infreddolita me ne
stavo sotto le lenzuola che, sarà stata la scarsa qualità del tessuto o la
quantità enorme dei miei rimorsi, sembravano cosparse di spine e non la
smettevano di pungere ad ogni singolo movimento. Mi sembrava di essere
confinata di nuovo in quel mio stanzone 4x4, sporco e maleodorante, costretta a
vedermela da sola con il resto del mondo. Come si stava male da soli.
Perché … perché la razza umana
è così pateticamente ottusa da accorgersi del valore delle cose che ha solo
quando le perde? Perché dobbiamo arrivare alle conclusioni più ovvie quando
ormai è troppo tardi? Non ci basta vivere in un purgatorio … non siamo contenti
se la vita non è un inferno in Terra.
O almeno questo valeva per me,
la viziata, spocchiosa, egocentrica Allison, pronta a restare sola nel suo
guscio, piuttosto che rischiare di imboccare la via stretta e tortuosa per
avere una migliore compagnia.
La notte scivolava via, insonne
e silenziosa, interrotta solamente dai singhiozzi di un pianto solitario e
muto. I muscoli non si erano tesi nello sforzo di raggiungerlo e fermarlo, le
corde vocali non si erano sgolate per fargli cambiare idea e così mi ritrovavo
a fissare sul comodino lo schermo di un vecchio orologio digitale che
lampeggiava ad intermittenza, troppo lento perché il tempo potesse scorrere
correttamente, e un telefono muto come tutto quello che lo circondava. Non
avrebbe chiamato, chi volevo prendere in giro? Dopo quello che gli avevo detto
era già troppo che non mi aveva presa a calci.
Lui non avrebbe cambiato idea,
era troppo arrabbiato e troppo deciso per farlo, e le mie braccia al contempo
sembravano atrofizzate per prendere il cellulare in mano e comporre il suo
numero. Paura marcia di un addio a cui non c’era rimedio e che mi ero meritata.
Tyler aveva diritto di
pretendere da me risposte a domande che sicuramente erano rimaste zitte e
irrisolte per settimane, pur non avendo potuto scegliere un momento peggiore
per rivolgermele. Se solo avesse aspettato che tutto quel trambusto fosse
passato, se solo mi avesse dato un paio di settimane per ambientarmi con le
novità … forse la mia risposta sarebbe stata meno sgarbata, e certamente
sarebbe stata diversa.
Non un sì a testa alta e senza
esitazione, ma un nì possibilista. Perché Tyler è speciale e vale la pena
provare. Per lui … per me.
Avrei impegnato tutta me stessa
per tentare ciò che per lui, per mia evidente colpa, era già una realtà; mi
sarei impegnata anima e corpo affinché lui non soffrisse. A me poco importava:
un cuore più spezzato, non era possibile averlo. Ma lui, per tutto quello che
aveva fatto per me, meritava di certo qualcosa di più di un paio di gambe
aperte ed un corpo arrendevole.
Non ero la persona giusta per
lui, col mio carico di guai non avrei fatto altro che rovinargli la vita, ma di
me gli interessava solo il cuore e non stava a me negarglielo.
Ero sola e per la prima volta
avevo paura del buio: paura di affrontare da sola ciò che mi si parava davanti,
paura di scegliere, paura di usare il cuore al posto della ragione.
Come si poteva dormire o anche
solo riposare, se il rumore degli ingranaggi del mio cervello produceva un
rumore infernale? Il suo era un lavoro straordinario a cui negli ultimi tempi
era abituato, ma che tuttavia stava mostrando i suoi effetti negativi,
sfiancando l’intero sistema. L’allarme era stato lanciato, le sirene spiegate,
la spia rossa era accesa: esplosione imminente. Io non avrei saputo dove
rifugiarmi e non c’era nessuno, stavolta, pronto a soccorrermi, nessuno di cui
potessi fidarmi completamente almeno.
Mi accorsi le notte non era
ormai così buia e avendo ormai scaricato l’Ipod a furia di ascoltare
ininterrottamente la stessa canzone, l’unica che potesse descrivere al meglio
le mie sensazioni, optai per una doccia lunga e bollente, per distendere i
nervi e prepararsi a quella lunga giornata.
Presi un lungo respiro e
raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo quando l’autobus urbano mi lasciò
a pochi passi dall’ingresso del cimitero. Per essere inverno era una bella
giornata e non era nemmeno tanto freddo, era per giunta piacevole starsene
fermi al sole. Ma io non la smettevo di tremare: strinsi meglio il giubbotto,
benché sapessi che la temperatura non aveva niente a che fare con i miei
brividi. Fin da piccola odiavo l’idea di dover mettere piede nei cimiteri e con
gli anni la fobia non mi era di certo passata. Ma questa volta avrei dovuto
mettere da parte soggezione e orrore per un posto tanto funereo e considerare
quella passeggiata all’aria aperta come una visita che si fa a casa di un
parente. E non di uno qualunque, ma di mia sorella.
Quella distesa quasi infinita
di pietre tombali, poggiate sul manto erboso verde e ben curato mi metteva una
tristezza ed una malinconia infinita. Man mano che procedevo verso la mia meta,
e nonostante fossero ormai trascorsi un bel po’ d’anni dall’ultima volta che
ero entrata in quel posto, scoprii di aver mantenuto una certa familiarità con
quelle tombe. Conoscevo i nomi di coloro che si succedevano e, nonostante non
ci fossero foto, di alcuni di loro ricordavo bene i volti dall’infanzia o fui
sorpresa di ritrovarli lì e non dove li avevo lasciati, alle loro scrivanie o
nei loro salotti. Di alcuni ricordavo persino buffe storie, tra il comico ed il
macabro, che ascoltavo dai miei genitori ogni volta che si passava in mezzo a
quelle lapidi. Finché non la vidi. Era piccola e semplice, di un marmo bianco e
puro, proprio come lei.
Emily
Mallory Riley, beloved daughter and sister.
“Ciao piccola” sussurrai e mi
ritrovai ad inginocchiarmi di fronte alla sua tomba, esattamente come avevo
fatto prima di partire. Accanto alla stele con il suo nome e le date c’era una
cornice in argento, ossidata dalle intemperie e dal tempo che passa, anche in
un posto come quello. Ricordo di aver scelto personalmente quella fotografia,
non solo perché era bellissima ma perché in quella piccola bocca aperta in una
risata sfavillante c’era tutta la mia Emmy, tutta la sua dolcezza, tutta la sua
vivacità, tutto il suo amore per un’infanzia serena e la gioia di una famiglia
quasi perfetta. L’avevo scelta perché potessi dimenticare il suo volto diafano
e tumefatto dentro la bara bianca, perché potessi evitare di ricordare quella
odiosa frase che gli anziani dicono di fronte ad un cadavere: “pare dormire”.
Posai sul prato una rosa bianca
ed un coniglietto di peluche, regalo di Caroline.
“Questo te lo manda una mia
amica, Caroline” le dissi, come se sperassi che potesse sentirmi “lei avrebbe …
no, tu avresti la sua età se non …”
Ma non riuscii a proseguire, i
lampi di ricordi di quella afosa notte d’estate facevano ancora male,
nonostante tutta l’acqua fangosa che era passata sotto i ponti.
“Le voglio bene” dissi “anche
lei ha perso un fratello, anche se era parecchio più grande di lei e poi … e
poi c’è Tyler, l’altro fratello. Era venuto qui con me per farti visita, sai?
Ma io mi sono comportata come una stupida e lui è andato via …”
Prima di partire ero stata
diverse volte di fronte alla tomba di Emily, ma quella era la prima volta che
le parlavo, come se lei potesse sentirmi e per giunta rispondermi. Di solito me
ne stavo zitta, in piedi, di fronte a quella pietra bianca, e anche nella mia
mente era silenzio. Sentivo solo il fruscio degli alberi lontani se c’era vento
o il rumore delle auto provenire dalla strada più vicina.
Ma stavolta era tutto diverso:
sentivo il bisogno che qualcuno mi ascoltasse, avevo bisogno di parlare
apertamente con qualcuno, senza giudizio, senza freni, senza censure. Facile
farlo con chi non può più rispondere … eppure non mi sentivo così, era come se lei
fosse lì con me, come mai era accaduto prima.
“Avrei voluto che lo conoscessi
anche tu” ripresi “ti sarebbe piaciuto e sareste andati subito d’accordo, ne
sono sicura!”
La mia mente corse per l’ennesima
volta a Tyler e pensai a tutte quelle volte in cui l’avevo visto assorto e letteralmente
immerso nella suo taccuino, mentre scriveva a suo fratello. Iniziavo a
comprendere il sollievo che si sentiva ad avere quel genere di contatto.
“Sono in un bel pasticcio
sorellina” le confessai “adesso abito a New York con una famiglia meravigliosa,
tutti mi vogliono bene e Tyler … beh Tyler è il ragazzo perfetto però ha detto
che mi ama”
Come
però? Sembravano chiedermi i suoi occhietti vispi
dalla fotografia. “Il problema è che non so cosa
voglio io … io, io gli voglio bene, mi piace da morire, mi tratta come se fossi
l’unica cosa di cui avesse bisogno, però non me lo merito io uno come lui …”Era la prima volta che sentivo
uscire la verità non solo dalle labbra ma anche dalla mia testa. Un groviglio
di ma, se e però, di congetture e dubbi, si erano avvolti e ingarbugliati
attorno all’unica chiave del problema. Presa la chiave, mancava la toppa
corrispondente, dove infilarla per aprire la serratura.“Io non sono stata una brava
persona negli ultimi anni … me ne sono andata da casa ed oggi è la prima volta
in 3 anni che rimetto piede ad Indianapolis. Oggi è il mio compleanno, Em. Ti
ricordi i nostri compleanni? La torta al cioccolato di mamma e i barbecue di
papà … non è rimasto più niente.”
Mi mancavano quei giorni;
tuttavia non potevo negare che i giorni meno belli e più difficili erano stati
necessari: senza di loro non sarei diventata la Allison che si è lasciata alle
spalle lo squallore della sua vita malfamata, non avrei conosciuto persone
speciali come Diane e Les, non avrei mai riso con Hayden e non avrei mai potuto
conoscere quanto amore si può ricevere da persone come Tyler. Lui mi amava e, a modo mio, ero
sicura di ricambiare quell’amore. Forse non era perfettamente inquadrato, non
vedevo il mondo colorato di rosa confetto e non era zucchero filato l’unico
odore che il mio olfatto percepiva: ma anche il mio era amore; ma noi, del
resto, non eravamo Barbie e Ken. Anche quel noi, ormai, non
suonava più come il rullo finale dei tamburi sul patibolo, un attimo prima
dell’esecuzione capitale.Non meritavo tanta fortuna
tutta insieme, neanche come risarcimento per gli orrori visti e vissuti, ma per
una volta forse era il caso di non curarsi di cosa fosse giusto, ma piuttosto
di cosa avessi più bisogno io.
“Dici che è troppo tardi?”
domandai a mia sorella, ma invece di cercare oracoli, la mia attenzione si
spostò sull’ombra che d’improvviso avvolse la lapide di Emily e me. Mi voltai
e, ritrovandomi in piedi prima che potessi anche aver pensato di alzarmi da
terra, rimasi di sasso. Una lacrima rigò una mia guancia, lentamente, fino a
gocciolare sulla linea della mascella.
Ricordare come lo avevo
lasciato e vederlo di nuovo fu un sollievo ed un dolore devastante che
contemporaneamente si alternavano nel mio animo. La consapevolezza degli anni
persi, il rimorso che con il sennò di poi mi rinfacciava di non aver resistito
un altro po’, invece che scappare via come un coniglio impaurito.
E la gioia di vederlo in piedi,
perfettamente in salute, grande e in forze come lo ricordavo dai giorni
migliori: la mia roccia, mio padre.
“Ciao Allison” disse, e
riascoltare quella voce dopo mesi e mesi di silenzio mi fece sentire fragile
come una bambolina di porcellana. Era bello sentire una voce familiare, ancora
più sentire una voce che credevi persa per sempre e di un avevi il terrore di
perdere il ricordo.
“Papà” soffiai, rapidamente,
mentre l’emozione di poter pronunciare ancora quella parola mi rapiva il
respiro.
Ero felice, davvero felice,
come quando ricevetti il regalo di Natale di Tyler, come quando andammo a
pattinare, come quando la mia Emily ed io facevamo la battaglia dei cuscini.
Era una di quelle gioie semplici eppure non quantificabili, che nascono dentro
senza apparente motivo.
Eppure dovevo andarci con i
piedi di piombo, perché ero stata via per parecchio tempo e non ero l’unica ad
essere cambiata.
“Sei venuta a trovare Emily
proprio oggi … ne sono 18 vero?” chiese, sommesso e sicuramente preoccupato
anche lui di usare la parola sbagliata. Eravamo troppo simili per non capirlo e
certe cose non cambiano.
Annui e lo lasciai proseguire;
avevo bisogno di starmene zitta a metabolizzare ma contemporaneamente volevo
prendere quanto più potevo di quella voce e riempire i cassetti della mia
memoria.
“Ti va … ti va se andiamo a prendere qualcosa in centro … c’è ancora il tuo
negozio di torte preferito, sai? Solo … solo io e te … sempre se ti va” ribadì
e per quanto mi era servito per ritrovare me stessa, sentivo che quel contatto
con mia sorella era sufficiente. Che lui fosse arrivato proprio in quel
momento, proprio mentre dalla mia bocca usciva la frase dici che è troppo tardi sembrò il modo che aveva mia sorella per
dirmi che il mio posto era tra i vivi e che era ora di andare.
“Sì … sì mi va” risposi e ci
incamminammo insieme verso l’uscita.
Avevo mille cose da chiedergli,
da confessargli e più di ogni altra cosa sentivo una voglia matta di attaccarmi
al suo collo e non lasciarlo più, di recuperare ogni secondo perso di coccole
padre/figlia. Ma non riuscivo a muovermi e le corde vocali sembravano non
essere in grado di emettere alcun suono.
“Credevo … credevo di non
trovarti da sola” disse mio padre, che mi precedeva di pochi passi, voltandosi
ed aspettando che lo raggiungessi “so che gli avevo promesso di non dirti
nulla, ma è stato il tuo amico, Tyler, a dirmi che ti avrei trovata qui … non
te la prendere con lui”
“E chi ti dice che me la
prenderei con lui?” chiesi, diretta e
immediata, anche vagamente ironica, come avrei fatto quotidianamente con lui.
“Allison!” mi riprese mio padre,
con un’espressione che la diceva lunga “come se non ti conoscessi!?”
Purtroppo fu costretto a
mangiarsi la lingua da solo e a frenarsi perché di rese conto da sé di quanto
poco veritiera fosse quella affermazione. Non poteva più dire di conoscermi,
perché quella che aveva davanti non era la Allison che lui era andato a
prendere alla festa di Steve Johnson anni prima, poco prima che la nostra auto
si schiantasse. Anche se, in quel caso, ci aveva preso, perché era proprio la
sua conversazione con Tyler che mi aveva fatto scattare nella notte.
“Lui … lui non è più qui. È
ripartito per New York questa notte. E comunque mi aveva detto del vostro
incontro …”
“Spero che non sia stata quella
la ragione per cui è ripartito … lui lo ha fatto solo per il nostro bene,
Allison. Anzi, per il tuo bene” spiegò. Ma io, stizzita, lo interruppi:
“Dobbiamo parlare di Tyler papà?!” domandai. Non volevo essere dura, ma non ci
vedevamo da due anni e mezzo e lui pensava ad un estraneo.
“No … hai ragione” ne convenne.
Si lasciò andare ad un sorriso lieve, mentre mi avvicinavo e lui sembrava preso
dai suoi pensieri. “Sai” mi confessò “è bello sentirsi chiamare di nuovo papà
…”
Non riuscii a resistere oltre;
come avrei potuto del resto?! Corsi verso di lui e lo abbracciai, nascondendo
il volto e le lacrime nel suo petto: bastò veramente un istante per ritrovare
quell’intimità perduta, il profumo di casa dei suoi abiti e l’odore forte di
dopobarba, sempre lo stesso. Per quanto mi sforzarsi, più
sentivo le sue grandi mani accarezzarmi vigorosamente la schiena e le sue
larghe braccia stringermi a sé, più i singulti aumentavano ed il pianto
sembrava diventato inconsolabile. La scoperta di non essere più soli, la
consapevolezza che mio padre era davvero ancora vivo ed era lì con me mi dava
una felicità ed un entusiasmo che non erano quantificabili; più sentivo che lui
c’era ed era con me, più l’emozione cresceva e le lacrime uscivano fuori. Lui
stava lì, a stringermi come faceva quando avevo degli incubi da piccola,
aspettando che mi passasse. Era bellissimo essere amati senza remore, senza se
e senza ma.
“È … è bello poterti chiamare
ancora papà” affermai, ancora singhiozzante, quando lo tsunami di emozioni che
mi aveva travolta iniziò a ritirarsi e a darmi fiato. “Shh … shh piccola mia”
mormorò mio padre, senza sciogliere l’abbraccio tra noi “è tutto finito bambina
mia … papà è qui con te”
Forse non si era reso
perfettamente conto che non ero più l’adolescente sola e ribelle che era
perennemente in conflitto con sua madre e con un grande desiderio di libertà. Ora
ero una donna, forse non completamente fatta e finita, ma certo non erano più
le coccole di un padre ad interessarmi. Avrebbe dovuto presto fare i conti con
un’altra realtà: avrebbe dovuto condividere le mie attenzioni con altre persone.
Eppure, anche a me, per qualche minuto, aveva fatto piacere ritornare con le
lancette a qualche anno prima, quando tutto era al suo posto e quando New York
era solo una grande metropoli lontana e che non aveva nulla da offrire se non i
migliori musical e forse la migliore scuola di danza al mondo.
Il viaggio per tornare in
centro fu impacciato e quasi imbarazzante: quando hai tante cose da dirti,
infatti, o si parla troppo o non si parla per niente. Noi optammo per il
mutismo.
“Ti sei fatta proprio grande”
si lasciò sfuggire mio padre, titubante e non del tutto sicuro che fosse la
migliore cosa da dire in quel momento “però dovresti mangiare un po’ di più …
sei così magra”. Mi diede un pizzicotto sul braccio, libero dall’imbottitura
del giaccone, che avevo levato quando lui aveva acceso il riscaldamento.
“Ero molto più magra di così
fino a qualche mese fa, papà, credimi” ammisi “durante le feste di Natale mi
hanno ingozzata come un tacchino … sono sicura di aver preso come minimo tre
chili!”
E come se non fossero bastati, mio
padre mi condusse nel mio negozio di torte preferito, il migliore della città.
Mi ci portava sempre a fine anno scolastico e ci andavamo sempre a prendere la
torta per il compleanno della mamma, quando era categorico che lei non passasse
la giornata sui fornelli, neanche per fare un dolce.
“Ma è meraviglioso” esclamai,
mandando giù la mia torta preferita, impasto al cioccolato e crema di nocciole
e mascarpone, il tutto ricoperto di panna “è proprio come allora …”
"Lo so … vale anche per me”
confermai “ma ora siamo qui”. Presi la sua mano e la strinsi, sorridendogli
quando alzò lo sguardo verso di me: non volevo che pensasse che sarei rimasta
con lui ad Indianapolis per sempre, ma ora che ci eravamo ritrovati non avevo
intenzione di perderlo di vista di nuovo per troppo tempo, anche se far
ripartire tutti gli ingranaggi sarebbe stata un’impresa faticosa. Lui sembrò
distrarsi da quei brutti pensieri e, ritrovando il sorriso, infilzò una fetta
di torta. “Questa la devi proprio assaggiare … è nuova” disse, tentando di
imboccarmi “senti … pare una di quelle merendine che mangiavi da piccola …”
“Dai papà smettila” mi lagnai,
quando tentò di imboccarmi con tanto di aeroplanino “non ho sei anni! Ti stai
rendendo ridicolo!”
“E allora prendi e mangia” ribadì, sornione. Gli presi la forchettina tra le
mani e assaggiai questa famigerata torta … beh, effettivamente quel retrogusto
paradisiaco di Kinder Delice c’era proprio … Dio che bontà.
“Visto?!” fece mio padre,
notando evidentemente che nel gustarmi quella bontà avevo persino chiuso gli
occhi come fanno nelle pubblicità.
Conclusa con una grossa risata
di mio padre quella imbarazzante parentesi padre/figlia un po’ da bambini, un
po’ da dementi, mi imposi di tornare alle cose più serie e più urgenti da
discutere. Credo che fosse di questo avviso anche lui, perché mi precedette di
pochi secondi nel parlare.
“Dio quanto mi sei mancata …” disse,
e sentivo bene il retrogusto dolce amaro delle sue parole “… dove sei per tutto
questo tempo Allison?”
“Non vorresti saperlo” gli
dissi. “Purtroppo ne ho una vaga idea” ammise, ma fu risoluto da cambiare
registro abbastanza in fretta “Come … come vanno le cose ora Allison?”
Era un bene che ne parlasse
come se non fosse accaduto nulla di tanto grave, da un certo punto di vista; mi
rendeva tutto più facile e non mi faceva sentire in colpa ad averlo lasciato
solo, senza uno stralcio di spiegazione.
“Adesso abito con Diane, la
madre di Tyler, ed il suo nuovo marito … mi trovo molto bene con loro, sono
delle persone splendide! Mi hanno vestita, nutrita, protetta … senza voler
sapere nulla di me o di ciò che avevo fatto per arrivare a ridurmi in quel modo
…” e lì mi fermai. Non avevo idea di quanto gli avesse detto di me Tyler ed
ebbi il timore che parlarne troppo apertamente avrebbe aperto in lui
un’ulteriore ferita. Ma la pietra l’avevo ormai tirata, nascondere la mano fu
inutile, visto che poi fu lui stesso a voler approfondire l’argomento.
“Ridurti come?” domandò, serio
e con una maschera di ferro a nascondere le sue emozioni. Ricordai allora che
era un discreto giocatore di poker e doveva imparato al tavolo verde a non
scomporsi troppo.
“Piena di lividi e ferite …
presa a pugni e vestita di stracci, magra ai limiti dell’anoressia, rozza e
volgare come se gli anni passati da educanda nei migliori istituti della città fossero
solo un miraggio” avrei voluto fermarmi, ma perché tacere ormai “ho finto per
tanto tempo di essere solo una ballerina, ma è stato solo quando ho incontrato
quella gente così generosa e buona che ho capito che era il momento di
smetterla di mentire persino a me stessa. Ero solo una pro-”.
Una volta fuori dalla
pasticceria, lungo la strada per raggiungere l’auto, allargai le braccia e mi
calai gli occhiali sugli occhi: non tanto per il sole, quanto per nascondergli
gli occhi gonfi di rabbia e delusione, che avrebbero potuto tracimare di nuovo
da un momento all’altro. Scossi la testa, mentre lui, confuso, mi guardava. “È
inutile nasconderlo o evitare di dirlo … io ero esattamente quello che sai. Non
ero sulla strada e non ho preso malattie se è quello che ti preoccupa, ma
comunque il risultato non cambia: ho venduto il mio corpo per vivere. Puoi
usare il termine che preferisci per definirmi … ma rimane il fatto che ero una
prostituta”
Preferii voltargli le spalle ed
incamminarmi da sola verso il parcheggio sotterraneo dove Doug, mio padre,
aveva lasciato l’auto. Presi dal mio zaino nero le sigarette e me ne accesi
una, in preda ad una tale agitazione, da non riuscire nemmeno a far partire l’accendino.
“Allison! Allison!” mio padre
grido, sempre più vicino, così mi fermai. Non volevo discutere con lui, non
ora; ma non potevo tollerare che degli estranei come Diane e Les avevano avuto
la sensibilità di non giudicare ed invece mio padre faceva il moralista e
pretendesse di lavare in casa i panni sporchi.
“Forse ho sbagliato” ammisi
“non avrei dovuto dirti certe cose. Ma era il solo modo … non esistono edulcoranti
per questo genere di cose. Il punto è che non voglio nasconderti nulla e questa
era tutta la verità”
“Sarà anche la verità” disse
mio padre, un po’ affannato per la corsa che, data la sua stazza un po’ tozza,
doveva essergli costata fatica “ma perché vantarsene?”
“Hai ragione” si scusò,
affiancandomi “la prossima volta farò più attenzione. Però non essere arrabbiata
con me”
“Non sono arrabbiata con te
papà” dissi “è solo che non sono più abituata a sentirmi dire ciò che devo fare
… e appena qualcuno ci prova, scatto. Credo di essere io a dover chiedere
scusa”
Era la prima volta forse che
chiedevo il perdono di qualcuno, veramente, non come una frase fatta ma per
vera ammissione di colpa. Significava molto per me, sentivo che era un punto di
partenza importante, un notevole tassello da aggiungere alla mia crescita. La
vecchia Allison non ci sarebbe mai riuscita, sarebbe fuggita a spron battuto
invece di rimanere e provare a parlarne.
Così lo presi sottobraccio e
riprendemmo a camminare, stavolta insieme. Calcare quelle strade mi faceva uno
strano effetto, un misto tra una consuetudine che non se n’era mai andata ed l’indifferenza
per dei luoghi che ormai sentivo non appartenermi più da un pezzo.
“Dimmi solo perché …” riprese
lui. “Avevo voglia di libertà … qui era diventato un inferno e avevo bisogno di
andarmene” confessai, cercando le parole più adatte per non pugnalarlo “e
quello era l’unico modo possibile per trovare i soldi alla svelta. Ma quella
libertà aveva avuto un prezzo troppo alto da pagare e mi sono ritrovata ben
presto in catene”
Non volli guardarlo, né sentivo
il suo sguardo addosso: eravamo stati entrambi raggelati dalla mia confessione,
lui perché forse non immaginava che la vita potesse riservare un destino tanto
amaro a sua figlia e si rendeva conto di quanto la lotta contro lo sterco del
mondo mi avesse resa dura e spigolosa, ed io perché non provavo né odio, né
ribrezzo per quel passato, poi non tanto remoto, ma solo una grande e profonda
apatia, come se fosse la vita di un’altra.
In lontananza, nella lunga
avenue che stavamo percorrendo, individuai il palazzo in cui aveva sede
l’ufficio di mio padre, la filiale della Hawkins Communications, proprietaria tra le altre cose di alcune
televisioni locali, almeno fino a due anni fa. Inutilmente tentai di sviare i
miei pensieri, ma essi si focalizzarono su Tyler. Era passato da poco
mezzogiorno, le undici a New York e di sicuro era già a casa da un pezzo se,
come era nei suoi progetti, aveva preso l’aereo. Finita quella giornata, avrei
dovuto iniziare a pensare anche a lui. Perché non volevo perderlo, non potevo.
“Sai che ho conosciuto il tuo
capo?!” dissi a mio padre, per tentare di distrarmi.
“Il signor Hawkins?! Ottima
persona, non trovi?” chiese. Purtroppo, non potei trovarmi d’accordo con lui
perché, sebbene si fosse interessato in prima persona per questo mio viaggio e
stava tentando in tutti i modi di recuperare per la scenata di Natale, non
riuscivo ancora bene a capire di che pasta fosse fatto e che gioco stesse
giocando. Potevo spronare Tyler a riavvicinarsi a suo padre, ma dentro di me
pregavo sempre che lo facesse con molta cautela e che di un uomo come lui era
meglio non fidarsi.
Mio padre era sempre stato uno
stakanovista, il primo ad entrare in ufficio e l’ultimo ad uscirne, in casa
sapeva arrangiarsi nelle riparazioni di ogni tipo e si dava da fare ad aiutare
mia madre, quindi capivo la sua domanda.
“Beh … in effetti sto in casa
quasi tutto il giorno … ma è lì che lavoricchio. Mi occupo della Caroline
Hawkins, la figlia più piccola di Diane e Charles, è come se fossi la sua
governante … e in più aiuto nelle faccende di casa, anche se per quello c’è già
la domestica. Diane mi da una specie di paghetta a fine settimana, il giusto
per mangiare fuori o andare al cinema, ma in casa non mi manca niente, così
sono riuscita a mettere da parte un bel gruzzoletto, anche con i regali di
Natale … però per venire qui ho speso tutto” feci spallucce. Purtroppo ero
praticamente al verde, e se volevo sperare di pagare l’albergo da sola, visto
che avevo praticamente usato una doppia ad uso singola, avrei certo dovuto
chiedere una mano a mio padre. Mi scocciava farlo, ma glieli avrei restituiti,
a costo di inveire ancora contro di lui.
“In più a Settembre inizierò a
frequentare una scuola serale, in modo da poter lavorare di giorno per mantenermi
agli studi … anche se quel lavoro devo ancora trovarlo. E devo trovarmi una
casa per conto mio … voglio bene a Diane, Les e Caroline, ma non voglio abusare
della loro generosità … hanno già fatto troppo per me”
“Sì” risposi “voglio prendere
il diploma e poi, chissà … magari andare al college”
Non speravo di poter arrivare
così in alto, mi bastava un pezzo di carta per trovare un lavoro decente ed
onorevole, con uno stipendio sufficiente a pagare un affitto e a non morire di
fame. Magari avrei potuto permettermi anche di pagare la retta ad una scuola di
danza e avrei potuto anche ricominciare a ballare, solo per il piacere di farlo
e senza nessun secondo fine, una scuola dove i passi sono fatti di tecnica e
non sculettate volgari.
Era bello potersi permettere di
sognare di nuovo e soprattutto sapere che i sogni potevano realizzarsi
stavolta.
“Io … io lo so che è presto per
parlarne, ma visto che hai tirato fuori l’argomento …” esordì mio padre,
ridestandomi dai miei pensieri “ma pensavo che, magari … ecco … potresti
tornare qui per il finire il liceo e poi anche il college …”
Sapevo che avrebbe sfruttato
quell’opportunità per tirarmi a sé e tenermi stretta, ero preparata ad
un’eventualità del genere; del resto il mio lancio era stato perfetto e lui
aveva preso letteralmente la palla al balzo. Ma Tyler aveva ragione: se non era
quello che volevo, dovevo essere ferma ed oppormi. Per questa ragione, scossi
vigorosamente la testa: “No papà”
Ma lui continuò, imperterrito:
“non avresti bisogno di trovarti un lavoro per mantenerti e potresti dedicarti
pienamente allo studio, così ti sarà più facile andare al college”. Sapevo
anche che l’avrebbe messa sul piano dei soldi, ed era una nota dolente visto
che non ne avevo e in un periodo come quello era davvero difficile reperirne
onestamente. Ma Indianapolis non era più casa mia da due anni, era questo che
doveva capire.
“Non fare così papà, ti prego.
Non rendere le cose più difficili. Non avrei voluto dirtelo così presto, ma è
meglio essere chiari fin dall’inizio”. Presi un bel respiro e tutte le forze
che avevo per dargli la mazzata, perché quella, in fondo, era un mazzata bella
e buona. Lo vedevo fermo e teso, di fronte alla sua auto, pronto a ricevere un
colpo che sapeva lo avrebbe ferito. Ma questo non bastò a fermarmi.
“Io non sono venuta qui per
restare. Riparto tra due giorni, forse anche prima” non aveva senso restare
oltre, sentivo di poter continuare il rapporto con mio padre anche da lontano e
forse sarebbe stato anche più facile. In più c’era una cosa che mi premeva fare
a New York in quel momento: sentivo questa urgenza scalpitare di ora in ora e a
poco serviva il mio raziocinio a placarla.
“Ma Allison” esclamò mio padre
“sei … sei appena arrivata. Devi … devi incontrare con tua madre … dovete
parlare, dove chiarirvi … avete tante cose da dirvi, non puoi andare via così …
la uccideresti!”
“Dì la verità” proseguì mio
padre “è per lei che non vuoi restare. Ti assicuro che è molto cambiata …
stenteresti a riconoscerla …”
“Siamo cambiati tutti papà” lo
freddai, buttandomi a capofitto dentro l’auto, allungandomi nel sedile
posteriore della sua berlina per non essere costretta a guardarlo in faccia.
Lui mi seguì e avviò l’auto per andare via.
“E comunque” ripresi “non è per
lei. La mia vita è a New York ora, tutto il mio futuro lì. Capitolo chiuso. E
ora ti prego … riportami in albergo”
Lungo la strada fummo entrambi
taciturni e presi dai nostri pensieri. Mi chiesi se non ero stata per caso
troppo dura con lui, ma ne convenni che ad un tipo come lui si poteva tener
testa solo in quel modo, anche se con me sembrava docile come il burro sul pane
tostato.
“Dannazione papà! Non essere
arrabbiato con me!” sbottai, irritata da tutto quel silenzio “non ho intenzione
di perderti proprio ora!”
“Non sono arrabbiato con te”
rispose, con voce piatta. Non poter vedere il suo volto, vincolata dalla
cintura di sicurezza, mi metteva un’ansia addosso ulteriore.
“Oh beh perché ti comporti proprio come se fossi arrabbiato con me …” gli feci
notare.
“Non mi comporto come se fossi
arrabbiato con te” disse e chiuse il discorso.
Muovendomi sul sedile potei
finalmente arrivare a scorgere delle sue occhiate fugaci attraverso lo
specchietto retrovisore. Nonostante le mie parole suonassero già come un addio,
nonostante i battibecchi, lo vedevo sorridere, carico di una gioia quasi puerile
e beffarda per non essere riuscito ad essere un padre severo ed imperterrito
per più di cinque minuti. Ma d’altronde non era mai stato il suo forte. Lui era
sempre stato il buono e coccolone di casa e mia madre quella che portava i
pantaloni, maniaca e isterica. Almeno di una cosa potevo essere sicura che non
era cambiato nulla.
Fermi ad un semaforo rosso, mi
sembrò di avere un dejà vu. Poi capii: quello era l’incrocio dove anni prima
avvenne l’incidente. Ed era più o meno tutto come allora: papà taciturno e imbronciato
al posto di guida ed io seduta dietro, altrettanto taciturna ed imbronciata,
che guardavo fuori dal finestrino. Le uniche differenze erano che era una notte
calda d’estate e accanto a me era seduta mia sorella. Steve abitava dall’altra
parte della città e per tornare a casa nostra bisognava attraversare tutto il
centro.
“Posso chiederti una cosa?”
esordii, prendendo coraggio “perché quella sera con te c’era anche Emmy … cosa
è successo … io non mi ricordo nulla”
Lo vidi cambiare letteralmente
espressione dallo specchietto. “Cos’è che ricordi?” mi domandò, inquieto.
“Ricordo che eri venuto a
prendermi a casa di Steve Johnson ed Emily era con te. Vi avevo detto che
passavo la notte da Abigail, ma evidentemente avete scoperto la verità … poi mi
ricordo che tornando a casa abbiamo discusso. E poi il vuoto. Cos’è successo?”
C’era una sola persona, oltre a
mio padre, a conoscere quei miei ricordi. Al resto del mondo, a mia madre, ai
medici, avevo detto di non ricordare nulla. Nessuno seppe spiegarsi perché mi
trovassi in macchina con mio padre e non ricordavo come Abigail ed io
giustificammo la cosa, anche perché passo poco tempo e smisi di parlare con
tutti i miei amici più cari e fidati.
“Cos’è
successo mi chiedi?! Quello
che succede sempre … la vita, il destino” la sua
imperturbabilità mi spiazzò e mi sembrava di essere
di fronte
al riflesso di me stessa. Mi ricordai di quando avevo criticato Tyler e
gli
avevo detto che non era l’unico ad aver sofferto … ora era
il proprio il caso
di auto-rimproverarmi. “Era una serata afosa ed avevamo deciso di
prendere un
gelato per rinfrescarci prima di andare a letto” continuò
“La piccola Emmy
volle venire con me perché voleva scegliere i gusti. Così
andammo alla
gelateria artigianale di Vincenzo, poco distante da casa di Abigail
… e fu lì
che la trovammo con la sorella. Non poté mentirmi…”
Sapevo che non poteva essere
andata lei a spifferare tutto ai miei. Quando era venuta a raccontarmi come
erano andate le cose l’avevo cacciata, distrutta dal dolore per la perdita di
mia sorella. Poi l’avevo allontanata. Mi sarebbe piaciuto sentirla, anche se
sinceramente non credevo di poter avere qualcosa in comune con lei.
“Decisi di venire a prenderti e
portarti davvero da Abigail prima che tua madre potesse scoprire dov’eri stata”
andò avanti mio padre nel frattempo “Steve non
mi piaceva … ma le sfuriate di tua madre nei tuoi confronti non mi
piacevano ancora di meno. Io ero dell’opinione che bisognava farti fare i tuoi
errori, per me eri abbastanza intelligente da capire da sola quali fossero le
persone da seguire e quelle da tenere a distanza. Ma tua madre voleva sempre
avere il controllo su tutto …”
Ricordai allora le sue parole
di quella sera. Tu ora vai dove dovresti
essere, mi disse, e domani mattina
tornerai a casa come se ci fossimo solo incontrati dal gelataio ed Emily si è
trattenuta a giocare con te … io e te faremo i conti poi.
Ma non ci fu possibile. A quel
maledetto incrocio un pazzo ubriaco ci venne contro frontalmente, dopo un
sorpasso azzardato che gli fece invadere completamente la corsia opposta.
Al di là dei brutti ricordi, mi
confortava tuttavia sapere che, almeno sul comportamento di mia madre, la
pensavamo alla stessa maniera. Forse io non avevo capito di star facendo la
cosa sbagliata, ma se mi avesse lasciato fare ci sarei arrivata, prima o poi. Ed
invece, in quel modo, aveva solo stimolato la mia disubbidienza.
Arrivati davanti all’albergo
uscimmo entrambe dall’auto per salutarci.
“Vuoi che ci vediamo domani?”
chiese allora, dopo il mio rifiuto, accorto e premuroso.
“Sì” risposi, sicura “ma dopo
il lavoro … non vorrei che a tua moglie venisse all’orecchio che hai chiesto
due giorni di permesso …”
“Non chiamarla così … è tua
madre e ti vuole bene” disse lui, ma per quanto ne sapevo l’ultima volta che
c’avevo parlato mi aveva detto che ero la più grande delusione della sua vita.
“So che non sarà facile, ma promettimi che pian piano proverai a legare anche
con lei … un colpo di telefono non le dispiacerebbe. Se hai bisogno di consigli
da donna o … che ne so io …”
Non era certo un’immagine in
cui mi vedevo bene, al telefono che parlavo con mia madre di assorbenti o di
protezioni da malattie veneree. Sarebbe corsa di certo fino a me dall’altro
capo della cornetta per mettermi sotto una campana di vetro. Ero sempre stata
una bambolina di porcellana per lei e quando non lo ero più … beh ha
semplicemente svalvolato.
“Promettimelo” insistette mio
padre, prendendomi il volto tra le sue mani grosse e calde. Non potevo
resistere ai suoi grandi occhi verdi, che mi aveva lasciato in eredità.
Eccoci
giunti alla fine di un capitolo che oserei definire cruciale.
Perché entriamo in un modo diverso nella testa di Allison.
Mentre l'ultima volta era per descrivere la sua scoperta dell'amore,
qui invece viviamo con lei un'intera giornata. La sentiamo vivere,
pensare, esprimere opinioni. Viviamo insieme a lei delle emozioni
importanti.
Credo che a questo punto si possa dire con certezza che non solo
è una ragazza che ha sofferto tanto, ma è soprattutto una
ragazza decisa a voltare pagina e lasciarsi andare pienamente.
E secondo me ora è anche pronta a concedersi qualcosa in più con Tyler.
Purtroppo ha dovuto averlo lontano per sentirlo vicino.
Ma ora c'è anche il padre con lei, inizia una fase nuova della
sua vita ed è anche il giro di boa della storia se vogliamo.
Scusatemi se il capitolo è un po' lunghetto, ma non volevo
lasciare nulla in sospeso prima di tornare a New York da Tyler.
Grazie mille per l'enorme seguito e l'entusiasmo con cui seguite la storia. Significa molto per me.
à bientot
Federica