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Autore: crazyfred    10/01/2012    12 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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When you crash in the clouds - capitolo 23




Capitolo 23

Lonely lone
















soundtrack

Non serviva a molto pensarti se poi voltandomi non c’eri.
A cosa serve l’immaginazione se poi non c’è la realtà a completarla?

 

Lonely spell to conjure you, but conjure hell is all I do

 
Così me ne stavo ferma, raggomitolata nel mio angolo di letto, freddo e vuoto, cercando di guadagnare del calore che non sarebbe arrivato mai. Me stavo con gli occhi sbarrati, perché a chiuderli l’unica immagine che si formava era il ricordo di quella litigata in piena notte, scellerata e stupida, come stupide erano state le mie parole.
Sempre meglio che starsene a piangere e a compatirsi addossati ad una parete o alla porta, cosa che avevo già abbondantemente fatto non appena lui aveva lasciato la stanza. Incapace di corrergli dietro, me ne stavo pietrificata, messa al tappeto dalla mia stessa idiozia; continuavo a ripetere a me stessa quanto fossi stata stupida e, tiritera della mia breve esistenza, cogliona e stronza. Perché ce ne voleva di cattiveria per dire quelle parole ad un ragazzo come Tyler: era facile dire che aveva un cuore d’oro, ma lui andava ben oltre l’immagine di bravo ragazzo. Era un angelo, un essere soprannaturale che aveva avuto la pazienza di curarsi di me, di starmi vicino, di aiutarmi. Mi ha vista quando ero invisibile, mi ha ascoltata quando ero muta, ha continuato a parlarmi persino quando ero sorda. E l’unico ringraziamento che ero stata in grado di dargli era uno schiaffo morale, uno sputo sporco sulla sua anima pulita.
Non ho bisogno di te, gli avevo detto, non ho bisogno di te. Bugiarda, testarda e stupida. Perché non solo sentivo di aver bisogno di lui come l’aria nei polmoni, ma ero stata ulteriormente egoista nel sentirmi l’unica protagonista di quella cosa bellissima che stavamo portando avanti, qualunque cosa fosse.
Ed ora mi ritrovavo in una città piena di ricordi dolorosi, a dover affrontare un passato scomodo: ed ero da sola. Per la prima volta nella mia vita sentivo di aver davvero paura del buio. 

No sweetheart in the dark to call my own

 
E non c’erano più le braccia dove andarsi a rifugiare, le mani lunghe che asciugavano le mie lacrime erano andate via. E mi mancavano da morire: era come non poter respirare ad alta quota, era come l’arsura nel bel mezzo del deserto. Ma io non avevo bisogno di lui … vai a raccontarlo a chi ancora ti crede Allison!
Immobile ed infreddolita me ne stavo sotto le lenzuola che, sarà stata la scarsa qualità del tessuto o la quantità enorme dei miei rimorsi, sembravano cosparse di spine e non la smettevano di pungere ad ogni singolo movimento. Mi sembrava di essere confinata di nuovo in quel mio stanzone 4x4, sporco e maleodorante, costretta a vedermela da sola con il resto del mondo. Come si stava male da soli.
Perché … perché la razza umana è così pateticamente ottusa da accorgersi del valore delle cose che ha solo quando le perde? Perché dobbiamo arrivare alle conclusioni più ovvie quando ormai è troppo tardi? Non ci basta vivere in un purgatorio … non siamo contenti se la vita non è un inferno in Terra.
O almeno questo valeva per me, la viziata, spocchiosa, egocentrica Allison, pronta a restare sola nel suo guscio, piuttosto che rischiare di imboccare la via stretta e tortuosa per avere una migliore compagnia.
La notte scivolava via, insonne e silenziosa, interrotta solamente dai singhiozzi di un pianto solitario e muto. I muscoli non si erano tesi nello sforzo di raggiungerlo e fermarlo, le corde vocali non si erano sgolate per fargli cambiare idea e così mi ritrovavo a fissare sul comodino lo schermo di un vecchio orologio digitale che lampeggiava ad intermittenza, troppo lento perché il tempo potesse scorrere correttamente, e un telefono muto come tutto quello che lo circondava. Non avrebbe chiamato, chi volevo prendere in giro? Dopo quello che gli avevo detto era già troppo che non mi aveva presa a calci.
Lui non avrebbe cambiato idea, era troppo arrabbiato e troppo deciso per farlo, e le mie braccia al contempo sembravano atrofizzate per prendere il cellulare in mano e comporre il suo numero. Paura marcia di un addio a cui non c’era rimedio e che mi ero meritata.
Tyler aveva diritto di pretendere da me risposte a domande che sicuramente erano rimaste zitte e irrisolte per settimane, pur non avendo potuto scegliere un momento peggiore per rivolgermele. Se solo avesse aspettato che tutto quel trambusto fosse passato, se solo mi avesse dato un paio di settimane per ambientarmi con le novità … forse la mia risposta sarebbe stata meno sgarbata, e certamente sarebbe stata diversa.
Non un sì a testa alta e senza esitazione, ma un nì possibilista. Perché Tyler è speciale e vale la pena provare. Per lui … per me.
Avrei impegnato tutta me stessa per tentare ciò che per lui, per mia evidente colpa, era già una realtà; mi sarei impegnata anima e corpo affinché lui non soffrisse. A me poco importava: un cuore più spezzato, non era possibile averlo. Ma lui, per tutto quello che aveva fatto per me, meritava di certo qualcosa di più di un paio di gambe aperte ed un corpo arrendevole.
Non ero la persona giusta per lui, col mio carico di guai non avrei fatto altro che rovinargli la vita, ma di me gli interessava solo il cuore e non stava a me negarglielo.
Ero sola e per la prima volta avevo paura del buio: paura di affrontare da sola ciò che mi si parava davanti, paura di scegliere, paura di usare il cuore al posto della ragione.
Come si poteva dormire o anche solo riposare, se il rumore degli ingranaggi del mio cervello produceva un rumore infernale? Il suo era un lavoro straordinario a cui negli ultimi tempi era abituato, ma che tuttavia stava mostrando i suoi effetti negativi, sfiancando l’intero sistema. L’allarme era stato lanciato, le sirene spiegate, la spia rossa era accesa: esplosione imminente. Io non avrei saputo dove rifugiarmi e non c’era nessuno, stavolta, pronto a soccorrermi, nessuno di cui potessi fidarmi completamente almeno.
Mi accorsi le notte non era ormai così buia e avendo ormai scaricato l’Ipod a furia di ascoltare ininterrottamente la stessa canzone, l’unica che potesse descrivere al meglio le mie sensazioni, optai per una doccia lunga e bollente, per distendere i nervi e prepararsi a quella lunga giornata.

 

sountrack2

Presi un lungo respiro e raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo quando l’autobus urbano mi lasciò a pochi passi dall’ingresso del cimitero. Per essere inverno era una bella giornata e non era nemmeno tanto freddo, era per giunta piacevole starsene fermi al sole. Ma io non la smettevo di tremare: strinsi meglio il giubbotto, benché sapessi che la temperatura non aveva niente a che fare con i miei brividi. Fin da piccola odiavo l’idea di dover mettere piede nei cimiteri e con gli anni la fobia non mi era di certo passata. Ma questa volta avrei dovuto mettere da parte soggezione e orrore per un posto tanto funereo e considerare quella passeggiata all’aria aperta come una visita che si fa a casa di un parente. E non di uno qualunque, ma di mia sorella.
Quella distesa quasi infinita di pietre tombali, poggiate sul manto erboso verde e ben curato mi metteva una tristezza ed una malinconia infinita. Man mano che procedevo verso la mia meta, e nonostante fossero ormai trascorsi un bel po’ d’anni dall’ultima volta che ero entrata in quel posto, scoprii di aver mantenuto una certa familiarità con quelle tombe. Conoscevo i nomi di coloro che si succedevano e, nonostante non ci fossero foto, di alcuni di loro ricordavo bene i volti dall’infanzia o fui sorpresa di ritrovarli lì e non dove li avevo lasciati, alle loro scrivanie o nei loro salotti. Di alcuni ricordavo persino buffe storie, tra il comico ed il macabro, che ascoltavo dai miei genitori ogni volta che si passava in mezzo a quelle lapidi. Finché non la vidi. Era piccola e semplice, di un marmo bianco e puro, proprio come lei.

Emily Mallory Riley, beloved daughter and sister.

“Ciao piccola” sussurrai e mi ritrovai ad inginocchiarmi di fronte alla sua tomba, esattamente come avevo fatto prima di partire. Accanto alla stele con il suo nome e le date c’era una cornice in argento, ossidata dalle intemperie e dal tempo che passa, anche in un posto come quello. Ricordo di aver scelto personalmente quella fotografia, non solo perché era bellissima ma perché in quella piccola bocca aperta in una risata sfavillante c’era tutta la mia Emmy, tutta la sua dolcezza, tutta la sua vivacità, tutto il suo amore per un’infanzia serena e la gioia di una famiglia quasi perfetta. L’avevo scelta perché potessi dimenticare il suo volto diafano e tumefatto dentro la bara bianca, perché potessi evitare di ricordare quella odiosa frase che gli anziani dicono di fronte ad un cadavere: “pare dormire”.
Posai sul prato una rosa bianca ed un coniglietto di peluche, regalo di Caroline.
“Questo te lo manda una mia amica, Caroline” le dissi, come se sperassi che potesse sentirmi “lei avrebbe … no, tu avresti la sua età se non …”
Ma non riuscii a proseguire, i lampi di ricordi di quella afosa notte d’estate facevano ancora male, nonostante tutta l’acqua fangosa che era passata sotto i ponti.
“Le voglio bene” dissi “anche lei ha perso un fratello, anche se era parecchio più grande di lei e poi … e poi c’è Tyler, l’altro fratello. Era venuto qui con me per farti visita, sai? Ma io mi sono comportata come una stupida e lui è andato via …”
Prima di partire ero stata diverse volte di fronte alla tomba di Emily, ma quella era la prima volta che le parlavo, come se lei potesse sentirmi e per giunta rispondermi. Di solito me ne stavo zitta, in piedi, di fronte a quella pietra bianca, e anche nella mia mente era silenzio. Sentivo solo il fruscio degli alberi lontani se c’era vento o il rumore delle auto provenire dalla strada più vicina.
Ma stavolta era tutto diverso: sentivo il bisogno che qualcuno mi ascoltasse, avevo bisogno di parlare apertamente con qualcuno, senza giudizio, senza freni, senza censure. Facile farlo con chi non può più rispondere … eppure non mi sentivo così, era come se lei fosse lì con me, come mai era accaduto prima.
“Avrei voluto che lo conoscessi anche tu” ripresi “ti sarebbe piaciuto e sareste andati subito d’accordo, ne sono sicura!”
La mia mente corse per l’ennesima volta a Tyler e pensai a tutte quelle volte in cui l’avevo visto assorto e letteralmente immerso nella suo taccuino, mentre scriveva a suo fratello. Iniziavo a comprendere il sollievo che si sentiva ad avere quel genere di contatto.
“Sono in un bel pasticcio sorellina” le confessai “adesso abito a New York con una famiglia meravigliosa, tutti mi vogliono bene e Tyler … beh Tyler è il ragazzo perfetto però ha detto che mi ama”

Come però?
Sembravano chiedermi i suoi occhietti vispi dalla fotografia. “Il problema è che non so cosa voglio io … io, io gli voglio bene, mi piace da morire, mi tratta come se fossi l’unica cosa di cui avesse bisogno, però non me lo merito io uno come lui …”Era la prima volta che sentivo uscire la verità non solo dalle labbra ma anche dalla mia testa. Un groviglio di ma, se e però, di congetture e dubbi, si erano avvolti e ingarbugliati attorno all’unica chiave del problema. Presa la chiave, mancava la toppa corrispondente, dove infilarla per aprire la serratura.“Io non sono stata una brava persona negli ultimi anni … me ne sono andata da casa ed oggi è la prima volta in 3 anni che rimetto piede ad Indianapolis. Oggi è il mio compleanno, Em. Ti ricordi i nostri compleanni? La torta al cioccolato di mamma e i barbecue di papà … non è rimasto più niente.”
Mi mancavano quei giorni; tuttavia non potevo negare che i giorni meno belli e più difficili erano stati necessari: senza di loro non sarei diventata la Allison che si è lasciata alle spalle lo squallore della sua vita malfamata, non avrei conosciuto persone speciali come Diane e Les, non avrei mai riso con Hayden e non avrei mai potuto conoscere quanto amore si può ricevere da persone come Tyler. Lui mi amava e, a modo mio, ero sicura di ricambiare quell’amore. Forse non era perfettamente inquadrato, non vedevo il mondo colorato di rosa confetto e non era zucchero filato l’unico odore che il mio olfatto percepiva: ma anche il mio era amore; ma noi, del resto, non eravamo Barbie e Ken. Anche quel noi, ormai, non suonava più come il rullo finale dei tamburi sul patibolo, un attimo prima dell’esecuzione capitale.Non meritavo tanta fortuna tutta insieme, neanche come risarcimento per gli orrori visti e vissuti, ma per una volta forse era il caso di non curarsi di cosa fosse giusto, ma piuttosto di cosa avessi più bisogno io. L’unico rimpianto era averlo capito troppo tardi.
“Dici che è troppo tardi?” domandai a mia sorella, ma invece di cercare oracoli, la mia attenzione si spostò sull’ombra che d’improvviso avvolse la lapide di Emily e me. Mi voltai e, ritrovandomi in piedi prima che potessi anche aver pensato di alzarmi da terra, rimasi di sasso. Una lacrima rigò una mia guancia, lentamente, fino a gocciolare sulla linea della mascella.

Ricordare come lo avevo lasciato e vederlo di nuovo fu un sollievo ed un dolore devastante che contemporaneamente si alternavano nel mio animo. La consapevolezza degli anni persi, il rimorso che con il sennò di poi mi rinfacciava di non aver resistito un altro po’, invece che scappare via come un coniglio impaurito.

E la gioia di vederlo in piedi, perfettamente in salute, grande e in forze come lo ricordavo dai giorni migliori: la mia roccia, mio padre.
Eppure non riuscivo a muovere un muscolo per avvicinarmi o lasciare che lui si avvicinasse a me. Era troppa la paura che fosse un sogno, troppo il timore di essere delusa anche da lui.
“Ciao Allison” disse, e riascoltare quella voce dopo mesi e mesi di silenzio mi fece sentire fragile come una bambolina di porcellana. Era bello sentire una voce familiare, ancora più sentire una voce che credevi persa per sempre e di un avevi il terrore di perdere il ricordo.
“Papà” soffiai, rapidamente, mentre l’emozione di poter pronunciare ancora quella parola mi rapiva il respiro.
Ero felice, davvero felice, come quando ricevetti il regalo di Natale di Tyler, come quando andammo a pattinare, come quando la mia Emily ed io facevamo la battaglia dei cuscini. Era una di quelle gioie semplici eppure non quantificabili, che nascono dentro senza apparente motivo.

Eppure dovevo andarci con i piedi di piombo, perché ero stata via per parecchio tempo e non ero l’unica ad essere cambiata.

“Sei venuta a trovare Emily proprio oggi … ne sono 18 vero?” chiese, sommesso e sicuramente preoccupato anche lui di usare la parola sbagliata. Eravamo troppo simili per non capirlo e certe cose non cambiano.

Annui e lo lasciai proseguire; avevo bisogno di starmene zitta a metabolizzare ma contemporaneamente volevo prendere quanto più potevo di quella voce e riempire i cassetti della mia memoria.

“Ti va … ti va se andiamo a prendere qualcosa in centro … c’è ancora il tuo negozio di torte preferito, sai? Solo … solo io e te … sempre se ti va” ribadì e per quanto mi era servito per ritrovare me stessa, sentivo che quel contatto con mia sorella era sufficiente. Che lui fosse arrivato proprio in quel momento, proprio mentre dalla mia bocca usciva la frase dici che è troppo tardi sembrò il modo che aveva mia sorella per dirmi che il mio posto era tra i vivi e che era ora di andare. 

“Sì … sì mi va” risposi e ci incamminammo insieme verso l’uscita.

Avevo mille cose da chiedergli, da confessargli e più di ogni altra cosa sentivo una voglia matta di attaccarmi al suo collo e non lasciarlo più, di recuperare ogni secondo perso di coccole padre/figlia. Ma non riuscivo a muovermi e le corde vocali sembravano non essere in grado di emettere alcun
suono.
“Credevo … credevo di non trovarti da sola” disse mio padre, che mi precedeva di pochi passi, voltandosi ed aspettando che lo raggiungessi “so che gli avevo promesso di non dirti nulla, ma è stato il tuo amico, Tyler, a dirmi che ti avrei trovata qui … non te la prendere con lui”
“E chi ti dice che me la prenderei con lui?” chiesi,  diretta e immediata, anche vagamente ironica, come avrei fatto quotidianamente con lui.

“Allison!” mi riprese mio padre, con un’espressione che la diceva lunga “come se non ti conoscessi!?”

Purtroppo fu costretto a mangiarsi la lingua da solo e a frenarsi perché di rese conto da sé di quanto poco veritiera fosse quella affermazione. Non poteva più dire di conoscermi, perché quella che aveva davanti non era la Allison che lui era andato a prendere alla festa di Steve Johnson anni prima, poco prima che la nostra auto si schiantasse. Anche se, in quel caso, ci aveva preso, perché era proprio la sua conversazione con Tyler che mi aveva fatto scattare nella notte.

“Lui … lui non è più qui. È ripartito per New York questa notte. E comunque mi aveva detto del vostro incontro …”

“Spero che non sia stata quella la ragione per cui è ripartito … lui lo ha fatto solo per il nostro bene, Allison. Anzi, per il tuo bene” spiegò. Ma io, stizzita, lo interruppi: “Dobbiamo parlare di Tyler papà?!” domandai. Non volevo essere dura, ma non ci vedevamo da due anni e mezzo e lui pensava ad un estraneo.

“No … hai ragione” ne convenne. Si lasciò andare ad un sorriso lieve, mentre mi avvicinavo e lui sembrava preso dai suoi pensieri. “Sai” mi confessò “è bello sentirsi chiamare di nuovo papà …”

Non riuscii a resistere oltre; come avrei potuto del resto?! Corsi verso di lui e lo abbracciai, nascondendo il volto e le lacrime nel suo petto: bastò veramente un istante per ritrovare quell’intimità perduta, il profumo di casa dei suoi abiti e l’odore forte di dopobarba, sempre lo stesso.
Per quanto mi sforzarsi, più sentivo le sue grandi mani accarezzarmi vigorosamente la schiena e le sue larghe braccia stringermi a sé, più i singulti aumentavano ed il pianto sembrava diventato inconsolabile. La scoperta di non essere più soli, la consapevolezza che mio padre era davvero ancora vivo ed era lì con me mi dava una felicità ed un entusiasmo che non erano quantificabili; più sentivo che lui c’era ed era con me, più l’emozione cresceva e le lacrime uscivano fuori. Lui stava lì, a stringermi come faceva quando avevo degli incubi da piccola, aspettando che mi passasse. Era bellissimo essere amati senza remore, senza se e senza ma.
“È … è bello poterti chiamare ancora papà” affermai, ancora singhiozzante, quando lo tsunami di emozioni che mi aveva travolta iniziò a ritirarsi e a darmi fiato. “Shh … shh piccola mia” mormorò mio padre, senza sciogliere l’abbraccio tra noi “è tutto finito bambina mia … papà è qui con te”
Forse non si era reso perfettamente conto che non ero più l’adolescente sola e ribelle che era perennemente in conflitto con sua madre e con un grande desiderio di libertà. Ora ero una donna, forse non completamente fatta e finita, ma certo non erano più le coccole di un padre ad interessarmi. Avrebbe dovuto presto fare i conti con un’altra realtà: avrebbe dovuto condividere le mie attenzioni con altre persone. Eppure, anche a me, per qualche minuto, aveva fatto piacere ritornare con le lancette a qualche anno prima, quando tutto era al suo posto e quando New York era solo una grande metropoli lontana e che non aveva nulla da offrire se non i migliori musical e forse la migliore scuola di danza al mondo.

Il viaggio per tornare in centro fu impacciato e quasi imbarazzante: quando hai tante cose da dirti, infatti, o si parla troppo o non si parla per niente. Noi optammo per il mutismo.

“Ti sei fatta proprio grande” si lasciò sfuggire mio padre, titubante e non del tutto sicuro che fosse la migliore cosa da dire in quel momento “però dovresti mangiare un po’ di più … sei così magra”. Mi diede un pizzicotto sul braccio, libero dall’imbottitura del giaccone, che avevo levato quando lui aveva acceso il riscaldamento.
Parenti … non cambiano mai: le uniche cose di cui sanno parlare o sono i ragazzi, o sono i chili in più o in meno che ti vedono addosso.
“Ero molto più magra di così fino a qualche mese fa, papà, credimi” ammisi “durante le feste di Natale mi hanno ingozzata come un tacchino … sono sicura di aver preso come minimo tre chili!”

E come se non fossero bastati, mio padre mi condusse nel mio negozio di torte preferito, il migliore della città. Mi ci portava sempre a fine anno scolastico e ci andavamo sempre a prendere la torta per il compleanno della mamma, quando era categorico che lei non passasse la giornata sui fornelli, neanche per fare un dolce.

“Ma è meraviglioso” esclamai, mandando giù la mia torta preferita, impasto al cioccolato e crema di nocciole e mascarpone, il tutto ricoperto di panna “è proprio come allora …”
“Beh … in fondo due anni passano in fretta e non sono poi così tanti …” osservò mio padre “anche se a me sono sembrati un’eternità”. Lo vidi rabbuiarsi mentre, beveva un sorso di latte dal suo bicchiere.
"Lo so … vale anche per me” confermai “ma ora siamo qui”. Presi la sua mano e la strinsi, sorridendogli quando alzò lo sguardo verso di me: non volevo che pensasse che sarei rimasta con lui ad Indianapolis per sempre, ma ora che ci eravamo ritrovati non avevo intenzione di perderlo di vista di nuovo per troppo tempo, anche se far ripartire tutti gli ingranaggi sarebbe stata un’impresa faticosa. Lui sembrò distrarsi da quei brutti pensieri e, ritrovando il sorriso, infilzò una fetta di torta. “Questa la devi proprio assaggiare … è nuova” disse, tentando di imboccarmi “senti … pare una di quelle merendine che mangiavi da piccola …”

“Dai papà smettila” mi lagnai, quando tentò di imboccarmi con tanto di aeroplanino “non ho sei anni! Ti stai rendendo ridicolo!”

“E allora prendi e mangia” ribadì, sornione. Gli presi la forchettina tra le mani e assaggiai questa famigerata torta … beh, effettivamente quel retrogusto paradisiaco di Kinder Delice c’era proprio … Dio che bontà.

“Visto?!” fece mio padre, notando evidentemente che nel gustarmi quella bontà avevo persino chiuso gli occhi come fanno nelle pubblicità.

Conclusa con una grossa risata di mio padre quella imbarazzante parentesi padre/figlia un po’ da bambini, un po’ da dementi, mi imposi di tornare alle cose più serie e più urgenti da discutere. Credo che fosse di questo avviso anche lui, perché mi precedette di pochi secondi nel parlare.

“Dio quanto mi sei mancata …” disse, e sentivo bene il retrogusto dolce amaro delle sue parole “… dove sei per tutto questo tempo Allison?”

“Non vorresti saperlo” gli dissi. “Purtroppo ne ho una vaga idea” ammise, ma fu risoluto da cambiare registro abbastanza in fretta “Come … come vanno le cose ora Allison?”

Era un bene che ne parlasse come se non fosse accaduto nulla di tanto grave, da un certo punto di vista; mi rendeva tutto più facile e non mi faceva sentire in colpa ad averlo lasciato solo, senza uno stralcio di spiegazione.

“Adesso abito con Diane, la madre di Tyler, ed il suo nuovo marito … mi trovo molto bene con loro, sono delle persone splendide! Mi hanno vestita, nutrita, protetta … senza voler sapere nulla di me o di ciò che avevo fatto per arrivare a ridurmi in quel modo …” e lì mi fermai. Non avevo idea di quanto gli avesse detto di me Tyler ed ebbi il timore che parlarne troppo apertamente avrebbe aperto in lui un’ulteriore ferita. Ma la pietra l’avevo ormai tirata, nascondere la mano fu inutile, visto che poi fu lui stesso a voler approfondire l’argomento.

“Ridurti come?” domandò, serio e con una maschera di ferro a nascondere le sue emozioni. Ricordai allora che era un discreto giocatore di poker e doveva imparato al tavolo verde a non scomporsi troppo.

“Piena di lividi e ferite … presa a pugni e vestita di stracci, magra ai limiti dell’anoressia, rozza e volgare come se gli anni passati da educanda nei migliori istituti della città fossero solo un miraggio” avrei voluto fermarmi, ma perché tacere ormai “ho finto per tanto tempo di essere solo una ballerina, ma è stato solo quando ho incontrato quella gente così generosa e buona che ho capito che era il momento di smetterla di mentire persino a me stessa. Ero solo una pro-”.
Ma mio padre di si alzò di scatto, prendendo il portafogli dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni. “Forse è meglio se ce ne andiamo da qui …” disse, andando verso la cassa. Io lo segui, in silenzio, ma quella cosa mi colpì molto e mi deluse in una certa misura. Mi chiamava la sua bambina eppure voleva discutere in privato di qualcosa che, alla luce del sole o di nascosto, era di dominio pubblico tra chi ci conosceva ad Indianapolis.
Una volta fuori dalla pasticceria, lungo la strada per raggiungere l’auto, allargai le braccia e mi calai gli occhiali sugli occhi: non tanto per il sole, quanto per nascondergli gli occhi gonfi di rabbia e delusione, che avrebbero potuto tracimare di nuovo da un momento all’altro. Scossi la testa, mentre lui, confuso, mi guardava. “È inutile nasconderlo o evitare di dirlo … io ero esattamente quello che sai. Non ero sulla strada e non ho preso malattie se è quello che ti preoccupa, ma comunque il risultato non cambia: ho venduto il mio corpo per vivere. Puoi usare il termine che preferisci per definirmi … ma rimane il fatto che ero una prostituta”

Preferii voltargli le spalle ed incamminarmi da sola verso il parcheggio sotterraneo dove Doug, mio padre, aveva lasciato l’auto. Presi dal mio zaino nero le sigarette e me ne accesi una, in preda ad una tale agitazione, da non riuscire nemmeno a far partire l’accendino.

“Allison! Allison!” mio padre grido, sempre più vicino, così mi fermai. Non volevo discutere con lui, non ora; ma non potevo tollerare che degli estranei come Diane e Les avevano avuto la sensibilità di non giudicare ed invece mio padre faceva il moralista e pretendesse di lavare in casa i panni sporchi.

“Forse ho sbagliato” ammisi “non avrei dovuto dirti certe cose. Ma era il solo modo … non esistono edulcoranti per questo genere di cose. Il punto è che non voglio nasconderti nulla e questa era tutta la verità”

“Sarà anche la verità” disse mio padre, un po’ affannato per la corsa che, data la sua stazza un po’ tozza, doveva essergli costata fatica “ma perché vantarsene?”
“Non è un vanto per me papà. È quello che sono … o almeno, quello che ero finché Tyler non è entrato nella mia vita. Non posso far finta che questi due anni per me non siano esistiti e” aggiunsi “non dovrai farlo nemmeno tu”
“Hai ragione” si scusò, affiancandomi “la prossima volta farò più attenzione. Però non essere arrabbiata con me”

“Non sono arrabbiata con te papà” dissi “è solo che non sono più abituata a sentirmi dire ciò che devo fare … e appena qualcuno ci prova, scatto. Credo di essere io a dover chiedere scusa”
.
Era la prima volta forse che chiedevo il perdono di qualcuno, veramente, non come una frase fatta ma per vera ammissione di colpa. Significava molto per me, sentivo che era un punto di partenza importante, un notevole tassello da aggiungere alla mia crescita. La vecchia Allison non ci sarebbe mai riuscita, sarebbe fuggita a spron battuto invece di rimanere e provare a parlarne.

Così lo presi sottobraccio e riprendemmo a camminare, stavolta insieme. Calcare quelle strade mi faceva uno strano effetto, un misto tra una consuetudine che non se n’era mai andata ed l’indifferenza per dei luoghi che ormai sentivo non appartenermi più da un pezzo.

“Dimmi solo perché …” riprese lui. “Avevo voglia di libertà … qui era diventato un inferno e avevo bisogno di andarmene” confessai, cercando le parole più adatte per non pugnalarlo “e quello era l’unico modo possibile per trovare i soldi alla svelta. Ma quella libertà aveva avuto un prezzo troppo alto da pagare e mi sono ritrovata ben presto in catene”

Non volli guardarlo, né sentivo il suo sguardo addosso: eravamo stati entrambi raggelati dalla mia confessione, lui perché forse non immaginava che la vita potesse riservare un destino tanto amaro a sua figlia e si rendeva conto di quanto la lotta contro lo sterco del mondo mi avesse resa dura e spigolosa, ed io perché non provavo né odio, né ribrezzo per quel passato, poi non tanto remoto, ma solo una grande e profonda apatia, come se fosse la vita di un’altra.

In lontananza, nella lunga avenue che stavamo percorrendo, individuai il palazzo in cui aveva sede l’ufficio di mio padre, la filiale della Hawkins Communications,  proprietaria tra le altre cose di alcune televisioni locali, almeno fino a due anni fa. Inutilmente tentai di sviare i miei pensieri, ma essi si focalizzarono su Tyler. Era passato da poco mezzogiorno, le undici a New York e di sicuro era già a casa da un pezzo se, come era nei suoi progetti, aveva preso l’aereo. Finita quella giornata, avrei dovuto iniziare a pensare anche a lui. Perché non volevo perderlo, non potevo.

“Sai che ho conosciuto il tuo capo?!” dissi a mio padre, per tentare di distrarmi.

“Il signor Hawkins?! Ottima persona, non trovi?” chiese. Purtroppo, non potei trovarmi d’accordo con lui perché, sebbene si fosse interessato in prima persona per questo mio viaggio e stava tentando in tutti i modi di recuperare per la scenata di Natale, non riuscivo ancora bene a capire di che pasta fosse fatto e che gioco stesse giocando. Potevo spronare Tyler a riavvicinarsi a suo padre, ma dentro di me pregavo sempre che lo facesse con molta cautela e che di un uomo come lui era meglio non fidarsi. Annuii a mio padre, ma per fortuna fu lui stesso a chiudere il discorso sul nascere. “Hai detto che ora abiti con la ex signora Hawkins, giusto?” annuii “e cosa fai ora? Non te ne starai con le mani in mano tutto il giorno spero…”
Mio padre era sempre stato uno stakanovista, il primo ad entrare in ufficio e l’ultimo ad uscirne, in casa sapeva arrangiarsi nelle riparazioni di ogni tipo e si dava da fare ad aiutare mia madre, quindi capivo la sua domanda.

“Beh … in effetti sto in casa quasi tutto il giorno … ma è lì che lavoricchio. Mi occupo della Caroline Hawkins, la figlia più piccola di Diane e Charles, è come se fossi la sua governante … e in più aiuto nelle faccende di casa, anche se per quello c’è già la domestica. Diane mi da una specie di paghetta a fine settimana, il giusto per mangiare fuori o andare al cinema, ma in casa non mi manca niente, così sono riuscita a mettere da parte un bel gruzzoletto, anche con i regali di Natale … però per venire qui ho speso tutto” feci spallucce. Purtroppo ero praticamente al verde, e se volevo sperare di pagare l’albergo da sola, visto che avevo praticamente usato una doppia ad uso singola, avrei certo dovuto chiedere una mano a mio padre. Mi scocciava farlo, ma glieli avrei restituiti, a costo di inveire ancora contro di lui.

“In più a Settembre inizierò a frequentare una scuola serale, in modo da poter lavorare di giorno per mantenermi agli studi … anche se quel lavoro devo ancora trovarlo. E devo trovarmi una casa per conto mio … voglio bene a Diane, Les e Caroline, ma non voglio abusare della loro generosità … hanno già fatto troppo per me”
“Vuoi tornare a studiare?” domandò mio padre, mentre entravamo nel parcheggio sotterraneo.
“Sì” risposi “voglio prendere il diploma e poi, chissà … magari andare al college”

Non speravo di poter arrivare così in alto, mi bastava un pezzo di carta per trovare un lavoro decente ed onorevole, con uno stipendio sufficiente a pagare un affitto e a non morire di fame. Magari avrei potuto permettermi anche di pagare la retta ad una scuola di danza e avrei potuto anche ricominciare a ballare, solo per il piacere di farlo e senza nessun secondo fine, una scuola dove i passi sono fatti di tecnica e non sculettate volgari.

Era bello potersi permettere di sognare di nuovo e soprattutto sapere che i sogni potevano realizzarsi stavolta.

“Io … io lo so che è presto per parlarne, ma visto che hai tirato fuori l’argomento …” esordì mio padre, ridestandomi dai miei pensieri “ma pensavo che, magari … ecco … potresti tornare qui per il finire il liceo e poi anche il college …”

Sapevo che avrebbe sfruttato quell’opportunità per tirarmi a sé e tenermi stretta, ero preparata ad un’eventualità del genere; del resto il mio lancio era stato perfetto e lui aveva preso letteralmente la palla al balzo. Ma Tyler aveva ragione: se non era quello che volevo, dovevo essere ferma ed oppormi. Per questa ragione, scossi vigorosamente la testa: “No papà”

Ma lui continuò, imperterrito: “non avresti bisogno di trovarti un lavoro per mantenerti e potresti dedicarti pienamente allo studio, così ti sarà più facile andare al college”. Sapevo anche che l’avrebbe messa sul piano dei soldi, ed era una nota dolente visto che non ne avevo e in un periodo come quello era davvero difficile reperirne onestamente. Ma Indianapolis non era più casa mia da due anni, era questo che doveva capire.

“Non fare così papà, ti prego. Non rendere le cose più difficili. Non avrei voluto dirtelo così presto, ma è meglio essere chiari fin dall’inizio”. Presi un bel respiro e tutte le forze che avevo per dargli la mazzata, perché quella, in fondo, era un mazzata bella e buona. Lo vedevo fermo e teso, di fronte alla sua auto, pronto a ricevere un colpo che sapeva lo avrebbe ferito. Ma questo non bastò a fermarmi.

“Io non sono venuta qui per restare. Riparto tra due giorni, forse anche prima” non aveva senso restare oltre, sentivo di poter continuare il rapporto con mio padre anche da lontano e forse sarebbe stato anche più facile. In più c’era una cosa che mi premeva fare a New York in quel momento: sentivo questa urgenza scalpitare di ora in ora e a poco serviva il mio raziocinio a placarla.

“Ma Allison” esclamò mio padre “sei … sei appena arrivata. Devi … devi incontrare con tua madre … dovete parlare, dove chiarirvi … avete tante cose da dirvi, non puoi andare via così … la uccideresti!”
“Lei … lei sa che sono con te?!” chiesi. “No … non sa nemmeno che sei qui, Tyler è stato molto cauto …” “Bene … perché non dovrà saperlo … ” fui perentoria “non abbiamo niente da dirci per il momento”. Sapevo di fargli male, perché lui doveva volerle ancora bene, non avendola abbandonata nonostante tutto, aiutato di sicuro da una visione poco chiara di come sono andate le cose.
“Dì la verità” proseguì mio padre “è per lei che non vuoi restare. Ti assicuro che è molto cambiata … stenteresti a riconoscerla …”

“Siamo cambiati tutti papà” lo freddai, buttandomi a capofitto dentro l’auto, allungandomi nel sedile posteriore della sua berlina per non essere costretta a guardarlo in faccia. Lui mi seguì e avviò l’auto per andare via.

“E comunque” ripresi “non è per lei. La mia vita è a New York ora, tutto il mio futuro lì. Capitolo chiuso. E ora ti prego … riportami in albergo”

Lungo la strada fummo entrambi taciturni e presi dai nostri pensieri. Mi chiesi se non ero stata per caso troppo dura con lui, ma ne convenni che ad un tipo come lui si poteva tener testa solo in quel modo, anche se con me sembrava docile come il burro sul pane tostato.

“Dannazione papà! Non essere arrabbiato con me!” sbottai, irritata da tutto quel silenzio “non ho intenzione di perderti proprio ora!”

“Non sono arrabbiato con te” rispose, con voce piatta. Non poter vedere il suo volto, vincolata dalla cintura di sicurezza, mi metteva un’ansia addosso ulteriore.

“Oh beh perché ti comporti proprio come se fossi arrabbiato con me …” gli feci notare.

“Non mi comporto come se fossi arrabbiato con te” disse e chiuse il discorso.

Muovendomi sul sedile potei finalmente arrivare a scorgere delle sue occhiate fugaci attraverso lo specchietto retrovisore. Nonostante le mie parole suonassero già come un addio, nonostante i battibecchi, lo vedevo sorridere, carico di una gioia quasi puerile e beffarda per non essere riuscito ad essere un padre severo ed imperterrito per più di cinque minuti. Ma d’altronde non era mai stato il suo forte. Lui era sempre stato il buono e coccolone di casa e mia madre quella che portava i pantaloni, maniaca e isterica. Almeno di una cosa potevo essere sicura che non era cambiato nulla.

Fermi ad un semaforo rosso, mi sembrò di avere un dejà vu. Poi capii: quello era l’incrocio dove anni prima avvenne l’incidente. Ed era più o meno tutto come allora: papà taciturno e imbronciato al posto di guida ed io seduta dietro, altrettanto taciturna ed imbronciata, che guardavo fuori dal finestrino. Le uniche differenze erano che era una notte calda d’estate e accanto a me era seduta mia sorella. Steve abitava dall’altra parte della città e per tornare a casa nostra bisognava attraversare tutto il centro.

“Posso chiederti una cosa?” esordii, prendendo coraggio “perché quella sera con te c’era anche Emmy … cosa è successo … io non mi ricordo nulla”

Lo vidi cambiare letteralmente espressione dallo specchietto. “Cos’è che ricordi?” mi domandò, inquieto.

“Ricordo che eri venuto a prendermi a casa di Steve Johnson ed Emily era con te. Vi avevo detto che passavo la notte da Abigail, ma evidentemente avete scoperto la verità … poi mi ricordo che tornando a casa abbiamo discusso. E poi il vuoto. Cos’è successo?”

C’era una sola persona, oltre a mio padre, a conoscere quei miei ricordi. Al resto del mondo, a mia madre, ai medici, avevo detto di non ricordare nulla. Nessuno seppe spiegarsi perché mi trovassi in macchina con mio padre e non ricordavo come Abigail ed io giustificammo la cosa, anche perché passo poco tempo e smisi di parlare con tutti i miei amici più cari e fidati.

“Cos’è successo mi chiedi?! Quello che succede sempre … la vita, il destino” la sua imperturbabilità  mi spiazzò e mi sembrava di essere di fronte al riflesso di me stessa. Mi ricordai di quando avevo criticato Tyler e gli avevo detto che non era l’unico ad aver sofferto … ora era il proprio il caso di auto-rimproverarmi. “Era una serata afosa ed avevamo deciso di prendere un gelato per rinfrescarci prima di andare a letto” continuò “La piccola Emmy volle venire con me perché voleva scegliere i gusti. Così andammo alla gelateria artigianale di Vincenzo, poco distante da casa di Abigail … e fu lì che la trovammo con la sorella. Non poté mentirmi…”

Sapevo che non poteva essere andata lei a spifferare tutto ai miei. Quando era venuta a raccontarmi come erano andate le cose l’avevo cacciata, distrutta dal dolore per la perdita di mia sorella. Poi l’avevo allontanata. Mi sarebbe piaciuto sentirla, anche se sinceramente non credevo di poter avere qualcosa in comune con lei.

“Decisi di venire a prenderti e portarti davvero da Abigail prima che tua madre potesse scoprire dov’eri stata” andò avanti mio padre nel frattempo “Steve non  mi piaceva … ma le sfuriate di tua madre nei tuoi confronti non mi piacevano ancora di meno. Io ero dell’opinione che bisognava farti fare i tuoi errori, per me eri abbastanza intelligente da capire da sola quali fossero le persone da seguire e quelle da tenere a distanza. Ma tua madre voleva sempre avere il controllo su tutto …”

Ricordai allora le sue parole di quella sera. Tu ora vai dove dovresti essere, mi disse, e domani mattina tornerai a casa come se ci fossimo solo incontrati dal gelataio ed Emily si è trattenuta a giocare con te … io e te faremo i conti poi.

Ma non ci fu possibile. A quel maledetto incrocio un pazzo ubriaco ci venne contro frontalmente, dopo un sorpasso azzardato che gli fece invadere completamente la corsia opposta.

Al di là dei brutti ricordi, mi confortava tuttavia sapere che, almeno sul comportamento di mia madre, la pensavamo alla stessa maniera. Forse io non avevo capito di star facendo la cosa sbagliata, ma se mi avesse lasciato fare ci sarei arrivata, prima o poi. Ed invece, in quel modo, aveva solo stimolato la mia disubbidienza.

Arrivati davanti all’albergo uscimmo entrambe dall’auto per salutarci.
Senza accorgercene avevamo trascorso insieme metà giornata, per lui era ora di rientrare in casa prima che mia madre si allarmasse o si insospettisse. “Sei sicura di non voler venire a casa?” chiese, ma ormai ero ben decisa. Avrei trascorso probabilmente un’altra notte insonne, in compagnia della mia testa logorroica, ma era meglio che rovinarsi il fegato con litigate senza via d’uscita.
“Vuoi che ci vediamo domani?” chiese allora, dopo il mio rifiuto, accorto e premuroso.

“Sì” risposi, sicura “ma dopo il lavoro … non vorrei che a tua moglie venisse all’orecchio che hai chiesto due giorni di permesso …”

“Non chiamarla così … è tua madre e ti vuole bene” disse lui, ma per quanto ne sapevo l’ultima volta che c’avevo parlato mi aveva detto che ero la più grande delusione della sua vita. “So che non sarà facile, ma promettimi che pian piano proverai a legare anche con lei … un colpo di telefono non le dispiacerebbe. Se hai bisogno di consigli da donna o … che ne so io …”

Non era certo un’immagine in cui mi vedevo bene, al telefono che parlavo con mia madre di assorbenti o di protezioni da malattie veneree. Sarebbe corsa di certo fino a me dall’altro capo della cornetta per mettermi sotto una campana di vetro. Ero sempre stata una bambolina di porcellana per lei e quando non lo ero più … beh ha semplicemente svalvolato.

“Promettimelo” insistette mio padre, prendendomi il volto tra le sue mani grosse e calde. Non potevo resistere ai suoi grandi occhi verdi, che mi aveva lasciato in eredità.
“Promesso” riuscii a dire e lo abbracciai forte, in punta di piedi, perché mi era mancato da morire quel contatto e quella vicinanza con lui. Lui mi baciò la testa e io mi allontanai, avendo cura di nascondergli le lacrime di gioia che stavano sgorgando.


















NOTE FINALI

Eccoci giunti alla fine di un capitolo che oserei definire cruciale. Perché entriamo in un modo diverso nella testa di Allison. Mentre l'ultima volta era per descrivere la sua scoperta dell'amore, qui invece viviamo con lei un'intera giornata. La sentiamo vivere, pensare, esprimere opinioni. Viviamo insieme a lei delle emozioni importanti.
Credo che a questo punto si possa dire con certezza che non solo è una ragazza che ha sofferto tanto, ma è soprattutto una ragazza decisa a voltare pagina e lasciarsi andare pienamente.
E secondo me ora è anche pronta a concedersi qualcosa in più con Tyler.
Purtroppo ha dovuto averlo lontano per sentirlo vicino.
Ma ora c'è anche il padre con lei, inizia una fase nuova della sua vita ed è anche il giro di boa della storia se vogliamo.
Scusatemi se il capitolo è un po' lunghetto, ma non volevo lasciare nulla in sospeso prima di tornare a New York da Tyler.

Grazie mille per l'enorme seguito e l'entusiasmo con cui seguite la storia. Significa molto per me.

à bientot

Federica

   
 
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