Ed
eccoci qua...
finalmente (ma anche no) una TS un po’ più lunga e
più corale, dedicata specialissimamente a sissi149, ma il
perché ve lo spiego alla fine:)
Stavolta facciamo un passo avanti nel tempo, siamo al campionato
nazionale del secondo anno delle superiori e Ken e Yasu stanno
già insieme.
Fidarsi è bene, non fidarsi... fa male!
Ken
uscì dagli
spogliatoi tirando un lungo sospiro. Era talmente teso che aveva deciso
di farsi la doccia a casa, con calma, senza dover aspettare i comodi
dei compagni. Chiuse gli occhi, e, di nuovo, lentamente,
inspirò ed espirò. Che palle. Si teneva il
braccio sinistro con l’altra mano. Ma stavolta non era la
solita spalla a dargli fastidio, bensì la fascia di capitano
che indossava ancora. Era come se bruciasse attorno al bicipite. Non
che non avesse il carisma necessario: ormai da tanti anni aveva
imparato a dare indicazioni ai difensori e non solo, e tutta la squadra
riponeva fiducia in lui, ma quello, semplicemente, non era il suo
ruolo. Lui non era il capitano della Toho, e odiava esserlo. Anche
perché, quando quella cavolo di fascetta finiva a lui era
sempre perché Kojiro aveva combinato qualche casino. Appena
due anni prima era sparito, mentre adesso aveva
avuto la bella idea di prendere una serie di insufficienze che, secondo
le inflessibili regole della scuola, gli impedivano di partecipare alle
attività extrascolastiche.
Stavolta,
dunque, non sarebbe bastato prostrarsi
tutti davanti al
mister, la cosa andava oltre il suo potere. E se i prof di inglese e
letteratura si erano dichiarati disposti a chiudere un occhio, quello
di matematica non transigeva. Non avrebbe chiuso nessun occhio (anche
se, a onor del vero, considerando le performance matematiche di Kojiro,
il professor Sasaki avrebbe dovuto come minimo cavarseli entrambi, gli
occhi) e non si sarebbe mosso di una virgola se tutta la squadra o
persino tutta la scuola si fosse prostrata di fronte a lui. Forse
nemmeno se si incatenavano tutti al cancello dell’istituto.
Forse nemmeno se immolavano qualcuno…
La
serie di iperboli si concluse davanti al portone della palazzina
dove abitavano. Lanciò uno sguardo verso il loro
appartamento e vide che la luce in camera di Yasu era accesa. Strano
che non fosse venuta a vedere gli allenamenti.
“Bah”, pensò, “magari doveva
studiare”. Gongolò pensando che avrebbe potuto
parlarne un po’ con lei, della storia della fascia. Da quando
stavano insieme, aveva scoperto che discutere con Yasu dei propri
problemi, lo aiutava molto. E magari avrebbe anche millantato
l’ennesimo fastidio alla spalla, così le coccole
non sarebbero rimaste solo verbali…
Salì
le scale a due a due, col sorriso sulle labbra e
aprì la porta dell’alloggio. Stava per chiamare la
sua ragazza quando scorse la borsa di Kojiro nel corridoio.
Sentì le voci dei due provenire dalla stanza di Yasu.
“Sei…
sicura?” stava domandando Kojiro,
incerto.
“Non
ti preoccupare, mettici tutta la forza. Non aver paura
di farmi male” disse lei. La voce era diversa dal solito,
affannata, ma aveva chiaramente udito quelle parole, mentre la risposta
di Kojiro fu solo un mormorio confuso. Sentì un rumore
strano, seguito da un grido di Yasu.
Tremando
Ken si avvicinò alla porta chiusa e
l’aprì.
Ebbe
una rapida visione di della sua ragazza fra le braccia di Kojiro,
poi il capitano si alzò di scatto, allontanandosi dal letto
mentre la ragazza si tirava rapidamente addosso la coperta.
“Ken” balbettò, gli occhi spalancati.
“Cosa
sta succedendo qui?” ringhiò il
portiere, fremendo, in preda a un tumulto di emozioni.
“Te
l’avevo detto, Wakabayashi ,”
ruggì Kojiro, “che era inutile nascondersi. Credo
sia il caso di raccontargli tutto”.
******
Alcuni
giorni prima...
“Mi
dispiace, Hyuga, ma non è una cosa in mio
potere, lo sai” ripeté per l’ennesima
volta il mister Kitazume. Poi si avvicinò a Kojiro,
mettendogli una mano sulla spalla. “Lo so che così
ci rimettiamo tutti, ma devo ammettere che sono abbastanza
d’accordo col professor Sasaki. So che tu sei qui
perché sei la stella della squadra e tutto il resto, ma in
fin dei conti siamo sempre a scuola… e sono ancora convinto
che ai ragazzi non si debbano insegnare solo il calcio e la matematica,
ma anche ad affrontare le proprie responsabilità. E ad
accettare le conseguenze delle proprie azioni”.
Yasu
aveva osservato tutta la scena da dietro le spalle del mister
mordicchiandosi il labbro, tormentata. Capiva che
l’allenatore aveva ragione, ma l’espressione sul
volto di Kojiro le spezzava il cuore. “Mister Kitazume,
signore” s’intromise allora, timida,
“magari potrebbe almeno allenarsi, anche se non
giocare”.
Kojiro
alzò il viso, annuendo, pieno di speranza.
“Wakabayashi”
sospirò l’uomo,
“Avevo capito che fossi tu quella brava con le lingue. Sai
cosa significa ‘escluso da ogni attività
extrascolastica’ ?”
“Sì,
signore” rispose la ragazza
abbassando il capo.
“Allora
ti sei risposta da sola” concluse. E se ne
andò.
Hyuga
lasciò la stanza a sua volta, non prima di aver
rivolto a Yasu un mezzo sorriso del tipo “grazie per averci
provato” cui lei rispose con un’impercettibile
alzata di spalle.
Di
lì a poco, anche la ragazza abbandonò lo
studio dell’allenatore. Uscendo dall’impianto
sportivo, la sua attenzione fu attirata da Kojiro che
l’aspettava seminascosto dietro un albero.
“Troviamoci in cafeteria” le sillabò con
le labbra, poi si dileguò.
Yasu,
curiosa, si avviò verso il luogo dello strano
appuntamento.
Quando
arrivò, trovò Kojiro già seduto
a uno dei tavolini con davanti due bicchieri di cartone. Tè
per sé e mokaccino per Yasu.
“Vedo
che i miei gusti sono ormai patrimonio
dell’umanità” sorrise la ragazza alla
vista della bevanda.
“E’
quello che ti prende sempre Ken”
borbottò lui con una scrollata di spalle. “Beh, ti
siedi?”
“Gli
altri non ci sono?” chiese guardandosi intorno
perplessa.
“No,
volevo parlare solo con te. Anzi, mi devi promettere che
sarà un segreto”.
“Ok”
disse stupita, scrollando la testa, con un
mezzo sorriso.
“Prima
di tutto, grazie per poco fa, ho apprezzato molto che
tu abbia chiesto al mister di farmi almeno allenare” disse
d’un fiato.
“Figurati…
è che capisco la posizione
del signor Kitazume, ma so anche quanto è importante per te
il calcio… Se solo mettessi nello studio un po’
delle energie che profondi nello sport” lo
rimbrottò sorridendo e allungando una mano per carezzare
quella del cannoniere. Kojiro trasalì a quel
contatto, ma poi si rilassò.
“Ecco”
riprese lui, un po’ a disagio,
“io vorrei chiederti se…”
Yasu
lo guardò, incoraggiante.
“No,
lascia perdere, non puoi e basta…”
“Beh,
dimmelo e poi vediamo, no?” Ormai era troppo
curiosa.
Hyuga
prese un lungo respirò e poi parlò:
“Mi aiuteresti ad allenarmi?”
“Cosa????”
“Sì,
ho bisogno di allenarmi, ma da solo
è un casino. E non posso chiedere a Sawada e Wakashimazu di
fare allenamenti aggiuntivi, già hanno quelli ufficiali, le
partite, la scuola… e poi se il mister lo venisse
a sapere… li metterei nei casini… di nuovo
e… non voglio… Ma non voglio crearne neanche a te
quindi, dimenticati di tutto” concluse alzandosi e lasciando
in tutta fretta la cafeteria.
Quella
Yasu proprio non se la aspettava: Kojiro che le chiedeva di
aiutarlo ad allenarsi! Ovviamente lo avrebbe fatto volentieri. Certo,
avrebbe fatto più comodo a entrambi fare qualche esercizio
in più di matematica, senza contare che la cosa avrebbe
potuto crearle problemi col mister… ma infondo –
pensò- per lei vedere le partite dalla tribuna non avrebbe
fatto tanta differenza… non come la fa per un giocatore,
comunque. E poi dove stava scritto che non poteva allenarsi con
qualcuno? Aveva persino il permesso di usare le attrezzature!
Insomma
la decisione era presa.
Tornò
all’alloggio, dove Takeshi, Kazuki e Ken,
stravaccati sul divano, si godevano il meritato riposo post allenamento
e pre-cena. Peraltro sarebbe toccato a lei cucinare, ma ci avrebbe
pensato dopo.
“Salve
a tutti” salutò, soffermandosi
per dare un bacio a Ken. “Kojiro è in
casa?”
“In
camera sua, sì” rispose Takeshi.
“Te
lo ricordi, vero, Wakabayashi che oggi tocca a te a
cucinare, se così si può dire?” chiese
Sorimachi. “Hai già chiamato la
rosticceria?”
“C’è
del ramen in scatola, mangi quello
Sorimachi non rompere”, ribatté stizzita,
dirigendosi verso la camera di Hyuga.
“Ho
capito” sospirò Ken.
“Cucino di nuovo io”.
“Kojiro?”
chiamò Yasu bussando appena.
“Entra
pure” fu la risposta dall’interno.
La
ragazza scostò la porta, affacciandosi appena:
“Volevo solo dirti” scandì, a voce
abbastanza alta da farsi sentire dai coinquilini, “che sono
disposta a darti quelle ripetizioni, magari
mentre gli altri sono all’allenamento”.
Kojiro
si voltò per guardarla negli occhi. “Sei
sicura?”
“Sì”.
E
così fu. Nei giorni seguenti, non appena Ken, Takeshi e
Kazuki andavano all’allenamento, Yasu e Kojiro sgattaiolavano
fino a un boschetto nel parco della scuola. Avevano trovato una radura
nascosta che faceva esattamente al caso loro, dopo un’oretta,
Kojiro tornava a casa e Yasu andava a vedere, come al solito, la fine
degli allenamenti.
Chiedere
alla ragazza del suo migliore amico di aiutarlo ad allenarsi
di nascosto da tutti era stata un’idea che gli era venuta
così, su due piedi, preso dalla frenesia di giocare: in
qualche modo, ed era stata lei stessa, con quella proposta al mister, a
dargli l’ispirazione. Ma ogni volta che uscivano
dall’alloggio per andare a farlo, era tentato di dirle che
era meglio smetterla, con quella storia. Perché non voleva
metterla nei casini, né con l'allenatore, né con
Ken… insomma non gli sembrava giusto. Ma
l’entusiasmo della ragazza era coinvolgente e la sua voglia
di giocare quasi più forte di quella di Kojiro stesso.
Certo, non era come allenarsi con Ken, ovvio che non aveva la sua forza
e la sua bravura, e spesso il cannoniere doveva dosare la propria
potenza per paura di farle male, ma Yasu aveva un’energia
inesauribile e un’innegabile, naturale predisposizione.
Sembrava riunire in sé, seppur in tono minore, le doti del
fratello e del fidanzato, come avesse, per anni, assorbito tutti gli
insegnamenti impartiti più o meno direttamente, e
memorizzato i movimenti visti in centinaia di partite.
Tutto
filò liscio per diversi giorni, finché, una
volta, distratto da queste riflessioni, Kojiro non controllò
abbastanza la propria forza e sferrò all’indirizzo
della ragazza un tiro potentissimo e angolato. Se ne rese conto quasi
subito, ma i suoi avvertimenti furono inutili. Forse Yasu non lo
sentì nemmeno, concentrata come era sul pallone, o forse lo
ignorò bellamente: fatto sta che non pensò
neanche per un attimo di lasciar perdere, bensì
spiccò un balzo particolarmente difficile, seguito da una
brutta caduta.
“Tutto
a posto?” chiese Kojiro avvicinandosi, visto
che la ragazza era rimasta bocconi, anziché rialzarsi subito
come faceva di solito.
Yasu
rotolò lentamente sul fianco destro, fino a trovarsi a
pancia in su: si stringeva la spalla sinistra e una smorfia di dolore
le contorceva il viso.
“Credo”
mormorò fra i denti,
“che mi sia uscita la spalla”.
“Ti
porto in infermeria” esalò,
allarmato.
“No,
il mister e gli altri ci vedrebbero, andiamo a casa, ti
dirò quello che devi fare”.
“Porca
miseria” imprecò Hyuga mentre
riportava a casa Yasu, sostenendola, anzi, portandola quasi di peso:
aveva il volto terreo, la spalla doveva farle molto male. Insomma,
ormai conosceva la sua amica: non era certo tipo da lamentarsi per
niente. “Cazzo, cazzo, cazzo, mi dispiace”.
“Tranquillo,
Kojiro” rispose lei, a fatica.
“Non è colpa tua, mi sono buttata male”.
“Sì,
che è colpa mia, ho tirato troppo
forte e comunque non dovevo proprio coinvolgerti in questa cosa, punto
e basta… ora Ken ci ucciderà tutti e
due…”
“Non
deve scoprirlo per forza…”
“Credi
davvero di poter nascondere a quel paranoico del tuo
ragazzo di avere una spalla fuori uso? Ma se si mette in agitazione
anche solo se ti sente fare uno starnuto o ti vede un po’
più stanca! Lo sai, no?”.
Yasu
si soffermò un attimo: no, non lo sapeva. Certo, Ken
era un tipo premuroso e solerte, ma non le era mai sembrato che la
controllasse così tanto… credeva piuttosto di
essere lei quella che durante le partite osservava ogni suo minimo
gesto, nel timore che qualcosa non andasse…
La
scoperta, lo doveva ammettere, le scaldò il cuore. Per un
attimo persino il forte dolore che le pulsava nella spalla sinistra
sembrò scomparire.
“No,
certo ma quando me l’avrai rimessa in sede
starò meglio e gli diremo solo che sono
inciampata”.
Una
volta a casa, Yasu si sedette sul proprio letto, provata. Quindi,
con l’aiuto di Hyuga e non poche difficoltà, si
sfilò la maglietta e spiegò a Kojiro la manovra
che avrebbe dovuto fare. Il ragazzo annuì, cercando di non
far caso al fatto che la ragazza indossava solo il reggiseno sportivo.
“Sei…
sicura?” chiese. Lui non era per
niente sicuro di quello che stava per fare. E se non ci fosse riuscito?
E se le faceva ancora più male? Avrebbe preferito ci fosse
stato Ken, lui era più pratico ed era il suo
ragazzo… Ma Yasu non aveva voluto saperne: era determinata a
tenere nascosta al portiere la gravità del proprio
infortunio.
“Non
ti preoccupare, mettici tutta la forza. Non aver paura
di farmi male” lo incitò lei. Sorrideva
debolmente, ma dalla voce si capiva che soffriva e aveva paura.
“E
sia” sussurrò Kojiro. “Al
mio tre. Uno…”
Yasu
deglutì e chiuse gli occhi.
“…due…”
Yasu
inspirò profondamente e strinse i denti.
“…tre!”
Il
rumore fece rabbrividire entrambi e Yasu urlò: nonostante
l’immediata sensazione piacevole di sentire tornare tutto a
posto, la manovra le aveva fatto tanto male, che per un attimo tutto si
era fatto nero e si era accasciata fra le braccia di Kojiro.
Ma
si riprese subito, sentendo la porta aprirsi.
Vedere
comparire Ken fu uno shock per entrambi: Kojiro si
allontanò con uno scatto dal letto, mentre Yasu
usò il braccio buono per coprirsi alla bene e meglio con la
trapunta.
“Ken”
balbettò, poi, incredula.
“Cosa
sta succedendo qui?” ringhiò il
portiere.
“Te
l’avevo detto, Wakabayashi, che era inutile
nascondersi. Credo sia il caso di raccontargli tutto”.
Yasu
non sapeva da che parte cominciare. Tanto più che le
girava la testa e aveva la nausea: sia per il trauma appena subito, sia
per quello che avrebbe potuto pensare Ken.
Fu
Kojiro, dunque, a spiegare tutto e lo fece per filo e per segno,
ignorando lo sguardo della ragazza che lo pregava di minimizzare.
Ken
rimase fermo sulla porta, ascoltando in silenzio il racconto del
compagno, portandosi una mano al volto per massaggiarsi gli occhi e
l’attaccatura del naso.
“…
e allora siamo venuti qui e le ho…
risistemato la spalla, credo”.
“Guardandovi
bene dal passare dall’infermeria,
naturalmente” osservò rabbioso il portiere.
“Non
volevo che mi vedessi…”
spiegò Yasu, “che ti
preoccupassi…” aggiunse in tono dolce.
“E poi” riprese con piglio deciso, “so
cosa fare e-”
CIAF!
Ken
non ci mise nemmeno un decimo della sua forza, ma lo schiaffo che
colpì Yasu risuonò nelle orecchie e nel cervello
di tutti e tre come un colpo di cannone.
“Ma
sei scemo?” urlò Kojiro, afferrando
il braccio del compagno. “Si è fatta male e tu la
meni pure? Ma che modi sono?”
“Se
avessi colpito te” soffiò
Wakashimazu fra i denti, all’indirizzo del cannoniere,
“non sarei riuscito a controllarmi”.
“E
ti pare un buon motivo per mettere le mani addosso a una
ragazza? Alla tua ragazza? Che, per giunta, si
è pure fatta male?”
“E
me lo ha nascosto! E non solo quello! Mi ha nascosto che
vi vedevate, accampando quell’inutile scusa delle
ripetizioni!”
“Le
ho chiesto io di aiutarmi con gli allenamenti!”
ripeté Kojiro, stremato.
“Lo
so ma… io… quando sono
entrato” balbettò, arrossendo e distogliendo lo
sguardo dall’amico.
“Che
Kamisama ci aiuti, Ken, amico mio, nemmeno per un
momento devi dubitare…”
“Lo
so, lo so!” gridò Wakashimazu,
tenendosi la testa. “Ma è stato più
forte di me… proprio perché mi fido ciecamente di
voi due, il solo pensiero che voi… è stato
terribile”.
Yasu
era rimasta a fissarli, tenendosi la guancia offesa. Lo stupore e
la sorpresa per quel gesto, per lunghi attimi, l’avevano
avuta vinta sia sulla rabbia sia sulle lacrime che, lei stessa temeva,
potevano prorompere da un momento all’altro. Invece rimase in
silenzio, attonita, ad ascoltare il concitato scambio dei due ragazzi.
Fare
le cose di nascosto da Ken non era nel suo stile e il pensiero che
lui avesse potuto sospettare un tradimento, le diede una fitta al cuore
assai peggiore di quelle che le trapassavano la spalla. Allora
inspirò profondamente e, cercando di controllare la voce,
s’intromise: “Ok, mi fa piacere essere stata utile
come sfogo e forse lo schiaffo me lo sono pure un po’
meritato, ma ora basta, va bene? Calmiamoci. Tutti.”
“Scusa
Yasu non-” la pregò Ken con voce
spezzata. La rabbia e la paura, che lo avevano vinto, andavano
placandosi, e, adesso, era sinceramente dispiaciuto per quel gesto
impulsivo.
“Lo
so.” Lo bloccò la ragazza con
dolcezza. “Infatti non mi hai fatto male” lo
rassicurò allungando il braccio sano verso di lui. Il
movimento la fece comunque trasalire dal dolore.
“Piccolina
mia” Ken le si avvicinò,
stringendola piano fra le braccia.
“Perdonami
per averti tenuto nascosto degli
allenamenti… era per non mettere te e gli altri nei
casini” sussurrò Yasu, affondandogli la testa nel
petto. Quell’abbraccio, seppur cauto, anzi, forse proprio per
l’attenzione che il portiere vi profuse per non farle male,
la fece sentire amata e al sicuro e sciolse tutte le tensioni,
abbattendo ogni sua difesa. E inevitabilmente un paio di lacrime le
scesero silenziose lungo le guance, bagnando la maglietta di Ken.
“Certo,
l’ho capito…” la
blandì lui, carezzandole la testa e la schiena.
“Ma perché non mi hai detto che ti eri fatta
male?”
“Per
non farti preoccupare…”
mugolò lei. Si allontanò per guardarlo in faccia
e uno sguardo birichino le saettò negli occhi lucidi.
“Yasu,
Yasu…” la rimbrottò
scompigliandole con affetto i capelli. “Non ci siamo forse
promessi di prenderci cura l’uno dell’altra? E
quando arriva il mio turno di prendermi cura di te?”.
“Ah,
bastava dirlo… mica dovevi aspettare che mi
fracassassi qualcosa… Ora, se non vi dispiace,
però, vorrei un antidolorifico e un po’ di
riposo”.
“Signorasì”
fece Ken accennando un
saluto militare e uscì dalla stanza seguito da Kojiro che
borbottò qualcosa circa il rischio di morire di diabete se
si fosse trattenuto oltre in quella stanza.
Wakashimazu
tornò poco dopo, con una pastiglia e un bicchier
d’acqua. Li posò sul comodino e uscì di
nuovo, tornando subito con dei cuscini. Con delicatezza, li
sistemò dietro la schiena della ragazza.
“Dovresti
stare comoda così” disse un
po’ imbarazzato, gli occhi puntati sui cuscini.
“Almeno, io li mettevo così quando mi faceva male
la spalla. Ti dà molto fastidio?” chiese solerte,
porgendole l’acqua e la pastiglia.
"Un
po'... anche a te quella, vero?" domandò lei di rimando,
accennando alla fascia di capitano che ancora stringeva il braccio di
Ken.
"Uh,
quella... devo ancora toglierla..." balbettò lui,
ostentando un'aria di sufficienza. "A dire il vero devo ancora farmi la
doccia" aggiunse facendo il gesto di annusarsi e schifarsi,
ridacchiando. “Anzi vado, così ti
riposi”.
Yasu
rispose con uno sguardo che avrebbe fatto sciogliere
l’Antartide.
“Ho
capito” sospirò Ken, alzando le mani
in gesto di resa. “Sto qui finché non ti
addormenti”.
Socchiuse
le imposte per schermare gli ultimi raggi di sole, quindi si
sedette a terra vicino al letto. Yasu allungò la mano destra
a carezzargli i capelli, osservando attraverso le palpebre
semi-abbassate lo stupendo profilo del suo bel portiere, e sorrise
appena. Intanto l’antidolorifico cominciava a fare effetto e,
piano piano, il dolore le concesse un po’ di riposo. "Non ti
preoccupare, sarai all'altezza" biascicò, sfiorando la
fascetta con la mano. Poi si addormentò tranquilla.
A
svegliarla fu, un’oretta più tardi, la luce che
filtrò attraverso la porta che veniva aperta.
“Yasu”
sussurrò dalla penombra la voce
vellutata di Ken. “Vuoi mangiare qualcosa?”
La
ragazza sbatté un paio di volte le palpebre, poi il
tentativo di alzarsi le fornì un resoconto dettagliato,
rammentandole dolorosamente i fatti della
giornata. Lo stomaco poi, le ricordò anche che era
l’ora di cena.
“Sì,
grazie” rispose. “Un
attimo e arrivo”.
“Stai
ferma lì” la redarguì
Ken. “Te lo porto io”.
Scomparve
nel corridoio e tornò quasi subito con un piatto
colmo di riso, carne e verdure.
A
Yasu brillarono gli occhi. “Il…
coso…” esclamò estasiata.
“Il
Donburi, Yasu, si chiama così”
spiegò Ken, alzando gli occhi al cielo. “Ma tu sei
sicura di essere giapponese?” chiese sistemando una sedia
vicino al letto e sedendosi.
“Uff,
lo sai. Ho tre quarti di sangue giapponese e ho avuto
un’educazione occidentale” mugugnò.
“Dovremo sperare che per avere il beneplacito di tuo padre
faccia fede il passaporto…” ridacchiò.
“Tu
ci scherzi” sospirò Ken, mettendosi
il piatto sulle ginocchia e impugnando le bacchette.
La
ragazza lo guardò atterrita, tendendo la mano buona:
“Beh? Adesso che fai me lo mangi in faccia?”
Lo
sguardo che Ken le rivolse era ancora più atterrito del
suo. “Veramente” mormorò arrossendo e
abbassando lo sguardo, “volevo imboccarti”.
“Volev
-” Uno strano calore le si diffuse in tutto
il corpo e, i suoi occhi, immaginò, dovevano aver assunto la
forma di due cuoricini color nocciola. Avrebbe voluto buttare la cosa
sullo scherzo, come al suo solito, ma alle labbra non le
salì nessuna battuta ironica o cinica, solo una risatina
nervosa. E di fronte alle bacchette che le porgevano un bocconcino di
riso e carne, non le restò che capitolare e aprire la bocca.
“Ma
che idillio” gorgheggiò qualcuno
dalla porta.
“Fottiti
Sorimachi” chiosò Yasu a bocca
piena.
“Uh,
la contessina sta bene allora”
continuò divertito Kazuki, affacciandosi per rivolgerle un
sorriso gentile.
Un
secondo dopo, apparvero anche i capelli a spazzola di Sawada. La sua
testa non sembrava più una palletta, ma aveva ancora i suoi
occhioni rotondi, una specie di specchio che restituiva, pari pari, i
sentimenti del piccolo centrocampista. In quel momento vi si leggevano
la preoccupazione, che probabilmente la notizia
dell’incidente gli aveva dato, ma anche la gioia di vedere
che Yasu stava abbastanza bene.
“Ciao
Ya-chan” disse salutando. “Posso
entrare?” chiese guardando Ken e il sopraggiunto Kojiro come
per chiedere il permesso.
“Se
proprio non ce la fai a trattenerti” rispose il
capitano.
“Potresti
almeno aspettare che abbia
mangiato…” aggiunse Ken.
“Ah,
sì” pigolò il ragazzino,
con aria abbattuta.
“Ma
no, avvicinati pure” lo incitò Yasu.
Non riusciva a dire di no a Takeshi, proprio come una sorella maggiore
che non può fare a meno di viziare il fratellino.
Il
ragazzo entrò allora nella stanza, trascinando un orso
grosso quasi quanto lui.
“È
per te” specificò il
centrocampista. “così non ti senti sola quando
andiamo all’allenamento o a lezione”.
“E
soprattutto, quando riuscirai a sollevarlo col braccio
sinistro, sarai completamente guarita” sentenziò
Kojiro, suscitando una risata generale.
“Ragazzi”
sorrise Yasu, un po’ commossa.
“Vi ringrazio ma… beh, insomma, non sono in fin di
vita… potrò venire a seguire gli allenamenti come
al solito, e ovviamente a lezione…”.
“Piano,
piano, Wonder Woman” la redarguì
Ken, premendole l’indice sulla fronte. “Prima di
tutto, domani vai in infermeria e poi vediamo…”
Kazuki
e Takeshi la salutarono e tornarono in soggiorno, Kojiro dette
un’ultima occhiata alla coppia.
“Comunque”
disse con un mezzo sorriso,
“non dargli mai figli, Wakabayashi”.
“Perché?”
chiesero i due
all’unisono, un po’ indispettiti.
“Col
ritmo che ha per imboccare la gente, te li fa morire di
fame”.
“Scusa,
Hyuga, non tutti hanno fatto da balia ai propri
fratelli minori” sospirò Ken. Poi lo
guardò di traverso con un sorrisetto ironico. “E
poi lo so perché sei lì che tentenni…
vuoi che dica a Yasu che il Donburi l’hai fatto tu per
lei… il perché glielo dici tu?” chiese
sornione.
“Beh”
si schernì Kojiro, scrollando le
spalle e incrociando le braccia sul petto come per difendersi.
“Perché da piccoli, la mamma ce lo faceva sempre
quando stavamo male…”
“E…?”
lo incoraggiò Ken.
“…e
a Yasu invece davano solo brodaglie
europee…”
“E…?”
incalzò il portiere.
“E
midispiacechesisiafattamaleacausamia” disse
tutto d’un fiato.
“Ripeti
lentamente” scandì ancora Ken,
dispettoso.
“Mi
dispiace di che ti sei fatta male per colpa
mia”.
Yasu
scosse la testa. “Te l’ho detto, ho fatto
tutto da sola”.
“Quindi
mi perdoni?” chiese Kojiro, con aria un
po’ infantile.
“Ma
certo!” rispose Yasu allegra. “Non
voglio più ripetertelo… non
c’è nulla da perdonare.”
Il
cannoniere sorrise un po’ imbarazzato, fece un leggero
inchino e scomparve.
Ken
e Yasu si guardarono ridacchiando.
Poi
l’espressione di Yasu si fece seria. “E
tu?” chiese guardando Ken con gli occhi tristi. “Mi
perdoni? Io farei qualsiasi cosa per-”
“Esattamente
le parole che volevo sentire”
gongolò il portiere. “C’è una
cosa, sì.” Uscì e tornò dopo
un po’ con una pila di libri. “Io e Sorimachi
avevamo chiesto al professor Sasaki degli esercizi extra da far fare a
Kojiro… Eccoli qua. Visto che hai tanta voglia di
aiutarlo e comunque devi stare buona per un po’…
te ne occuperai tu.”
“IO????
Ma se ho appena la sufficienza a
matematica?”
“Appunto,
ti faranno bene degli esercizi
aggiuntivi…”
“Ma
non sono brava come te e Kazuki…”
“Noi
dovremo impegnarci per arrivare infondo al campionato
nazionale senza Hyuga e non avremo tempo per compiti extra. Il tuo
dovere, invece, sarà di restituirci il capitano per la
finale.”
“Ma
non so…”
“ARRANGIATI”.
****
Qualche
settimana dopo...
Ken
non credeva ai propri occhi quando il triplice fischio
dell’arbitro decretò il termine della finale del
campionato nazionale. Il terzo titolo della Toho era realtà.
Sì
ce l’avevano fatta: lui, Sorimachi, Sawada e
tutti gli altri avevano raggiunto la finale anche senza il capitano.
Yasu
era riuscita a ficcare nella testa di Hyuga numeri e teoremi
bastanti per raccogliere una sufficienza piena, giusto qualche giorno
prima della finale.
Hyuga,
da parte sua, era riuscito a dimostrare al professor Sasaki di
non essere buono solo a giocare a calcio. E la fascetta di capitano era
tornata, con grande sollievo da parte di Ken, al legittimo proprietario.
Come
sempre, il lavoro di squadra della Toho aveva trionfato.
Proprio
come due anni prima, anzi meglio perché, come
l’anno precedente, la Toho era l’unica vincitrice.
Proprio
come due anni prima, Hyuga era rientrato per la finale.
Proprio
come due anni prima, Ken era caduto malamente sulla vecchia
spalla infortunata, manco a farlo apposta.
Passata
l’adrenalina della partita e l’euforia
della vittoria aveva realizzato che gli faceva piuttosto male e Yasu
era riuscita, dopo lunghe insistenze, a portarlo in infermeria.
Ken
ne uscì dopo poco e sorrise nel trovare la propria
ragazza che lo aspettava davanti alla porta. Si squadrarono per un
attimo, entrambi col tutore alla spalla sinistra e scoppiarono a ridere.
“Ok,”
balbettò Yasu, riprendendo fiato,
“alla festa per la vittoria di stasera me lo tolgo io, tanto
ormai sto bene. Mica ci possiamo presentare così, non
riusciamo neanche tenerci per mano!”.
“Però
tutti vedranno come siamo… legati
dal destino” disse lui con finto trasporto, portandosi la
mano destra alla fronte.
“Che
scemo, piuttosto, che ti hanno detto?”
“Niente,
ho preso una brutta botta… la spalla
è infiammata e mi verrà un bel livido, ma
nient’altro”.
“Davvero?”
“Sì,
non sono io quello che nasconde le
cose.” rincarò la dose guardandola storto.
“Anzi, impara da me, il dottore ha detto che se non fossi
stato così bravo a cadere, avrei potuto infortunarmi
gravemente”.
Yasu
lo squadrò scettica. “Bravo a cadere? Mah,
diciamo che ti ho visto fare cadute più
plastiche…”
Ken
le dette una forte pacca sul sedere, strappandole un
“Ahia, scemo”.
“Lo
sai vero” riprese lui avviandosi lungo il
corridoio, mentre Yasu gli trotterellava dietro. “Che mi devi
restituire i cuscini e che da stasera tocca a te a
imboccarmi?”
“Cavoli
tuoi, se ti vuoi trovare il letto pieno di
riso…”
“Correrò
il rischio” rispose il portiere
guardandola di sottecchi.
“Ken?”
riprese lei, dopo un po’.
“Eh.”
“Ok,
i cuscini sono tuoi, ma Deuter l’orsacchiotto
posso tenerlo io, vero?”
Wakashimazu
rise forte, quindi si fermò e la
guardò negli occhi. Fece un passo avanti, poi le
passò una mano sotto al mento per alzare il suo viso verso
il proprio. Si chinò appena e le sfiorò le
labbra, si ritrasse un attimo e aspettò che lei, come
sempre, le dischiudesse per accoglierlo. La baciò a fondo, a
lungo, mentre ripensava a tutte le avventure delle ultime settimane: il
peso del ruolo di capitano, la paura quando aveva scoperto Yasu e
Kojiro insieme, l'infortunio della ragazza e il proprio e, infine, la
vittoria del campionato nazionale. E capì che tutto, le
difficoltà come le cose belle, nella buona e
nella cattiva sorte, parafrasò arrossendo
leggermente, tutto sembrava più facile e gioioso,
perché erano insieme. Perché c’era lei.
Ma
non glielo disse. Si limitò a scompigliarle i capelli e a
rassicurarla: “Certo, piccolina, l’orsacchiotto
Deuter è tutto tuo”.