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Autore: Aleena    13/01/2012    3 recensioni
Estratto dal testo:
Fumo.
Una nebbia densa fatta di polvere, sangue e sudore mi circonda, mi avvolge, sfuma i contorni di questa realtà troppo cruda; ed io l’amo per questo sebbene mi tolga il respiro, mi si attacchi alla fronte sudata, mi riempia la gola di un’arsura acre di morte.
Il mondo è nelle tinte dell’ocra: laggiù, dove il sole indifferente declina verso il riposo, si tinge di un vermiglio appena accennato (..) Tutti noi siamo ocra, ricoperti di sole e sabbia, e se per un attimo solo ci fermassimo, immagino, potremmo mettere radici su questo suolo brullo e rossiccio e chissà, alzare il volto al cielo ed addormentarci con un sogno di casa nella mente ed un sorriso nel cuore.
Nessuno alza il volto al cielo, tuttavia.
C’è la guerra in terra e voltarsi alla ricerca della beatitudine è un invito per i nostri nemici; e poi cosa vedrei, se anche osassi?

6a Classificata al contest "Si apre il sipario, trattenete il fiato!" indetto da Medusanoir e DarkAeris sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOME:
Sul forum: Releeshahn
Su EFP: Aleena
TITOLO: Dicono che porti via lontano, al di là del mare.
GENERE: Angst, Guerra, Drammatico
RATING: Arancione
AVVERTIMENTI: Nessuno
INTRODUZIONE: Estratto dal testo:
Fumo.
Una nebbia densa fatta di polvere, sangue e sudore mi circonda, mi avvolge, sfuma i contorni di questa realtà troppo cruda; ed io l’amo per questo sebbene mi tolga il respiro, mi si attacchi alla fronte sudata, mi riempia la gola di un’arsura acre di morte.
Il mondo è nelle tinte dell’ocra: laggiù, dove il sole indifferente declina verso il riposo, si tinge di un vermiglio appena accennato (..) Tutti noi siamo ocra, ricoperti di sole e sabbia, e se per un attimo solo ci fermassimo, immagino, potremmo mettere radici su questo suolo brullo e rossiccio e chissà, alzare il volto al cielo ed addormentarci con un sogno di casa nella mente ed un sorriso nel cuore.
Nessuno alza il volto al cielo, tuttavia.
C’è la guerra in terra e voltarsi alla ricerca della beatitudine è un invito per i nostri nemici; e poi cosa vedrei, se anche osassi?
NdA: L’ispirazione di questa storia è stata fulminante: non ho mai scritto di guerra né credevo l’avrei mai fatto, eppure eccomi qui :) La storia è semplice: segue un arco di tempo variabilmente lungo ed è volutamente scritta in modo che nomi, date e luoghi non vengano mai riportati; questo perché inizialmente avrei voluto ambientare la storia nella seconda guerra mondiale ma, andando avanti, ho pensato che sarebbe stato bello che fosse il lettore stesso a decidere quando, dove e chi fossero i protagonisti. Così ho fatto una storia che potesse adattarsi tanto al mio genere (il fantasy; perché no? Una guerra fra umani ed elfi?) quanto allo storico. Il protagonista non si descrive (perché dovrebbe? In fondo si conosce) e resta adattabile a qualunque possibilità. È biondo, moro, rosso? Decidete voi. Mi piacciono le storie aperte con un finale chiuso, e questo ho fatto ;)
Una piccola nota: non ho curato volontariamente lo stile nei dialoghi – in alcuni ci sono delle imprecisioni grammaticali -, questo perché un soldato non può parlare come un libro stampato; lo stesso vale (in maniera molto ma molto minore) per la storia: avrei potuto usare uno stile più ricercato, ma siamo nella testa di un soldato con, forse, la quinta elementare (o almeno così l’ho immaginato; voi che ne pensate?) quindi non mi sembrava adatto. Mi è stata segnalata, in frase di giudizio, la presenza di parole ripetute nei dialoghi: sebbene creda che in un discorso difficilmente una persona comune –come i miei personaggi sono-  stia attenta a non ripetere la stessa parola ogni poco – è il motivo per cui ho “tralasciato” questo tipo di errori – ho tuttavia cambiato il testo, perché non mi costava nulla farlo.
Spero che la storia vi piaccia. Buona lettura :)
Ps: in fondo è riportato il giudizio ricevuto. Inoltre è vietato copiare/riportare altrove questo scritto (integrale, sue parti, personaggi e così via) senza il consenso dell'autrice (la sottoscritta, ovvio).

 
 
 
 

Dicono che porti via lontano, al di la del mare.

 
  
Fumo.
Una nebbia densa fatta di polvere, sangue e sudore mi circonda, mi avvolge, sfuma i contorni di questa realtà troppo cruda; ed io l’amo per questo sebbene mi tolga il respiro, mi si attacchi alla fronte sudata, mi riempia la gola di un’arsura acre di morte.
Il mondo è nelle tinte dell’ocra: laggiù, dove il sole indifferente declina verso il riposo, si tinge di un vermiglio appena accennato, mentre intorno a noi il giallo, l’arancio e il marrone filtrano attraverso il terriccio e la sabbia creando un’uniformità priva di contorni, di proporzioni; e le mischie sembrano meno importanti degli sporadici alberi che emergono, scheletrici al pari dei soldati. Tutti noi siamo ocra, ricoperti di sole e sabbia, e se per un attimo solo ci fermassimo, immagino, potremmo mettere radici su questo suolo brullo e rossiccio e chissà, alzare il volto al cielo ed addormentarci con un sogno di casa nella mente ed un sorriso nel cuore.
Nessuno alza il volto al cielo, tuttavia.
C’è la guerra in terra e voltarsi alla ricerca della beatitudine è un invito per i nostri nemici; e poi cosa vedrei, se anche osassi?
Dunque corro, schivando pozze di fango e slittando su mucchi di pulviscolo terroso, rialzandomi e colpendo il mio avversario all’addome, alla nuca, al naso, con la forza della disperazione che gonfia i miei muscoli: istinto di sopravvivenza, lo chiamano, eppure a me sembra che sia solo l’ennesimo sforzo, l’ennesima fatica. Voglio vivere, ma il prezzo che devo pagare per mantenere il respiro lo toglie ai miei nemici.
Non ci penso, non penso a nulla: se solo indugiassi in qualcosa che non è la canna del mio fucile puntata verso l’ignoto, il dolore e l’adrenalina che mi scorre nei muscoli, allora la mia mente divagherebbe, accorgendosi di quanto la testa pulsa al ritmo del sangue, di quanto la mia mano sinistra ferita diventi ogni giorno più rigida – e chissà, forse a guerra finita non potrò più usarla, la mia mano della scrittura, la mano del lavoro- ed alla faccia del nemico quando finisce a terra.
Vedo i loro fantasmi a volte, nel sonno: gli spiriti di quelli che ho lasciato sul campo. Una volta, appena arrivato – la testa piena di sogni di gloria e la voce spavalda del ragazzo appena ventenne che ero- sparai al petto di un nemico, giù nelle paludi; le mani tremanti e sudate, l’adrenalina che lottava con il panico in ogni fibra di me, esplosi il colpo: ricordo il rumore, una detonazione debole ed una lacerazione forte – o forse era il contrario?- mentre la pelle del mio nemico si squarciava;  e poi il ribollire del sangue, il grido dapprima strozzato poi sempre più forte e le sue mani – mani pallide, piccole e bianche, dita esili e polsi fini - che annaspavano cercando di sanare una ferita che lo stava già uccidendo. Ricordo il volto del mio nemico nell’agonia: contrasse occhi e labbra, poi gridò e gridò ancora, invocando aiuto in una lingua a me sconosciuta e piangendo mentre tossiva sangue e vita. Ricordo che tese una mano verso di me, come cercando aiuto, e mi guardò negli occhi – ed io, incapace di distogliere lo sguardo, rimasi a fissarlo, lo osservai stupito mentre impallidiva e piangeva e tremava, il fucile che l’aveva ucciso stretto fra le mie mani come fosse l’ancora di salvezza in un mondo di terrore, nonostante mi facesse ribrezzo quel metallo troppo caldo fra le dita. Lo guardai morire e piansi un’intera lacrima prima che qualcuno afferrasse la mia giacca verde e mi rispedisse ad uccidere uomini con la giacca rossa.
Decisi che non avrei ucciso nessuno: durò un pomeriggio, fin quando non mi trovai con un buco nella mano sinistra e la canna del mio fucile contro la tempia del mio feritore; allora per un attimo pensai alla mia terra, alla mia casa: rividi mia sorella andare a prendere l’acqua al pozzo, mio padre tornare dai campi con la faccia bruciata ed un sorriso stanco e soddisfatto, mia madre sfornare una forma fragrante di pane – un profumo che avevo sempre amato - e rividi me, accanto a mio padre: solo che non ero un ragazzino moro e sbarbato ma un uomo fatto con le guance ruvide e lo sguardo perso, le mani delicate ed i polsi fini, un buco nel petto ed un sogno infranto nel cuore.
Scossi la testa e sparai, e lo feci ancora ed ancora finché il sole calò lasciando che un sudario di tenebre avvolgesse i caduti dei due fronti. Non c’erano tregue neppure di notte perciò i morti venivano lasciati dov’erano, macabre linee di confine che i generali usavano per stabilire di quanto fossimo avanzati od arretrati. Due iarde e mezzo dall’ultima linea di cadaveri rossi, così dicevano, mentre fuochi fatui si accendevano lungo la pista delle nostre battaglie simili a moniti od oscuri messaggi, sibilati presagi di sfortuna: ogni giorno indietreggiavamo di più mentre il nostro numero calava e voci agitate venivano dalle tende degli ufficiali, che si domandavano perché, senza capire. Noi soldati invece sapevamo; avevamo guadagnato terreno, all’inizio, ma eravamo in inferiorità ed i difensori avevano dalla loro la forza della disperazione: combattevano per le loro case, per le loro famiglie, per la loro terra; mentre noi eravamo coscritti agli ordini di un generale che neppure ci guardava, passando fra le nostre tende lacere ed esposte al vento caldo, fra i fuochi che nulla potevano contro la pioggia, fra i visi stravolti di chi non era in grado di riconoscersi.
Molti perdevano se stessi su quell’arido terreno brullo: io no, od almeno lottavo con tutto me stesso per non farlo.
Ogni sera recito il mio nome e quello dei miei familiari come una preghiera, augurandogli ogni bene e sperando che loro facciano lo stesso per me; ogni mattina mi sveglio e, specchiandomi sul cucchiaio di metallo, mi sussurro che non sarò io a marcare la linea di confine quella sera, che tornerò, vivo e stremato, a mangiare nuovamente quella zuppa sempre più pallida, a parlare ancora con il mio riflesso che così poco mi somiglia, adesso.
È il mio modo di sopravvivere: ognuno ha il suo qui e nessuno che stia in questo inferno da più di una settimana vi bada; arriviamo sicuri di noi e finiamo così, immersi nel fango con la coscienza in bilico su di un baratro e la speranza che ci abbandona pian piano, sfumata dal sangue e dal sudore e dal caldo opprimente, dal peso del fucile e dall’eco metallico della voce filtrata attraverso l’elmetto.
Senti troppo, vedi troppo, respiri e tocchi troppo: c’è sangue sulla punta della lingua e gli odori di morte e decomposizione e sudore e polvere da sparo ti si attaccano ai vestiti, strusciano sulla tua pelle e ti si insinuano in bocca, dove lasciano un sapore amaro che niente riesce a cancellare se non l’indifferenza. Per quanto lotti, non puoi far a meno di divenire insensibile.
Per quanto cerchi di ripeterti chi sei, non puoi fare a meno di impazzire.
Questa mattina, accanto a me un ragazzo rosso di capelli storceva la bocca e tossiva violentemente, maledicendo gli dei e la nebbia vaga e il cuoco, perfino sé stesso; non si riconosceva, non più. Un tempo l’avrei avvicinato per offrirgli una spalla su cui piangere ed una voce che lo confortasse, ora no: semplicemente scuoto la testa e continuo sussurrare fra me, ogni parola inframmezzata da una cucchiaiata fino a quando la ciotola non si vuota e, con un borbottio, devo alzarmi per consegnarla all’assistente del cuoco – quanti anni potrà avere? Nove, dieci forse? - prima della sosta alle latrine ed all’armeria. Poi in riga, mentre il generale ci redarguisce.
Routine, solida, confortante routine.
Finisce il tempo delle parole e poi eccolo, il terreno aperto ed i cadaveri e il fumo ocra; schivo i resti di un compagno caduto addosso ad un nemico e sorrido del caso che li ha voluti disposti così simili a due amanti che riposino abbracciati: provo tenerezza ed una gran pena per entrambi, ma è solo una stretta momentanea, un sussulto di un’anima che ne ha viste troppe per non essere ridotta a brandelli.
I miei sensi sono all’erta, talmente eccitati che mi pare di riuscire a scorgere ogni cosa con la nitidezza di un rapace: sono un’aquila a caccia ma non uccido per nutrire altri che l’ego smisurato del mio re, la sua brama di conquista.
Qualcuno mi passa accanto mollandomi una pacca sulla spalla ma non riesco a vedere chi sia: davanti a me c’è una giacca rossa che mi punta il fucile contro sibilando qualcosa che non comprendo; schivo a sinistra poggiando il fucile sulla mia spalla e socchiudendo l’occhio destro prendo la mira. Esplodiamo il colpo assieme, lampi accecanti di salnitro che infuocano l’aria ferma per un istante appena mentre la mia mente registra – come al rallentatore - il proiettile nemico che sposta l’aria all’altezza del mio orecchio sinistro, troppo lontano anche solo per spaventarmi, ed il mio che va a segno, penetrando nella spalla della giacca rossa e forando tessuto, pelle e muscoli prima di uscire dall’altra parte. Esplodo un altro colpo, alla sua gola stavolta, ed un terzo alla testa, in rapida successione: fiori vermigli si allargano sul volto dell’uomo morto, gocciolano lungo le guance scivolando sulla sua espressione stupita. Tocca terra che sono già oltre, in cerca di altri suoi commilitoni.
È nel primo pomeriggio che la sirena si fa breccia attraverso il vapore acre di sudore e morte: uno, due, tre squilli, simili al gracchiare di un uccello mostruoso.
Ritirata.
Mi guardo intorno: ho una gamba che perde sangue, una ferita di striscio il cui dolore inizia a sentirsi ora che la paura prende il posto del nulla che chiamano “foga della mischia”; sono circondato da nemici, una decina almeno di giacche rosse e tre dei miei che girano gli occhi all’unisono con me, sui volti la stessa espressione di smarrimento e terrore.
Li guardo per quella che sembra una vita prima di cominciare a correre.
Sibilano proiettili dietro di me ed alcuni riescono a trovare la mia spalla, il fianco destro, un braccio; non mi fermo a valutare l’entità del danno. Dietro di me qualcuno urla, i tonfi dei passi si fanno più vicini poi qualcosa cade a terra e so di essere solo.
È quando la certezza di morire mi prende alla gola come un nodo di fiele che vedo la trincea, luminosa e confortante come un raggio di speranza, agognata nonostante il disprezzo che avevo da sempre provato per quelle fortificazioni. Nessun soldato amava stare in trincea: molto meglio morire in campo aperto che per una pallottola o dell’olio calato dall’alto da invasori invisibili. Nelle fosse era freddo e le notti erano veglie funestate dall’odore di muffa e di decomposizione: i morti non venivano rimossi dalle trincee, rimanevano lì a fissarti con i loro volti vagamente familiari, accomunati a te dai tratti della tua terra natia o dall’amicizia.
Succedeva, talvolta, di fare amicizia.
Nella vita precedente alla guerra l’amicizia era un modo di passare una giornata, uno sfizio che la noia imponeva, nella maggio parte dei casi; qualche volta gli amici erano veri fratelli, altre volte erano conoscenti con i quali amavi particolarmente parlare: sul campo l’amicizia era l’unica via di salvezza dalla disperazione ed allo stesso tempo il mezzo con cui questa arrivava ad attanagliarci. Potevi stringere amicizie più salde del legame di sangue e vederle spezzate con la facilità con cui si soffia su di una candela: e quando capivi che la vita non vale nulla, che l’amore e l’affetto e l’amicizia non contano per nessuno se non per te, allora impazzivi.
Io non avevo amici, non ne avevo voluti: vivevo dei ricordi e tanto mi bastava.
Non avrei avuto nessuno ad aspettarmi in trincea, lo sapevo; dunque rotolai fra i volti di sconosciuti con i tratti della mia patria, cadendo di peso sulla terra battuta della fossa: dei commilitoni mi afferrano e mi risollevano, mettendomi in mano un fucile e facendomi segno di arrampicarmi su di un tavolaccio e di iniziare a sparare.
Era il punto più profondo, due metri di opprimente terra: la trincea d’ultima linea, il nostro baluardo finale. Come abbiamo fatto ad arretrare fin qui? Mi chiedo mentre prendo la mira, sparo, ricarico. Mi hanno data una vecchia baionetta, scomoda ed arrugginita, che mi costringe ad abbassarmi ogni poco per prendere manciate di pallottole e sacchetti di polvere.
Sparo finché le gambe non mi tremano e le spalle sono di marmo, finché i tremiti del mio corpo rendono difficile perfino estrarre il fucile dalle dita contratte. Sparo finché non cala la notte ed il campo tace e solo allora mi accascio a terra e mi rendo conto che la gamba e la manica sinistra sono rigide di sangue coagulato e la ferita al fianco è più grave di quello che avevo pensato: perdo ancora sangue ed il proiettile è incastrato dentro.
Grugnisco e mi lascio cadere pesantemente sul tavolaccio, troppo esausto perfino per calarmi a terra; vorrei un dottore, ma non ce ne sono. Non c’è quasi più nessuno, ormai.
Abbiamo resistito all’attacco ma siamo rimasti in pochi; a qualche metro da me, dove la trincea si rialza un poco, il cadavere di un comandante dona il suo genio alla nuda terra: ha la testa spaccata. Accanto a lui giacciono altri corpi, altri volti, altri sogni infranti.
È mentre guardo con il gelo nel cuore quelli che una volta erano uomini che qualcuno mi si siede accanto, trascinandosi dietro l’odore del fumo; non quello del campo di battaglia ma un fumo diverso, denso ed asprigno. Una sigaretta artigianale, fatta con foglie di rucola ed erba pungente con tutta probabilità: una schifezza, ma pur sempre rara.
«Posso?» mi chiede il ragazzo, lanciando un’occhiata alla gamba, poi al fianco; è del nord, un pescatore della costa a giudicare dai tratti e dalla pelle annerita dal sole. Io annuisco pigramente muovendo appena la testa: sono stanco da morire, quanto non sono mai stato neppure dopo una giornata di lavoro nei campi. «Questo caldo mi uccide. Non ci ho mai veramente fatto l’abitudine» attacca lui, prendendo una lunga boccata dalla sigaretta ed espirando una nuvoletta di fumo acre verso di me, che storco il naso e gli sorrido. Non ho mai amato l’odore del fumo, ma almeno copre quello della trincea: odore di morte e sangue e feci.
«Nord?» dico solo, osservandolo inalare il fumo, la sigaretta che si consuma fin quasi a bruciargli le dita: è artigianale, priva di filtro.
«Già. Mentre tu vieni dalle pianure» è un’affermazione, non una domanda, e nel porla entrambi annuiamo; poi il ragazzo si china e mi solleva la divisa senza complimenti, esaminando le mie ferite con occhio attento «Non sono un medico, ma ho messo delle bende, ingessato qualche braccio e, si, anche ricucito delle ferite. Fa comodo saperlo fare» mi spiega con calma. Ha una voce pacata e mani dure, callose, che mi tastano sicure la pelle.
«Già» sussurro, mentre l’altro strappa quel che resta della mia manica, dividendola in strisce imprecise con cui inizia a fasciarmi.
«Una medicina rudimentale, ma non credo avrai di meglio, fratello. Uno dei dottori è scappato, l’altro è riverso in una pozza d’acqua a trecento metri da qui» sbuffa, masticando tra i denti le parole, gli occhi fissi sul movimento delle sue mani, come i miei «Dannata pioggia! Mi ha marcito i polmoni, a me ed a quelli del mio reparto. Non ci sono abituato. Dalle mie parti è tutto più secco» ha un accento marcato, grave.
«Da me non è infrequente, invece. Ed è un bene. Per i campi, intendo. Ci sono abituato, comunque.» rispondo, trattenendo un gemito quando con la stoffa sfiora la ferita fresca.
«Sei delle pianure» commenta con semplicità, come se bastasse a spiegare ogni cosa.
«Non proprio. Ossia, si, anche se il mio è un villaggio nell’interno, la zona più collinare. La città invece è sul mare, ma è lontana. Io non ho mai visto il mare»
«Mai?» il ragazzo solleva un sopracciglio, scettico, e piega il busto verso la mia gamba, cominciando a strappare altro tessuto.
«La città affaccia sul porto. Mia madre ci andava ogni tanto, quando avevamo bisogno di tessuti o di spezie o pesce. Non ce la passavamo male» dico, lasciando libero sfogo alla lingua. È più facile parlare, mi distrae. La ferita al fianco pulsa e prude terribilmente ed ho il sospetto che sia ancora aperta.
«Buon per voi» commenta semplicemente, sollevandomi la giubba rossa e la maglietta un tempo bianca. Storce il naso, ma non riesco a vedere la piega della sua bocca e, in cuor mio, so di non voler sapere davvero.
«Io non l’ho mai accompagnata. Avrei tanto voluto vederlo, il mare. Mia nonna diceva…» le sue dita scavano nel mio fianco, individuano qualcosa e si fermano. Pare esitare un attimo, quindi affonda le dita nella ferita, cercando di estrarre il proiettile. Mi mordo le labbra fino a sentire il sapore del sangue in bocca, chiudo gli occhi e prendo fiato «Diceva.. che… oltre l’orizzonte ci sono una marea di terre inesplorate e…» rantolo, poi grido. Stringo i pugni e li batto sul tavolaccio una, due , tre volte prima di inarcare la schiena con un gemito.
«Resisti ancora un attimo, l’ho quasi preso. Continua, avanti. Dimmi cosa ti diceva» mi incoraggia il mio soccorritore con una voce falsamente allegra, ed io prendo fiato e ricomincio.
«Diceva che c’era una terra meravigliosa, la terra delle…» e qui mi blocco, non per il dolore ma per un improvviso, inaspettato imbarazzo. Lui mi tocca la carne ed io mi vergogno! «Non ridere. Delle sirene e del Roc. Sai cos’è?» annuisce, facendomi poi cenno di continuare. Ha il volto contratto, ed ho paura che non mi stia ascoltando; ma parlare mi fa bene, mi distrae e sembra rilassarlo, quindi continuo «Diceva che non c’erano malattie e morte, solo gioia. Che gli uomini lavoravano e vivevano in armonia. Diceva che… la chiamava la Terra del Sogno.»
«Un nome appropriato» risponde il ragazzo, estraendo le dita dalla mia ferita e guardandomi negli occhi. Solo in quel momento mi accorgo di quanta innocenza ci sia in lui: e come un lago di montagna, chiaro e tranquillo, così limpido che si vede il fondo anche a parecchi metri dalla riva. Il suo volto è acqua e, per quanto si stia sforzando, la risposta trapela ugualmente. Sorrido, cercando di confortarlo.
«È una brutta ferita» dico, col tono di chi parli del tempo;  e le mie parole escono lente, smorzate, fioche: suonano atone, falsamente concilianti.
«Già» risponde semplicemente l’altro, e poi «Mi spiace, fratello» sussurra. Sento che lo crede davvero, dopotutto.
«Lascia stare. In fondo avrei dovuto aspettarmelo, no?» rido, una risata che diventa un eccesso di tosse, così violenta che lui deve sostenermi. Non so neppure come ti chiami, mi rendo conto.
«Almeno ne hai portati tanti con te» non è felice, né sollevato: al contrario, pronuncia queste parole come se fossero di fiele, le rimastica in bocca e le sputa fuori in fretta. Mi piace questo ragazzo, decido.
«Me ne pento. Davvero»
«Già» conclude lui, poi stiamo in silenzio per un po’.
Alziamo la testa quasi all’unisono, come se lo stesso pensiero sia balenato fra le nostre menti; solleviamo lo sguardo per tentare di catturare un angolo di cielo fra le muraglie di terra, ma il fumo copre tutto. Chiudo gli occhi, sospirando.
«Sai, da casa mia si vedevano le stelle. Di notte, quando il cielo era limpido, perfino la Via Lattea. Ce n’era una, di stella, spostata alla destra del tetto di casa, che mi piaceva ascoltare quand’ero piccolo. La chiamavo per nome, le cantavo le strofe di canzoni inventate o sentite alla radio, alle volte le confessavo di quanto mi piacesse questa o quella ragazza, del futuro che volevo avere. Le dicevo che mi sarebbe piaciuto lasciare la fattoria e trasferirmi nella città grande. Mi vedevo bene a dormire in una locanda, per i primi mesi, e poi ad imbarcarmi. Avrei navigato per tutti gli oceani e viste infinite albe e tramonti sparire oltre l’orizzonte del mare. Sai, l’acqua diventa d’oro e di fuoco quando il sole va giù.
«Volevo vedere le onde infrangersi contro la luna che sorge e frantumarne l’argento con la mia nave. Avrei fatto il bagno a mezzanotte e mi sarei invaghito di una ragazza con la pelle scura ed i capelli di platino. Sarei stato ammaliato da una sirena e l’avrei baciata, rubandole il cuore ed una lacrima. Avrei conquistato immensi tesori e poi sarei tornato indietro, ricco e coll’animo pieno di amore, ed avrei preso a nolo una carrozza per andare da quella ragazza che mi piaceva e le avrei donato una tiara con incastonate la lacrima e la piuma» il ragazzo ha uno sguardo sognante mentre ne parla; sembra quasi non rendersi più conto di me, quasi si stia ancora confessando con la sua stella sconosciuta «Parlavo e desideravo ma sapevo che non avrei mai vissuto avventure, eppure non ho mai smesso di sognare quella casetta in riva al mare, il vento caldo e salmastro che mi scompigliava i capelli mentre scendevo dalla barca, puzzolente di pesce e sudore, e tornavo a casa dai miei figli. Ne avrei avuti tre» conclude, voltandosi verso di me che, senza sapere perché, mi sento come se avessi fatto irruzione nella sua casa urlando a gran voce; sono fuori posto, i sentimenti non sono il mio campo.
Non chiedo perché abbia parlato con quella nostalgia nella voce, né perché non abbia lasciato spazio alle speranze. Mi limito ad annuire, facendo finta di non aver visto quella goccia salata abbandonare il lago in tempesta dei suoi occhi.
«Anche da casa mia si vedevano le stelle, ma non ci ho mai parlato» dico, tentando di fare un’alzata di spalle ed ottenendo solo di riaprire un poco qualche ferita, mentre onde di dolore mi mordono, voraci.
«E com’è il mare?» domando di getto, tentando di risollevarlo.
«Come una vergine: timido, caldo ed avvolgente. Come un mastino: feroce e senza perdono. Come una nuvola: mutevole. Per questo mi piace.»
Cerco qualcosa da rispondergli ma non trovo la forza. Mi limito a stendere le labbra in quello che somiglia ad un sorriso. Qualcosa di caldo scivola lungo il fianco, gocciola sul tavolo; non voglio abbassare la testa e scoprire cos’è: di qui a poco non avrà importanza.
Fuori dalla trincea il sole è già sorto, ma qui sotto è ancora notte. Mi piace la notte, è confortevole: non uccido, di notte, se non in sogno; ma i sogni non fanno del male a nessuno, per quanto violenti siano per me.
D’improvviso mi sollevo: sento qualcosa, un intorpidimento alle gambe, un calore freddo che scivola lungo la schiena diffondendo una pace afona, priva di dolori ed odori. Ho paura e d’istinto mi volto verso il mio compagno, che mi poggia una mano alla nuca e poi mi attira a se, ferocemente: mi stringe fra le braccia e, se potessi ancora sentire dolore, mi farebbe male.
Non ci sono più sensazioni in me, ora: mi accascio, la coscienza che va ad intermittenza, e cerco qualcosa da dire, un’ancora di salvezza.
«Non è niente, fratello.  Niente. È come galleggiare su un lago tranquillo, come… prendere una nave» mi sussurra nell’orecchio.
«Una…» gorgoglio, tossendo parole e saliva. Lui non vi bada, mi stringe forte come se questo potesse bastare, come se me lo meritassi. È un onore che molti non hanno ricevuto, che forse lui stesso non avrà, eppure me lo riserva e gli sarò grato in eterno per questo.
«Una nave, esatto»
«E do… dove…» tossisco, battendo le palpebre. Voglio metterlo a fuoco, riprendermi quel tanto che basta per dirgli che gli sono grato, che mi dispiace.
«È come in quella tua vecchia storia. Segue il canto delle sirene ed il volo del Roc» mi confida, ed il mio cuore è felice. Mi ascoltava, penso.
«…dove porta?» domando con il mio ultimo filo di voce. Vorrei stringerlo ma ormai sono già lontano, trascinato da una corrente alla deriva.
«Dicono che porti via lontano, al di là del mare»

 
 



Riporto qui il giudizio, segnalando che ho già provveduto ad apportare le modifiche annotate, tutte eccetto quella del punto alla fine delle frasi di dialogo: è più forte di me e, per quanto non sia formalmente corretto, detesto vederlo. A mio parere le virgolette di per sé già chiudono un dialogo, quindi non ho inserito i punti :)
 
 
6° POSTO: Dicono che porti via lontano, al di là del mare – Releeshahn 46.275 


 
GIUDIZIO DI MEDUSANOIR: 

Grammatica e punteggiatura: 7/10 
Forma e stile: 9.3/10 
Originalità: 8.5/10 
Caratterizzazione: 10/10 
Gradimento personale: 9.5/10 

Totale: 44.3/50 

Il protagonista non si descrive (perché dovrebbe? In fondo si conosce): con questa “introduzione”, non potevo che aspettarmi un capolavoro. E lo è stato, è veramente un capolavoro nel genere di letteratura “di guerra”, un piccolo racconto che reca in sé i sentimenti e le emozioni provati dal protagonista (questo protagonista senza nome, tanto lui lo sa!), la descrizione della prima vittima, il ricordo della famiglia e infine la morte, tutto raccolto qui. 
Pecca un po’ di “mancanza di originalità”, purtroppo, proprio per la descrizione di tutto quello che ho elencato prima, per le ultime parole del soldato, per i sogni del suo compagno. E questo mi dispiace veramente, ma mai quanto mi dispiaccia per la grammatica. 
Ti ho tolto in totale 1.20 punti solo per la mancanza di tre accenti (due “si” e un “la” nella citazione finale; ho lasciato perdere il titolo); sono molti punti, ma non ho potuto fare altrimenti, avendo adottato i criteri di valutazione che ho prima spiegato. Altri punti importanti ti sono stati tolti per la mancanza di spazio prima e dopo i trattini (sia che vengano usati per gli incisi sia per i dialoghi, va sempre lo spazio prima e dopo; stessa cosa per i caporali nei dialoghi) e per quella di punti fermi al termine (e prima che riprenda) di un dialogo: è giusto nel caso di “«Posso?» mi chiede”, in quanto il verbo specifica la frase appena detta, ma non nel caso di “«Mai?» il ragazzo solleva”. Altri errori sono di distrazione (“non era in gradi”, “di un’amina”, “due , tre”, “a trecento metri a qui”, “diaspiace”); c’è inoltre un “accumunati” e uno spazio dopo l’apostrofo in “un’ alzata”. Per quanto riguarda la punteggiatura, ti segnalo solo i punti e virgola dove sarebbero dovuti andare i due punti (“come quello della trincea; odore” e “Come una vergine; timido”). 
Mi ha segnalato lo stile, mi hai detto che ci sarebbero potute essere delle imprecisioni; trovo invece che lo stile sia sensazionale, avvolge il lettore tra il fumo della guerra, facendogli quasi provare quello che prova il soldato. Le parole stesse sono ricercate, non mi sembra di trovare imprecisioni. Sì, ti ho segnato qualcosa, sia nella grammatica che nello stile, ma si tratta di errori non credo voluti (lo spazio tra i trattini, gli errori di distrazione, la punteggiatura: il soldato sta pensando, non scrivendo, e non potrebbe fare certi errori). Sono veramente partita dal massimo con questa storia, togliendo poi punti dal 10 pieno per i motivi che poi ti spiegherò, ma lo stile qui, che abbia delle imprecisioni o meno, è evocativo al massimo. Ti ho tolto punti, dicevo, per l’insistenza di incisivi nella prima parte e per alcune ripetizioni (“medicina/medici”, “cuore/cuore”, “qui/qui”).
Altri complimenti scaturiscono dalla caratterizzazione che hai dato ai personaggi: potrei partire evidenziando il comportamento del soldato dopo avere fatto la prima vittima, o i ricordi della famiglia, o ancora il modo in cui cerca di parlare per non concentrarsi sul dolore; potrei, ma scelgo invece di sottolineare il comportamento dell’altro soldato, che non è un amico, ma forse ha visto morire un amico o forse sa solo che quella sarà anche la sua fine, e allora si avvicina al compagno, senza conoscerlo, cerca di curarlo e poi di confortarlo. Non c’è caratterizzazione più giusta. 


GIUDIZIO DI DARKAERIS: 

Totale: 48.25 
Grammatica e punteggiatura:9.1 /10 

un sussulto di un’amina che ne ha viste troppe 
Svista: anima. -0.05 

«Già. Mentre tu vieni dalle pianure» è un’affermazione 
Questo è solo un esempio. Per quanto tu abbia specificato che a parlare siano soldati, quindi personaggi dotati di scarsa capacità oratoria, trovo comunque fondamentale inserire il punto dopo ogni loro frase. -0.50 

che non mi stia ascoltano; 
Svista: “ascoltando”. -0.05 

Sarei stato ammaliato da una sirena e l’avrei baciata, rubandole il cuore ed una lacrima. Avrei conquistato immensi tesori e poi sarei tornato indietro, ricco e col cuore pieno di amore, 
Ripetizione -0.15 

al di la del mare 
Al di là -0.15 

Forma e stile: 9.6/10 

Trovo che, apparte gli errori annotati precedentemente, il tuo stile sia assolutamente impeccabile. Hai un ottimo lessico, che contrasta con quanto da te asserito nelle note (se questo per te è un linguaggio semplice, sono curiosa di leggere qualcosa di più elaborato)! Riesci a rendere evocativa ogni frase, alternando immagini poetiche a forti richiami di morte. Davvero perfetto. 

Originalità: 8/10 

A livello strettamente connesso di “originalità”, non posso darti un punteggio troppo alto, perché la trama richiama quella di altri migliaia di scritti e film con la tematica della guerra. Anche il dialogo finale era facilmente prevedibile, seppure davvero meraviglioso. 
Avendo scelto questo tema, difficilmente avresti potuto creare qualcosa di nuovo e infatti così non è stato, sebbene il risultato sia comunque d'effetto. 

Caratterizzazione: 10/10 

Niente da ridire, invece, sui personaggi, in particolar modo sul protagonista, che incarna la perfetta inmmagine del soldato giovane, che non ha particolare attitudine ad uccidere, ma che si ritrova a farlo e ne è nauseato, sebbene ormai ci si sia quasi amaramente abituato. Alcune frasi mi hanno ricordato proprio dei film di guerra (“Routine, solida, confortante routine”, ad esempio, mi ha ricordato quando – in Avatar – il protagonista esordisce, dicendo: “Non c'è niente di meglio delle istruzioni di sicurezza vecchio stile per tranquillizzarti un po'”), ma queste sono miei follie da patita del cinema XD 

Gradimento personale: 9.8/10 

La tua storia mi è piaciuta moltissimo, sia per la capacità meravigliosa di rendere in parole pure e definite immagini, sia per l'accurata descrizione dei personaggi, ma soprattutto per il realismo – terribile e amaro – che sei riuscita a creare. 
Sono rimasta rapita dalla tua narrazione e ti faccio davvero i complimenti per questo lavoro, che – per quanto sentito – mi ha trasmesso davvero tanto.
  
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