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Autore: Sylphs    15/01/2012    4 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La cappella dell’Angelo della Musica
 

 
 
 
 
Antoine Baptiste Rappenau sedeva stravaccato su una montagna di cuscini dai colori sgargianti e portava alla bocca, pigramente, il beccuccio del narghilè caricato ad erba rilassante sistemato accanto alla sua persona, aspirando profonde boccate e buttando fuori dense nuvole di fumo biancastro che gli nascondevano il volto in una cortina appannata. Il locale in cui si era recato era pervaso da una calura quasi insopportabile ed egli era in maniche di camicia e brache di velluto, i piedi nudi che riposavano su un divanetto persiano di grossolana fattura. Drappeggi variopinti decoravano le pareti spoglie e sudicie, liquori dai nomi esotici e dal sapore atroce circolavano tra i gruppetti raccolti in vari angoli della sala e l’aria era pregna di un pungente odore di muschio e di oppio. Fanciulle dalla pelle scura e dagli abiti che lasciavano poco spazio all’immaginazione danzavano al ritmo di tamburi e di sitar e lanciavano sguardi provocanti agli ospiti, ancora poco numerosi a quell’ora del pomeriggio.
Il giovane Marchesino era in compagnia di due amici della sua stessa età, anche loro figli di famiglie nobili e annoiati dalla loro vita di agi e di comodità, sistemati ai suoi lati come se egli fosse il capo della cricca e loro due semplici sottoposti bramosi di non rubargli la scena. Erano assidui frequentatori di quel luogo d’infamia (sebbene lo tenessero accuratamente nascosto) e Rashid, il proprietario, li aveva accolti con un abbraccio confidenziale e una battuta sgradevole, lieto di rivedere clienti che non si facevano il minimo problema a spendere i loro averi in droga, alcol e prostitute. Solitamente, Antoine considerava quelle visite un piacevole diversivo dall’andamento monotono delle sue giornate ed era gradevolmente lusingato dalla gioia che Aysha, la più giovane e bella tra le ragazze di Rashid, mostrava ogni volta che entrava nel locale. Fare l’amore con lei era un piacere lento e sensuale che si concedeva in abbondanza, lasciandole quasi sempre una piccola mancia extra: la fanciulla sedicenne era disponibile a qualsiasi tipo di pratica, ma la eseguiva con una dolcezza, un candore che ne occultava totalmente i risvolti volgari. Era l’unica tra quelle sgualdrine a sembrare ancora pura, ancora innocente e intoccata dalla miseria in cui viveva, e per questo Antoine la prediligeva.
Ma quel pomeriggio, con suprema irritazione, non riusciva a ritrovare il piacere in cui tante volte si era crogiolato. L’oppio che aspirava dal narghilè era della stessa qualità di quello degli anni passati, importato direttamente dalla Persia (Rashid glielo aveva assicurato), ma ai suoi polmoni risultava troppo leggero, troppo tenue, troppo poco intenso per dargli lo stordimento che ricercava. Perfino Aysha, accoccolata con la testa di lunghi capelli bruni appoggiata sulle sue ginocchia e le gambe nude sensualmente accavallate, non era più in grado di accendergli il sangue come le altre volte. La vicinanza del suo esile corpo bruno e flessuoso, dei suoi seni piccoli e sodi e dei suoi fianchi da danzatrice non scatenava in lui alcuna reazione, anzi, lo irritava quasi. Avrebbe voluto spingerla lontano da sé con violenza, scagliare dall’altro lato della sala l’inutile narghilè e andarsene come una furia.
Me nemmeno all’esterno il fuoco bruciante dell’umiliazione gli avrebbe dato pace.
“Come ha potuto fare una cosa del genere?” parlò con voce bassa e tetra, i biondi capelli sudati che aderivano all’ovale perfetto del suo viso e gli occhi appannati dalla droga che luccicavano pericolosamente nella penombra del locale, rischiarata soltanto da alcuni lumini colorati sistemati sul soffitto: “Come ha potuto rifiutarmi?”
Uno dei suoi due amici, un giovanotto bruno e prestante di nome Pierre, batté le palpebre per vederlo meglio attraverso la cortina di fumo e si sforzò di raccogliere le idee per articolare una risposta che avesse un senso: “Che cosa ti importa, Antoine? Di sceme come lei puoi trovarne cento”.
L’altro, rosso di capelli e noto come il Contino Claude Lourdelle, era troppo preso dalla prostituta che aveva scelto, una formosa dal corpo voluttuoso e dalle labbra ingombranti, per star dietro alla conversazione.
Antoine strinse le labbra, serrando il tubetto del narghilè in una morsa talmente tenace da farlo scricchiolare: “Non aveva alcuna ragione di rifiutarmi!” sibilò, ancora più astioso del normale sotto l’effetto della potente droga che stava assumendo. Ammettere l’onta che gli era stata fatta il giorno prima davanti ai compagni che conosceva dall’infanzia era stato ai limiti dell’impossibile, e le parole erano venute fuori a fatica, intrise di rabbia e di sconcerto.
Non riusciva a smettere di pensare a quella maledetta Vivian Carré, a quella miserabile stracciona dalle origini infamanti che aveva osato, nella sua immensa boria, nella sua dannata vanità, opporre un rifiuto alle sue avances. Com’era possibile che una ragazza povera e senza protezione, una ragazza che nessun uomo di una certa levatura sociale avrebbe mai sposato, potesse dire di no alla proposta fattale dal Marchesino Rappenau in persona? Com’era possibile che quella creatura affascinante, sì, ma perfettamente nell’ordinario, si fosse negata ad un uomo avvenente, generoso e popolare quale lui era? Le aveva messo gli occhi addosso fin da subito, certo che non si sarebbe fatta pregare proprio come le altre sue conquiste, e l’atteggiamento risoluto e freddo di lei l’aveva trafitto come un pugnale di ghiaccio, un pugnale che aveva penetrato la scorza della sua indistruttibile sicurezza e gli aveva raggiunto il cuore, tramutandogli il sangue in acqua gelida.
Ma avrebbe anche potuto sopportarlo, questo. Avrebbe anche potuto dimenticare la vergogna del rifiuto, per annegarla nelle grazie di una fanciulla più assennata di lei. Se solo quella strega, quella meretrice di Satana, non l’avesse incantato.
Perché di un incanto si trattava, ormai non aveva più dubbi al riguardo.
Era perseguitato dall’immagine di lei. Gli appariva dinnanzi agli occhi dell’anima nei momenti più impensati e nelle situazioni più disparate, distogliendolo dalle sue occupazioni e facendolo precipitare in un torbido delirio erotico da cui usciva con fatica estrema, strappandosi in uno sforzo disperato alle sue ardenti spire, e scivolava languida e pericolosa nelle sue arterie stregate, facendole ribollire di lussuria sfrenata e di insoddisfazione cieca. Ogni volta che apriva un libro per distrarsi dall’ossessione, lei emergeva dalle pagine con i riccioli neri sparsi sulle spalle e i grandi occhi bruni che gli ammiccavano con malevola astuzia e danzava tra le righe, annebbiandogli la mente. Quando discorreva con qualcuno e tentava di concentrarsi sulle sue risposte, dietro di lui la vedeva incombere come un’ombra onnipresente, rivestita dell’abito rosso e tentatore che indossava l’ultima volta che si erano incontrati e intenta a ridere di lui e del suo dramma. Nel sonno arrivava a tormentarlo con falsa accondiscendenza, abbandonandosi tra le sue braccia bramose e permettendogli di toccarla finché, proprio sul più bello, la veglia non la faceva svanire come un’illusione di cristallo frantumata dal pugno crudele della realtà. Era con lui in ogni momento, in ogni situazione, bellissima eppure così terribilmente lontana e irraggiungibile, e il giovane fremeva di un violento parossismo di lascivia ogni volta che rammentava l’unico episodio in cui era riuscito a toccarla, la sera del “Re degli Elfi”, quando l’aveva stretta a sé per pochi istanti prima che lei si divincolasse crudelmente, spietata come solo una strega poteva essere.
Lui, che aveva posseduto decine di fanciulle, che le aveva abbandonate senza il minimo scrupolo e che mai aveva permesso loro di esercitare qualsiasi forma di controllo sulla sua persona, adesso era ridotto ad un patetico animale in calore che inseguiva l’oggetto del suo desiderio con le fauci sbavanti e l’occhio infiammato, facendosi distanziare facilmente da esso che lo beffava divertito, lasciandolo a macerare.
Era insopportabile. E non aveva neanche senso. Pierre aveva ragione, di fanciulle come Vivian avrebbe potuto averne a bizzeffe. Per quanto graziosa, la ragazza non era certo avvenente come tante sue coetanee, ma c’era qualcosa, in lei, un fuoco interiore, una forza che lo avvinceva totalmente, che lo incatenava in un viluppo di erotiche fantasticherie e che si serrava sul suo cuore con maggior forza ogni giorno che passava. Era fiera e indomabile come una tigre, schiva e ostile come una lupa, e l’idea di soffocare il suo ardore, di far suo quell’essere tanto sdegnoso e scostante, assaporandone l’arrendevolezza e l’impotenza, lo faceva impazzire. Resistere ad un tale maleficio, ad una fattura così ben eseguita era impossibile perfino per una personalità forte come la sua. La odiava per ciò che gli aveva fatto, al punto che sarebbe stato capace di ucciderla e di eliminare così il controllo che aveva su di lui, ma allo stesso tempo la desiderava come un disperato, e sarebbe stato pronto a concederle tutto ciò che voleva, qualsiasi genere di ricchezza o favore, purché gli si donasse.
Il che era inammissibile da parte sua. Non sarebbe caduto così in basso, non si sarebbe fatto spogliare dei suoi averi da una strega com’era accaduto a tanti aristocratici attempati invaghitisi di giovani ballerine da avanspettacolo e altezzose prostitute di alto borgo. Non lui, il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau, erede di una fortuna che avrebbe fatto invidia alle più alte autorità parigine e destinato ad un futuro glorioso e dorato. Se c’era una cosa che non era disposto a cedere, era la sua inossidabile reputazione: tutti, nei salotti della buona società, erano d’accordo nel ritenere che il giovane si sarebbe dimostrato un degno erede di suo padre e che avrebbe amministrato con saggezza e senso pratico i suoi possedimenti, comportandosi come ci si aspettava dal Marchese Rappenau.
Cosa avrebbe pensato l’attuale detentore di quel titolo, l’insuperabile Jean Roland Rappenau, della sua vergognosa ossessione erotica? Antoine non osava nemmeno pensarlo. Sapeva perfettamente che anche suo padre non era alieno ai piaceri della carne e alle scorribande trasgressive (era anch’egli cliente di Rashid, sebbene utilizzasse un nome falso, e non era raro che si trovasse un’amante, anche tra le mogli dei suoi parigrado) ma era sempre stato estremamente attento a che la sua vita privata e la sua vita lavorativa non si toccassero, e aveva mantenuto pura e immacolata la sua immagine. In pubblico mostrava di amare sinceramente la Marchesa Angelique, che nella sicurezza domestica ignorava completamente, ed era considerato un padre attento e un marito invidiabile. Il figlio l’aveva sempre visto come un modello da emulare in tutto, e avrebbe desiderato, in quel momento di tribolazione, chiedergli consiglio riguardo al suo problema, ma avevano un rapporto troppo freddo e distante perché potesse trovare il coraggio di affrontare una questione tanto personale.
“Suvvia, Antoine!” con un sorriso dolce e giocoso, Aysha gli scostò una ciocca di capelli dal viso fiero e arrogante e giocherellò con i bottoni della sua camicia, premendo il seno duro e voglioso contro i muscoli del suo torace: “Smettila di rimuginare sui cattivi pensieri. Manchi per così tanto tempo e non approfittiamo nemmeno di questa occasione? Come mai non mi hai portato un regalo come le altre volte?” sporse in fuori il labbro inferiore in una smorfietta di fastidio, ma il tono scherzoso sminuiva il significato delle sue lagnanze.
Era soltanto una maniera innocente di civettare con lui, ma Antoine si inacidì, e non gli era mai capitato in sua presenza. La fanciulla aveva una vocetta acuta e fastidiosa simile al cinguettio insistente di un uccello molesto e un corpo ingombrante e frettoloso, che si appiccicava al suo con insistenza. Il suo odore, un misto di sudore, muschio, tabacco e alito da bevitrice, gli giunse alle narici in un’ondata rivoltante e gli venne istintivo irrigidirsi, tormentato da una rabbia e da un’insoddisfazione che non la smettevano mai di cingere d’assedio la sua mente. Perfino con una ragazza desiderabile come Aysha, nei suoi pensieri c’era solo lei, Vivian, la sua pelle olivastra e invitante, il suo morbido seno stretto nel corpetto, le sue lunghe gambe slanciate e allenate.
La prostituta attese invano una qualche reazione, poi sospirò, gli si fece più vicina e spostò la manina delicata dal petto al cavallo dei pantaloni, con quei suoi movimenti candidi, naturali e infantili che un tempo lui aveva sempre trovato eccitanti, ma che adesso si scopriva a detestare: “Posso distrarti io se vuoi…”
Antoine ebbe uno scatto di rabbia e la respinse da sé con uno strattone, gettandola tra i cuscini come un sacco di patate: “Non toccarmi!” senza volerlo gli uscì un ruggito furibondo, e per una breve manciata di secondi i suoi amici e parecchi dei clienti vicino a loro lo osservarono con stupore, immobilizzati nelle loro indecenti posizioni. Poi, troppo indaffarati per continuare a spiare, tornarono ognuno al suo narghilè, alla sua ragazza, al suo boccale di liquore.
Aysha si raddrizzò a fatica, massaggiandosi il braccio. Doveva averle fatto male. Alzò su di lui due occhi addolorati e pieni di lacrime: “Ma che ti prende?!”
Antoine distolse rabbiosamente il viso. Non si pentiva di ciò che aveva fatto, non provava tenerezza per la ragazza prona ai suoi piedi come un fiore calpestato, anzi, era ancor più frustrato di prima, ancor più cieco di un desiderio che, ora se ne rendeva conto, non avrebbe potuto sfogare su di lei, né su nessun’altra. Frugò nelle tasche dei calzoni, trovando improvvisamente insopportabile la calura del locale e il penetrante odore di droga che lo intontiva e gli contaminava i polmoni, e ne trasse alcune monete che gettò con disprezzo contro la fanciulla, la quale si protesse col braccio come se temesse d’essere colpita.
Il giovane si rivolse agli amici senza degnarla più di uno sguardo: “Me ne vado. Questo posto non è più come una volta”.
Afferrò la giacca che aveva gettato su un divanetto, non aspettando la loro risposta, e si avviò all’uscita infilando le braccia nelle maniche, il petto che si alzava e abbassava ad un ritmo frenetico e negli occhi uno sguardo fosco, disperato e smanioso. Udì i deboli singhiozzi di Aysha dietro di sé e le esclamazioni stupefatte di Pierre e Claude e li eliminò dalla mente come avrebbe eliminato un tarlo fastidioso che lo rodeva dall’interno.
Ma c’era un tarlo che non se ne sarebbe mai andato tanto facilmente. Perfino quando uscì nella neve gelida e il freddo gli rischiarò un poco le idee, Vivian danzava provocante nella sua anima vinta, di cui aveva fatto il suo giaciglio e il suo maniero, e scuoteva la testa con falso rammarico, irridendolo per il suo tentativo fallito.
Strinse i pugni così forte che le unghie affondarono nella carne. Non poteva continuare così. Doveva liberarsi dal maleficio della strega, e in minor tempo possibile. Forse, se avesse sentito davvero il sapore di quelle labbra su cui tanto disperatamente si arrovellava, se avesse posato le mani formicolanti su quel morbido seno, la sua ossessione sarebbe cessata e, consumandola, se ne sarebbe liberato per sempre. Forse, per smettere di desiderare quel piatto di delizie irraggiungibili, avrebbe dovuto avventarsi su di esso e divorarlo fino all’ultimo brandello.
La sola idea gli fece girare la testa. Sì! Ecco, infine, la soluzione, il semplice stratagemma che per qualche futile motivo la sua mente aveva ignorato! Affamato com’era di Vivian, solo gustandola si sarebbe finalmente saziato!
Rise sguaiatamente nel vento gelido, una risata sconclusionata e felice. Quanta sofferenza vana, quanti problemi inesistenti. E la chiave ce l’aveva a portata di mano!
Sollevato nell’animo da quel fardello malefico, si avviò di buon passo nell’unico luogo in cui sperava di trovarla.
 
Vivian era rimasta per gran parte di quella giornata in uno stato di istupidito torpore. Qualsiasi cosa le dicessero, non la udiva, e a ogni domanda che le veniva posta rispondeva con uno sguardo perso e disorientato, simile a quello d’una bambina che non comprende del tutto il senso di un discorso da adulti. Quando era rinvenuta dallo svenimento causatole dal colpo alla testa vibrato dal terribile Fantasma dell’Opera, quando s’era ritrovata distesa su una panca nella solitudine dei camerini vuoti, avvolta in un drappo che celava la sua biancheria intima rovinata, s’era alzata in piedi come un automa, i pensieri che turbinavano confusamente e l’animo troppo sopraffatto per fare i conti con ciò che le era avvenuto, ed era tornata a piedi fino a casa, dove si era fatta un lungo bagno caldo e aveva indossato abiti puliti, celando le macchie violacee sul collo con una sciarpa trovata nell’armadio. Aveva chiuso a chiave la porta della sua stanza, rifiutandosi di spiegare a Madame Lefevre il motivo del suo mostruoso ritardo e disdegnando la cena che la domestica le aveva portato su un vassoio, ed era rimasta per tutta la notte e per gran parte del giorno seguente sdraiata immobile sul letto, senza dormire, senza pensare, fissando un punto nell’oscurità con gli occhi spalancati e vacui.
La sua tutrice le aveva bussato al mattino per esortarla ad andare alla sua lezione, ma si era limitata ad affondare il volto tra i cuscini e a tapparsi le orecchie, così, dopo una lunga attesa, la donna era partita senza di lei e aveva pensato di dire che s’era sentita poco bene. Vivian aveva provato un piccolo sollievo, ma nulla di più. Il solo pensiero del cibo le dava la nausea e trovava faticosissimo scendere da quel letto, così aveva nuovamente rifiutato la colazione e non aveva provveduto alla propria toletta personale.
Gli avvenimenti della sera prima erano avvolti da una nebbia spessa e invalicabile, che la proteggeva dal loro tremendo calibro. Se cercava di ripensare all’accaduto, rammentava candele accese, un lago gelido e tenebroso, una scimmietta che suonava i piatti sorridendo e quella voce (quella voce!) che le sfiorava l’orecchio con parole di minaccia. Erano ricordi confusi, sensazioni, per di più, che non voleva approfondire. Però il Fantasma dell’Opera l’aveva risparmiata, e questa era una cosa che ancora doveva assorbire del tutto. Non era interessato, dunque, all’omicidio segreto e anonimo, ma ricercava una distruzione che fosse più plateale ed esteticamente gloriosa, un qualcosa che potesse appagarlo nel suo gusto per la pompa e il fasto. Il disastro del “Re degli Elfi” ne era la prova evidente. Egli voleva che tutto il genere umano si inchinasse di fronte al suo genio insuperabile, e ucciderla nella solitudine dei sotterranei, strangolandola con un laccio, probabilmente non avrebbe rappresentato ai suoi occhi una fatica degna della sua persona. Ecco perché l’aveva condotta fuori dai suoi domini senza farle del male.
Ma questo, forse, era persino più umiliante per lei. Il suo nemico, quell’uomo maledetto che si nascondeva dietro la sua falsa identità di fantasma, le aveva dimostrato, risparmiandola, che non la considerava affatto un’avversaria temibile, e che anzi, non voleva neanche prendersi la briga di eliminarla. La sua spedizione, la sua avventura pericolosa e intraprendente, era stato un fallimento sotto ogni punto di vista. Lui si era preso gioco di lei con la sua voce insinuante e le sue false minacce e le aveva aperto gli occhi su quanto folle fosse stata la sua idea.
Non sarebbe mai potuta tornare alla Dimora nel Lago, neppure volendolo (e per il momento non ci teneva affatto). Aveva compreso che un uomo del genere non lo si poteva ingannare.
“Dunque è così che finisce?” le parole erano cadute come macigni nel silenzio della stanza semibuia: “Terrorizzerà il teatro per l’eternità, seminando morte e distruzione, senza che nessuno trovi il coraggio di fermarlo?”
No. No, non sarebbe stato giusto. La vita di ogni essere umano, anche del più crudele e depravato, era un bene prezioso che non andava né rifiutato con il suicidio, né tolto con l’omicidio. Nessuno, nemmeno il più infelice della Terra, aveva il diritto di disporre della vita e della morte dei suoi simili. Suo padre, un uomo dalla pessima reputazione, un ubriacone, un buono a nulla, un cialtrone da marciapiede a malapena capace di mantenere la sua famiglia, era stato capace di crescerla con dei sani principi, l’aveva amata, era stato presente, aveva perfino tollerato i malumori della moglie. Chiunque aveva del buono dentro di sé, di questo era convinta. Eppure, nonostante questo, una notte di otto anni prima in una taverna di infimo ordine, aveva avuto un diverbio con un altro ubriaco e quello, munito di coltello, gli aveva vibrato un colpo all’addome che l’aveva portato a morire sputando il suo sangue. Se la ricordava perfettamente, quella tremenda agonia durata cinque ore, quei deliri privi di senso, quella faccia cadaverica e lucida di sudore, quel lezzo penetrante di sangue e di morte.
L’omicidio non le era sconosciuto, e ne conosceva alla perfezione l’orrore. Non era mai rifuggita a fronte di esso, non s’era evitata il suo terribile peso: all’epoca aveva solo dieci anni, e la morte per lei era ancora un mistero lontano e indefinito su cui non s’era mai soffermata con attenzione, ma era rimasta al capezzale paterno fino alla fine, trasportando fuori le bende sporche e tamponandogli il viso con pezzuole imbevute d’acqua, assumendosi un compito che la sua povera, debole madre, crollata svenuta non appena avevano trasportato in casa il marito moribondo, non aveva potuto portare a termine. Era stata presente, quando i respiri rantolanti e spezzati erano cessati, quando il sangue aveva smesso di colare e quando la luce si era spenta in quelle iridi dilatate come sotto la tremenda pressione di due dita che soffocavano lo stoppino di una candela. Aveva guardato la Morte in faccia e le era penetrata nell’animo.
E chi ne era portatore, chi si nominava ingiustamente suo messaggero, non poteva rimanere impunito.
La giovane s’alzò impetuosamente dal letto, colta da un’improvvisa e impellente voglia di uscire dall’atmosfera soffocante di quella stanza. Aveva bisogno di sentire il vento freddo tra i capelli, i fiocchi di neve sul viso e quella coltre candida che scricchiolava sotto i suoi stivali. Indossò rapidamente un abito color pesca, di fattura piuttosto semplice, e raccolse la capigliatura in una crocchia morbida annodata all’altezza della nuca. Non desiderava spiegare alla domestica dove si sarebbe recata e perché, così usò la porta sul retro e sgattaiolò furtivamente fuori dalla dimora di Madame Lefevre, nel gelo di quel tardo pomeriggio invernale.
Parigi scintillava nella luce violacea del crepuscolo dei suoi mille tetti d’ardesia e di mattoni, imbiancati dalla neve che cadeva dal cielo denso di nubi a profusione, e la Senna scorreva lungo i suoi argini con un rumore calmo e riposante, per metà ghiacciata e per metà libera dalla prigione invernale. In lontananza svettavano le torri bianche di Notre Dame e suonavano le campane del vespro. C’erano pochi passanti in giro per le strade, per lo più si trattava di artigiani e bottegai che, chiusi i loro negozi, si affrettavano nel caldo delle loro case.
Vivian si passò più volte la lingua sulle labbra per evitare che si screpolassero e si permise, mentre camminava lentamente nella direzione decisa dai suoi piedi, di indugiare con la mente sul ricordo del padre defunto. Lo faceva raramente, poiché non sopportava di crogiolarsi nel dolore, ma in quel momento sentì che aveva bisogno di indulgere in un poco di nostalgia.
Si ricordò di quando, ancora bambina e inconsapevole, attendeva ansiosamente la prima nevicata per poter partecipare insieme al padre ad un rito in uso tra loro fin dai suoi primi anni di vita. Uscivano nel cortile della loro casupola tenendosi per mano, lei che strillava eccitata alla vista del manto bianco che aveva ricoperto e purificato ogni cosa, e si fermavano esattamente al centro. Suo padre le strizzava l’occhio, contava un, due, tre e si buttavano tutti e due supini nella neve fresca, facendo l’angelo. Poi si allontanavano di qualche passo e ammiravano quelle due sagome alate stese vicine nella coltre spessa, una grande e massiccia, l’altra più piccola ed esile.
Era stato lui ad insegnarle a fabbricare i pupazzi di neve. Le aveva mostrato come formare la palla principale, facendola rotolare nella neve, e avevano lavorato entrambi di buona lena, lui dedicandosi al corpo, lei alla più semplice testa, incrociandosi e allontanandosi mentre si trascinavano dietro le loro incerte costruzioni. A fine inverno, il cortile era affollato di una fila di otto pupazzi di neve, di entrambi i sessi, poiché, come diceva suo padre, “nessuno doveva rimanere solo”.
E per il suo ottavo compleanno le aveva costruito, con le sue stesse mani, uno splendido slittino di legno chiaro, con la cordicella rossa (il suo colore preferito) e un piccolo fiocco per dargli un tocco femminile. L’avevano collaudato lo stesso giorno, arrampicandosi fin sulla vetta di una massiccia altura, ed erano andati giù ridendo come pazzi, lei davanti, lui dietro che la teneva ben stretta per i fianchi.
Quello era un lato di suo padre che le avrebbe fatto sempre compagnia, che l’avrebbe sempre sostenuta nei momenti difficili. L’altro lato, l’unico che gli altri gli avessero riconosciuto, era un qualcosa in cui era precipitato quasi senza volerlo, una spirale che l’aveva risucchiato a causa della sua insoddisfazione e della sua scarsa autostima, merito dell’eterna difficoltà che sempre aveva riscontrato nel trovarsi un impiego. Perché c’erano sere, e anche questi erano ricordi assai vividi, in cui spalancava la porta di casa nel cuore della notte, barcollante e intirizzito, con gli occhi iniettati di sangue, il viso alterato e l’alito puzzolente di whisky, e parlava con voce strascicata e gutturale, irritandosi per la minima cosa e gridando orrende bestemmie.
Era andata sempre peggio col passare degli anni, il suo vizio non aveva fatto altro che intensificarsi. Lei ne imputava la colpa a sua madre. Forse, se gli avesse dimostrato amore e fiducia, se l’avesse sostenuto nella sua battaglia contro il bere, si sarebbe salvato, sarebbe emerso da quella spirale e non sarebbe incappato nell’incidente mortale. Ma lei non aveva mai cercato di aiutarlo, non gli aveva mai fatto avvertire la propria vicinanza.
“Sei soltanto un poveraccio” gli diceva con disprezzo totale: “Un lurido buono a nulla che mi ha presa quando ero ancora giovane e ingenua e mi ha costretta a rinunciare alla mia carriera, per cosa? Per starmene qui a lavarti le calze e a badare a tua figlia! Non era questa la vita che volevo! Io volevo sfondare come cantante, andare ai balli e alle feste, indossare bei vestiti e conoscere l’alta società parigina. E che cosa ho avuto dal nostro matrimonio? La mia emicrania, il disonore per me e per i miei genitori e un marito che quasi ogni sera si fa bere il cervello dal suo boccale di whisky!”
Vivian aveva pensato, e pensava tuttora, che fosse stata lei a portare suo padre alla fine. Ma non glielo aveva mai detto. Ogni volta che aveva provato a parlarle, lei l’aveva sempre scacciata adducendo la scusa della sua eterna emicrania. Quando era morta, tossendo l’anima in un attacco particolarmente violento di febbre polmonare, aveva finto tristezza per dare agli abitanti di Annecy ciò che volevano, ma dentro di sé si era sentita sollevata.
Si arrestò nel riconoscere un luogo noto e sgranò impercettibilmente gli occhi, sorpresa. Dove l’avevano condotta i piedi, mentre si smarriva nel passato e in meste riflessioni? Ma al teatro dell’Opera, ovviamente. Si era ripromessa di stargli lontana per qualche giorno, dopo l’esperienza vissuta nei sotterranei, e invece il suo inconscio ve l’aveva ricondotta. Forse c’era un legame, tra lei e quell’edificio, un filo invisibile che l’attraeva ad esso. Forse era parte di lei, un pezzo che la completava, e non poteva farne a meno.
Entrava o no? Ma tanto ormai era arrivata, a che scopo girare i tacchi e tornare indietro? In fondo, se si fosse tenuta alla larga dal passaggio segreto che conduceva ai sotterranei, il Fantasma dell’Opera non avrebbe avuto motivo di importunarla.
Salì rapidamente la scala, sfregando le suole degli stivali imbottiti sul marmo per liberarle dalle zolle di neve rimaste appiccicate, e provò un fremito di piacere autentico quando il tepore che regnava all’interno del teatro le riscaldò i muscoli irrigiditi. Non era in vena d’incontrare Emma, Colette e le altre ragazze, che di sicuro stavano per uscire dai camerini e raggiungere l’atrio, così scelse un corridoio isolato che non s’apriva su nessuna stanza e lo percorse a passo rapido, slacciandosi il mantello di pelliccia che l’accaldava. Avvertiva una profonda brama di solitudine e di raccoglimento, e ricordava, adesso che era giunta all’Opera, di un’occasione in cui Emma le aveva mostrato una pianta del teatro e le aveva indicato i luoghi più importanti, confessandole d’essere particolarmente attratta dall’arte del tipografo e che non le era stato difficile più di tanto memorizzare l’ubicazione delle varie alee dell’edificio. In particolare si rammentava di una piccola cappella isolata di cui l’amica le aveva parlato, utilizzata un tempo dagli ospiti più devoti per pregare le anime dei defunti e trascorrere qualche momento di comunione con Dio.
Lei non si poteva definire una fervida credente e si recava a messa unicamente perché sarebbe stato disdicevole non farlo, ma l’idea di chiudersi in uno stanzino raccolto in quel magnifico teatro l’allettava, così si avviò nella direzione che le sembrava di aver appreso guardando la cartina di Emma.
Gli stucchi e le decorazioni che abbellivano l’ala più rinomata dell’Opera Populaire, l’unica che lei avesse visitato a fondo, lasciarono il posto ben presto a semplici corridoi di pietra dove il soffitto, le pareti e il pavimento non presentavano alcun tipo di ornamento. Perfino l’illuminazione, costituita da abbaglianti lampadari di cristallo e da deliziose lampade a muro di vetro colorato, adesso si riduceva ad una serie di lumini a gas che gettavano all’intorno un lucore fioco e malaticcio. Vivian rabbrividì, notando che il freddo aumentava, e constatò che quella era una sezione del teatro ormai scarsamente visitata, a giudicare dal suo stato di abbandono. Lo strato di polvere che ricopriva il pavimento era talmente spesso che le rimaneva attaccato alle calzature. Ricordava in maniera inquietante i sotterranei, e la giovane affrettò il passo, ansiosa di raggiungere la sua meta.
Finalmente, alla fine di uno di quegli angusti corridoi, apparve una modesta porta ad arco che si apriva su una ripida scala a chiocciola. Vivian la scese velocemente, sostenendosi al corrimano (un alone scuro le imbrattò la palma) e sbucò proprio nella cappella di cui le aveva parlato Emma, le cui dimensioni erano alquanto misere.
Era di pietra come il resto ed aveva forma circolare. Di fronte all’apertura da cui lei era entrata, saltava all’occhio una splendida vetrata con dipinto sopra un angelo dalle ampie ali, luminoso nella semioscurità come un faro nella notte. Al lato, invece, era posizionato un piccolo altare di legno scuro, accanto al quale erano fissate alcune candele spente, che avevano sparso cera sul pavimento. Come posto era decisamente tetro e poco ameno, e Vivian, da parte sua, non l’avrebbe mai usato per appellarsi al Signore. Ma per le sue intenzioni andava benissimo; nessuno l’avrebbe mai trovata lì dentro.
Camminò verso l’altare con lentezza, scostando dal proprio cammino una ragnatela che sembrava un drappo di finissima seta, e si chinò sull’inginocchiatoio in un gesto che le parve appropriato per un posto simile. Non le importava che la polvere e la sporcizia le lordassero il vestito, o che gli occhi dell’angelo sulla vetrata paressero fissarla. Esaminò l’oscillante fila di candele storte e consumate e si ammantò di quel buio, tramutandolo in una barriera che la tenesse al sicuro dai cattivi pensieri e dall’inquietudine che la tormentava ormai da un giorno, assaporandone l’abbraccio pastoso e la sensazione di oblio che dava entrandole in bocca, negli occhi e nelle orecchie.
“Se accendi una candela e reciti una preghiera per qualcuno di caro” le aveva detto Emma: “Si racconta che Dio la ascolti e ne tenga conto”.
Ma Vivian non credeva in Dio. Immaginava la morte come un lungo tunnel in cui si veniva inesorabilmente trascinati, al fine del quale ogni cosa, pensieri, emozioni e ricordi, svaniva in un ultimo bagliore, lasciando solo il nulla. Ed era così che si sentiva in quel momento: piacevolmente vuota e piena di aria pura e impalpabile. Chiuse gli occhi, per addensare quel torpore benevolo.
“Mademoiselle Carré?”
Un sussulto di spavento la strappò al suo raccoglimento. Si volse di scatto, assumendo, quasi senza volerlo, una posizione di difesa, e vide un’ombra scura ritta sulla soglia della cappella, con una torcia stretta nella mano destra e un paio di occhi che luccicavano nel buio come quelli di un felino. Un terrore soffocante, nero, implacabile le agguantò il cuore come una mano dotata di artigli e fu rapida ad alzarsi in piedi, indietreggiando da quell’inaspettato visitatore: “Chi sei?” chiese ad alta voce, con una nota di paura.
L’ombra fece un passo avanti ed uscì dalla coltre di oscurità in cui si era nascosta. Ora che la luce proveniente dalla vetrata dell’angelo la colpiva in pieno e che quella della torcia ne rivelava metà viso, la giovane riuscì a riconoscerlo, e un subitaneo sollievo giunse a lenire il terrore, mescolato però ad una sorta di sospettosa inquietudine: “Monsieur Rappenau? Che cosa ci fate qui?”
Il giovane piegò le fredde labbra altere in un sorriso sarcastico: “Potrei farvi la stessa domanda”.
Vivian arrossì, furiosa con lui per averla sorpresa in un momento tanto intimo, per aver turbato con la sua presenza ingombrante quella specie di serenità che credeva di aver raggiunto: “Come sapevate che mi trovavo qui?”
“Vi ho seguita, mademoiselle. Per combinazione mi ero recato anch’io all’Opera e vi ho vista mentre vi dirigevate in corridoi oscuri. Ho pensato che sarebbe stato assennato assicurarmi che steste bene”.
C’era qualcosa di strano, di diverso in lui, nel suo portamento. La sua giacca turchina, che in ogni occasione aveva sempre portato in maniera impeccabile, adesso era sbottonata e sbilenca e rivelava la camicia sotto, anche quella alquanto stropicciata. Il volto del Marchesino, illuminato obliquamente dalla luce della torcia, era pieno di zone d’ombra e aveva le guance rosse come per la febbre e gli occhi appannati e famelici, privi di lucidità. I folti capelli gli cadevano in ciocche arruffate sulla fronte ampia. Vivian conosceva bene quell’espressione, quella postura non completamente salda, l’aveva veduta molte volte in suo padre in uno dei suoi momenti peggiori: era chiaro indice di scarso controllo sulla propria mente, di stato alterato dal vino o da qualche altra diavoleria ammaliatrice.
Messa in allarme da una tale consapevolezza, cercò di ampliare le distanze tra sé e il giovane nobile arretrando fino alla vetrata luminosa e stringendo convulsamente la veste tra i pugni chiusi: “Desidero rimanere da sola, monsieur” disse in un soffio.
Lui non diede segno di aver compreso. Avanzò nella cappella con passi grevi, senza staccarle di dosso quello sguardo annebbiato, lucido e bramoso, simile a quello del leone che, nascosto nella macchia, scruta la gazzella un attimo prima di carpirla tra gli artigli, e si fece scivolare la giacca fuori dal busto, rimanendo in camicia malgrado il freddo intenso: “È ora di finirla, Vivian” pronunciò quelle parole con inquietante calma: “Questa pantomima è durata fin troppo”.
La ragazza venne percorsa da un brivido e premette la schiena contro la vetrata, girando tutt’intorno uno sguardo da animale braccato. Erano soli in un luogo isolato e lontano dalle alee principali del teatro, distanti da qualsiasi aiuto, e quel giovanotto che tanto freddamente aveva rifiutato pochi giorni prima adesso le incuteva un profondo terrore, un panico soffocante. Era andato subito al dunque, sotto l’effetto della sostanza che aveva assunto, e lei avvertiva la minaccia che emanava da lui, dal suo corpo scattante e muscoloso, dalla sua superiorità fisica. Perché era voluta andare in quella cappella?! Perché era sfuggita al Fantasma dell’Opera, per incappare adesso nelle mire del Marchesino Rappenau?
“Vi prego, monsieur” cercò disperatamente di imporsi un tono normale: “Non siete in voi”.
“Al contrario” ribatté lui con una risata da felino, continuando ad avvicinarsi al topo Vivian: “Non sono mai stato più in me di così. Vedi, Vivian, prima di incontrarti, io ero felice. Ma potrò tornarlo ben presto, se solo starai al tuo posto e mi darai ciò che ti chiedo”.
Un pallore mortale si diffuse sul viso della ragazza appiattita alla vetrata: “Io non…”
“Shh!” Antoine si portò un dito alle labbra con un sorriso complice, azzittendola, e le esplorò il corpo con uno sguardo torbido e fiammeggiante, fissandola con intensità tale che lei si sentì più a disagio che se fosse stata nuda: “Io ti voglio” nella voce del giovane si insinuò un grugnito animale e le dita della mano libera si strinsero a pugno: “Devo smetterla di desiderarti”.
Il cervello di Vivian lavorò freneticamente, cercando una via di uscita, un qualsiasi stratagemma che potesse difenderla dalla lussuria mortale del Marchesino bello come un angelo, ma diabolico come un demone. Lui allungò un braccio nella sua direzione e le sue viscere si tramutarono in un viluppo di serpi furiose, che si agitarono con foga in attesa del tocco…che non venne. La torcia che egli reggeva in mano le passò ad un soffio dal volto, tanto che ne avvertì il calore sulla pelle, e venne sistemata con gesti calmi e misurati in un gancio in ferro attaccato alla parete. Subito dopo, il giovane lasciò scorrere le dita affusolate della mano ora libera tra i rigogliosi riccioli scuri della ragazza, prendendole una ciocca e avvicinandola al naso per annusarne il profumo, e lei rimase assolutamente immobile, tremante, stagliata contro l’immagine di un angelo che non l’avrebbe mai protetta, gli occhi fissi in un punto alle spalle del suo assalitore, che sembrava deciso a rendere la sua sofferenza più lenta e sadica che poteva.
Con la propria presenza mascolina la costrinse in un angolo cieco, sempre molto pacato, e fece scivolare la mano che le aveva immerso tra i capelli fin sulla sua nuca, circondandole contemporaneamente la vita con l’altra e inchiodandola alla vetrata. Tenendola in questo modo, chinò il capo sull’incavo della sua spalla e le depositò un bacio ardente sul collo nudo, strappandole un brivido di terrore e raccapriccio. Con le labbra protese, disegnò una scia di baci che andava dalla giugulare fin sugli angoli della bocca e premette il torace contro al suo seno, facendo aderire completamente i loro corpi. Vivian era pallida, inerte, palpitante.
Ma quando Antoine posò la guancia contro la sua e si ritrovò vicinissima al suo orecchio destro, agì con l’imprevedibilità della tigre e glielo azzannò ferocemente. Lui ululò di dolore; la giovane insistette, affondando i denti in profondità nella carne morbida del lobo, avvertendo il sapore dolciastro e metallico del sangue e avvampando di sdegno, rabbia e umiliazione. Le braccia del giovane si sciolsero dal suo corpo e le due file di denti arrivarono a toccarsi. Si ritrasse con la bocca sporca del sangue di lui, sputando il lobo mozzato sul pavimento, e si lanciò in avanti con perdizione, diretta verso l’uscita della cappella, verso la salvezza, verso la libertà…
Una mano brutale la agguantò per i capelli e la sbatté con violenza dove stava prima, lasciandola senza fiato per il dolore. La vetrata dell’angelo andò in frantumi con un suono assordante, spargendole addosso una coltre iridescente di pezzi di vetro colorato, e una stilettata di sofferenza le avviluppò tutto il corpo, facendole gemere.
Antoine, la mano premuta contro l’orecchio sanguinante, l’espressione stravolta da una follia omicida, la fissò con odio e libidine: “Puttana!” gridò. Le afferrò lo scollo dell’abito e glielo lacerò con un colpo secco, mettendole a nudo il seno, poi la fece girare e strappò anche la parte che le rivestiva la schiena. Tramortita dal colpo che l’aveva portata a rompere la vetrata, Vivian gridò e tentò freneticamente di sollevare i lembi dell’indumento per coprirsi, ma lui era troppo forte, troppo avvantaggiato, e la sopraffaceva senza difficoltà, incombendo sopra di lei con quel viso orribilmente bello e con quel ghigno lascivo stampato sulle labbra.
Non s’arrese. Alzò su di lui le dita incurvate ad artiglio, cercando di graffiarlo sulle gote infiammate, e scalciò coi piedi in maniera convulsa, decisa a resistere fino alla morte, a non soggiacere a quell’orrore. Antoine le afferrò i polsi e glieli torse, schiacciandola sul freddo pavimento di pietra, ansimando come un mantice e soffiandole contro il suo alito denso e penetrante, e la tenne ferma con forza terribile, l’orecchio tagliato a metà che sgocciolava sangue sul suo seno ansante.
Vivian gli sputò un fiotto di saliva in faccia, poiché era incapace di muovere ogni altra parte del corpo. Antoine lanciò un’orrenda imprecazione e le fece sbattere violentemente la testa contro il pavimento.
Una manciata di stelle le esplose dinnanzi agli occhi, accecandola. I suoi sensi si spensero, cedendo a quel finale colpo.
Ma un attimo prima che la sua comprensione svanisse, vide, o le parve di vedere, una sagoma oscura che incombeva improvvisamente alle spalle del mostro che la violentava, terribile come un angelo vendicatore, e si chiese se in quel luogo, dopotutto, non ci fosse davvero qualcosa di sacro.
Poi le tenebre si chiusero su di lei una seconda volta.

 
  
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