L’aquila del mezzogiorno
L’aquila non può levarsi in volo dal piano
terra;
bisogna che saltelli faticosamente
su una roccia o su un tronco d’albero:
ma da lì si lancia nelle stelle.
Hoffman
Le strade di
Damasco non erano mai state talmente affollate come quel giorno: c’era il
mercato nel cuore della città, in cui si raccoglievano centinaia di formiche in
fremito movimento.
Dall’alto le
davano l’impressione di impotenza, al punto tale che sarebbe bastato un soffio
leggero di vento a distruggere quelle precarie bancarelle e a far volare via
tutti quegli uomini, donne e bambini. Si sistemò meglio al suo posto, sedendosi
a gambe incrociate sul tetto di una casa, e si guardò intorno con
circospezione, pronta a cogliere qualsiasi movimento. Balestra alla mano,
pugnali alla cintura, spada nel fodero: viaggiava sempre equipaggiata a quel
modo per le tranquille vie di Damasco, seguita dagli sguardi sorpresi e
spaventati dei suoi abitanti che non avevano mai visto una donna fra le
pattuglie dei Templari.
Almeno, non
una donna con il suo sguardo. Freddo, impassibile, carico di un odio profondo e
antico, ma che ardeva di fuoco proprio nei suoi occhi ambrati.
Lo sguardo
di qualcuno che aveva perso tutto, ma che non era disposto ad abbandonarsi alla
disperazione.
Con quegli
stessi occhi, ispezionava a fondo la sua postazione, senza tralasciare nessun
angolo. Quando volgeva lo sguardo verso i suoi compagni, si accorse che alcuni
di loro non ne potevano più di stare immobili ad aspettare qualcosa che non
sarebbe mai arrivato. Si muovevano nervosi, camminando a piccoli passi su e giù;
alcuni giocavano annoiati con le loro spade, altri sbadigliavano affamati e
stanchi per la lunga attesa.
Dopotutto,
non poteva certo biasimarli. Il sole di mezzogiorno picchiava alto nel cielo
privo di nubi e la fame cominciava a insorgere fra i suoi uomini: erano solo
dei principianti, non erano ancora pronti a sopportare lunghe ore di vedetta.
Provando
compassione per quegli uomini, li richiamò all’ordine, avvisandoli che potevano
abbandonare il loro posto per rifocillarsi. Lei sarebbe andata a chiamare
l’altra pattuglia per dare il cambio.
Sguardi
pieni di gratitudine la osservarono per pochi attimi, prima di dileguarsi
dietro le case e correre al più presto alla taverna più vicina. Rimase da sola,
decisa ad aspettare ancora un poco prima di dare il cambio, e intanto pensò a
quanto fossero ancora deboli e inesperti i novizi che le erano stati affidati.
Mentre era
immersa in questi pensieri, un soldato salì una scaletta e, vedendola, si
avvicinò con passo austero verso di lei.
“Fadwa, puoi abbandonare la tua postazione. Raggiungi i tuoi
compagni a terra, qui ti do io il cambio” disse con tono imperioso, deciso a
non farsi sottomettere da una donna.
Fadwa
non gli rivolse neppure uno sguardo. Si alzò dal suo posto, ignorando il tono
presuntuoso con il quale le aveva parlato, e saltò dal tetto, decisa a non
usare le scale come aveva fatto il suo compagno per dimostrargli la differenza
abissale fra loro due. Atterrò sulle gambe, sentendo una lieve fitta ai muscoli
ormai abituati, e camminò come se niente fosse in mezzo alla gente che era
intenta a osservarla interdetta e stranita.
Per la
strada incontrò più volte donne che le chiedevano l’elemosina insistentemente,
mercanti che tentavano di venderle una vecchia lampada ad olio con poteri
mistici, uomini anziani addormentati in mezzo alla strada, mezzi morti per la
fame e avvolti in sudici stracci. La miseria era visibile ovunque in quelle
strade e i Templari, che avevano il compito di proteggere e aiutare quelle
persone, non facevano nulla.
E lei si
comportava proprio come loro. Non che non le importasse davvero delle sorti di
quegli sciagurati, ma non poteva fare altrimenti: la maschera di freddezza che
si era costruita in questi dieci anni le serviva appunto per passare
impassibile fra di loro. Ogni sofferenza altrui la ignorava: le bastava già la
sua ad appesantirle l’animo e non voleva farsi carico di quella degli altri.
Eppure,
anche se pensava così, un moto di disprezzo verso i suoi abiti e di pietà verso
quelle persone le scuoteva l’animo, inducendola a mordersi le labbra per
calmarsi, fino a sentire il sapore acre del sangue.
Odiava la
sua indifferenza. Odiava gli abiti che sfoggiava in strada. Odiava che tutti la
guardassero con timore, come anche lei aveva fatto tempo addietro.
Ma più di
ogni altra cosa, odiava gli Assassini.
Quei cani
infedeli le avevano strappato via suo padre, la sua infanzia e la sua stessa
anima, costringendola a mostrarsi strisciante di fronte ai Templari e a
chiedere il loro aiuto, la loro protezione.
E l’aveva
avuta, ma a che scopo?
“Ma guarda, tu non sei la figlia di Issam? Asiya, se non sbaglio…”
La bambina non gli rispose, ma si ostinava a
tenere lo sguardo a terra, piegata e sottomessa. Roberto de Sable
sogghignò soddisfatto, avvicinandosi a grandi passi verso quel minuscolo
esserino che portava un enorme peso sulle spalle. Le sfiorò con una mano
inguantata la guancia pallida e sporca di sangue, senza però essere respinto.
Non osava ribellarsi, pensò subito l’uomo. E
allargò ancora di più il sorriso.
“Signore, mio padrone…” iniziò titubante Asiya.
Strinse a sé i panni macchiati di sangue che
teneva fra le mani e li porse all’uomo, senza alzare gli occhi.
Roberto prese gli abiti da Templare di Issam, gettando uno sguardo distratto all’enorme chiazza
rossa e concentrandosi piuttosto sulla bambina.
Sapeva cosa stava per dire.
“Signore, mio padre è morto…” singhiozzò Asiya, senza lasciar cadere alcuna lacrima.
“Sì, mi è giunta notizia. Mi dispiace molto”
disse indifferente, come se lei gli avesse detto che le era morto il cane.
“Avrei un desiderio che forse voi mi potreste
esaudire, nella vostra infinita clemenza…” continuò la bambina, stringendo
qualcosa nel pugno.
“Sì?”
“Io…”
“Per favore, qualcuno mi aiuti!”
La voce
della donna le arrivò straziante alle orecchie dall’altra parte della strada: a
separarle, solo un muro. Sicuramente aveva rubato di soppiatto a una
bancarella, spinta dalla fame, e alcuni soldati di passaggio l’avevano colta
nel fatto; oppure, la stavano solo violentando.
Le urla e le
risate dei soldati le davano fastidio, così affrettò ancora di più il passo,
decisa a non indugiare più davanti a niente. La donna strillava sempre più
forte: terrore e dolore erano palpabili nella sua voce.
Si morse le
labbra, strinse i pugni e pensò ad altro. Si estraniò dal mondo che la
circondava, come aveva imparato a fare nei suoi anni di addestramento, non solo
fisico, ma anche psicologico: niente poteva scuoterla.
Ad eccezione
forse solo una.
“Buon Dio,
cos’è successo qui?” gridò vicino a lei un passante spaventato.
Senza
essersene accorta, Fadwa si era ritrovata nel luogo
in cui era avvenuta l’ingiustizia, ma la scena che le si apriva davanti agli
occhi era ben diversa da quella che si aspettava.
I cadaveri
dei soldati giacevano inermi a terra in enormi pozze di sangue, sparpagliati
per la strada; la donna stava fuggendo via e intorno ai corpi si era creato uno
spazio vuoto. Tutti gli sguardi dei passanti si puntarono su di lei:
aspettavano che facesse qualcosa.
Fadwa
sospirò rassegnata, però scossa da una strana paura: chi aveva compiuto questo
massacro? L’assassino doveva essere ancora in circolazione.
“D’accordo,
tornate alle vostre occupazioni: qui non c’è niente da vedere! Andatevene!”
ordinò con sguardo duro, come se parlasse ai suoi sottoposti.
La gente,
spaventata perlopiù dal suo sguardo, eseguirono subito l’ordine e ritornarono
come se niente fosse alle loro faccende: in pochi secondi, il vociare intenso
si era zittito.
Fadwa
si inginocchiò vicino a uno dei corpi, esaminando la ferita: un taglio profondo
che trapassava il torace e arrivava fino alla gola. Chi lo aveva ucciso, doveva
essere un maestro della spada, o forse solo un fortunato.
Poi un lampo
improvviso le illuminò la mente, portando con sé l’istinto del predatore che si
attivava solo in determinate occasioni. Qui a Damasco solo poche persone erano
in grado di maneggiare la spada a quel modo: lei, Roberto de Sable – che però non veniva spesso qui – e un Assassino.
Scattò
immediatamente in piedi come una molla e si guardò intorno con sguardo feroce.
La preda doveva ancora essere nelle vicinanze.
In quel
momento, arrivarono altri soldati che prima osservarono lo scempio, poi lei,
come cercando risposte.
“C’è un
Assassino in circolazione. Trovatelo e portatelo da me: voglio essere io a
concedergli la pace eterna!” impartì l’ordine fredda, ma i suoi occhi tradivano
una bramosia di sangue quasi animalesca.
Da tempo
attendeva questo momento. Forse, se la fortuna era dalla sua parte, avrebbe
incontrato lui: il vero assassino di suo padre. Sapeva che
era ancora in vita. Ne era certa!
Uccidere
tutti quegli Assassini che le erano capitati davanti le serviva solo per attirarlo
da lei. E finalmente era venuto
Non le importava
se quelle vittime erano forse innocenti. Per lei erano tutti colpevoli.
I soldati
scattarono all’inseguimento di un nemico sconosciuto, smossi dal loro stupore
grazie alle parole di Fadwa.
Lei si
accinse a venire dietro a loro, quando un gruppo di eruditi le passò accanto,
immersi in qualche preghiera.
All’inizio
non ci fece molto caso, ma osservandoli con più attenzione si accorse che c’era
qualcosa che non andava. Qualcosa era
fuori posto, lì, in mezzo a loro.
Il gruppo la
superò, incurante dei cadaveri a terra.
Fadwa
rimase a guardarli andare via, intontita; poi finalmente capì cosa c’era di
strano. Era talmente ovvio che si diede della stupida.
Cosa ci fa un erudito con una spada e dei
pugnali?
Si gettò al
loro inseguimento, sicura delle sue idee e mossa da un furore antico. Il gruppo
non era più distante e proseguiva con passo lento e tranquillo, perennemente in
meditazione. Non le dispiacque di interrompere le loro preghiere.
“Assassino,
fermati! Assassino!” gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
L’effetto di
quelle parole fu immediato. Un erudito in
mezzo al gruppo si staccò e corse verso una bancarella, saltandoci sopra e
scomparendo fra i tetti. I passanti fecero ala, guardandosi intorno
disorientati e spaventati.
Era quello
con la spada. Aveva ragione.
Fadwa
imitò le gesta del suo bersaglio e salì sulla stessa bancarella, ricevendo le
imprecazioni adirate del mercante di anfore, con uno scatto felino si aggrappò
al tetto e saltò su. Cominciò a correre come mai aveva fatto, sentendo a ogni
falcata i polmoni sul punto di esploderle.
L’Assassino
era distante, ma lei era decisa a raggiungerlo. Entrambi saltarono da un tetto
all’altro con un’agilità sovrumana per lui che doveva essere impacciato dalla
tunica, per lei che era una donna.
L’addestramento
di dieci anni le era servito a qualcosa: sacrifici, dolori, lacrime represse…
Tutto questo solo per giungere al suo obbiettivo.
Asiya aprì il
pugno e gli mostrò una piuma sporca di sangue. Facendo ciò, alzò finalmente gli
occhi e lo guardò con folle rabbia: gli occhi di un bellissimo color ambra
erano vivi.
“Voglio vendicare mio padre. Voglio uccidere
tutti gli Assassini. E non mi chiami Asiya: il mio
nome è Fadwa”
La folle
corsa durò a lungo e nessuno dei due avversari diede segni di cedimento. La
distanza fra i due si riduceva sempre di più: solo un braccio li separava.
Fadwa,
spinta dall’euforia della vittoria vicina, estrasse la spada e l’alzò in aria,
pronta a lasciar cadere il fendente. Si gettò sulla preda, pregustando il
sangue che usciva a fiotti. Che però non vide.
Con una
mossa imprevedibile, l’Assassino scartò a destra e salì sopra una torre
cadente, intorno alla quale volava alta un’aquila. La spada si conficcò con
violenza a terra, lasciando Fadwa un attimo incapace
di agire. Guardò in alto e lo vide scalare l’altura.
Digrignò i
denti, lasciò la spada dov’era e imitò anche lei il suo obbiettivo. Con qualche
difficoltà dovuta alla sua goffaggine nel trovare punti di appoggio per le
gambe, Fadwa scalò la torre e arrivò fino in cima.
Lì c’era uno
spazio vuoto e una trave di legno sospesa nel vuoto. Su quella trave era
inginocchiato l’Assassino che le dava le spalle.
Fadwa
sentì la rabbia montare per l’indifferenza mostrata dal suo nemico, che faceva
come se lei non ci fosse. Si sentiva umiliata.
“Ehi, Assassino!”
gli urlò con disprezzo, prendendo uno dei pugnali dalla cintura.
L’uomo si
riscosse all’improvviso e si voltò verso di lei. Il volto era celato da un
cappuccio che copriva gli occhi, ma Fadwa riuscì
ugualmente a intravedere le labbra sottili, prive di alcun sorriso, con un
piccolo taglio. Gli occhi erano un mistero, ma poteva immaginare un debole
baluginio dietro quell’oscurità. Forse di vittoria, chissà.
Fadwa
ebbe un sussulto e il braccio con il pugnale tremò, senza lasciar andare il
colpo.
L’Assassino
se ne accorse e ne approfittò. Si alzò in piedi e, sorridendole crudelmente, si
gettò all’indietro nel vuoto, allargando le braccia come se stesse per volare.
Come un’aquila
che attraversava i cieli, in tutta la sua maestosità.
Fadwa
si riprese subito e si affacciò sulla trave, sentendo una lieve vertigine
impadronirsi di lei. L’Assassino uscì da un cumulo di fieno e, senza guardare
in alto, fuggì dalla sua visuale.
La rabbia
prese possesso della sua mente e urlò con tutto il fiato che le restava,
lasciando andare mille sentimenti che aveva represso da anni. Rabbia,
sconforto, paura, dolore. Tutto in quell’urlo.
Fadwa
continuò a gridare a lungo, perché si era lasciata sfuggire la sua unica
occasione di vendetta.
Perché, ne
era certa, era lui l’assassino di suo padre.
Era lui che
aveva perso la piuma insanguinata.
E sempre lui
le era di nuovo fuggito davanti agli occhi, senza che potesse fare nulla per
impedirlo.
Veloce,
aggraziato, letale.
Come
un’aquila che agguantava la preda e fuggiva vittoriosa.
Spazio dell’autrice:
in una sola
notte ho scritto ininterrottamente questo capitolo, adesso pronto per essere
postato: è un mio record! Spero però che sia venuto decentemente, visto che ero
stata colpita dall’ispirazione…
In questo
capitolo mi sono concentrata molto sugli occhi, perché li ritengo la parte più
importante del nostro essere: gli occhi sono lo specchio dell’anima e delle
nostre emozioni. Quindi, non fateci troppo caso se mi soffermerò molto spesso
sugli sguardi ^^”.
Vi lascio
con un quesito che mi tormenta: ma Altair, di che colore ce l’ha gli occhi?
Marroni o neri? Ho provato a guardare con attenzione, ma non riesco a capire
bene (dannato cappuccio!).
Ringrazio
per la recensione: Princess_Slytherin.
E sempre a
lei: mi dispiace, ma ancora non posso dire perché ha cambiato il nome… Abbia
pazienza XD.
Al prossimo
capitolo!