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Autore: Violet 95    16/01/2012    3 recensioni
Una figlia vede il padre morire davanti agli occhi e brama solo vendetta: vendetta contro gli Assassini. Una ragazza ormai donna, spinta dall'amore paterno, può forse essere chiamata traditrice?
"I miei occhi vedono ciò che gli altri ignorano. Le mie mani sono tinte del colore del sangue. Il mio corpo è piegato alla volontà dei potenti, e degli ingiusti, ma la mia anima è votata al sacrificio. Il mio nome è Fadwa ed ero una Templare, poi un'Assassina e infine una Traditrice. Non devi compiangermi per questo, Altair". Fin dove ti possono spingere alcune scelte? Quanto possono influenzare gli altri e te stesso?
Prima fan fiction su Assassin's Creed e penso con il titolo di aver detto tutto. Purtroppo non ho ancora finito il gioco, e se ci saranno degli errori, perdonatemi ma non ho saputo aspettare a iniziare questa storia... Vi auguro solo buona lettura!
Genere: Azione, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’aquila del mezzogiorno

 

 

L’aquila non può levarsi in volo dal piano terra;

bisogna che saltelli faticosamente

su una roccia o su un tronco d’albero:

ma da lì si lancia nelle stelle.

Hoffman

 

 

 

Le strade di Damasco non erano mai state talmente affollate come quel giorno: c’era il mercato nel cuore della città, in cui si raccoglievano centinaia di formiche in fremito movimento.

Dall’alto le davano l’impressione di impotenza, al punto tale che sarebbe bastato un soffio leggero di vento a distruggere quelle precarie bancarelle e a far volare via tutti quegli uomini, donne e bambini. Si sistemò meglio al suo posto, sedendosi a gambe incrociate sul tetto di una casa, e si guardò intorno con circospezione, pronta a cogliere qualsiasi movimento. Balestra alla mano, pugnali alla cintura, spada nel fodero: viaggiava sempre equipaggiata a quel modo per le tranquille vie di Damasco, seguita dagli sguardi sorpresi e spaventati dei suoi abitanti che non avevano mai visto una donna fra le pattuglie dei Templari.

Almeno, non una donna con il suo sguardo. Freddo, impassibile, carico di un odio profondo e antico, ma che ardeva di fuoco proprio nei suoi occhi ambrati.

Lo sguardo di qualcuno che aveva perso tutto, ma che non era disposto ad abbandonarsi alla disperazione.

Con quegli stessi occhi, ispezionava a fondo la sua postazione, senza tralasciare nessun angolo. Quando volgeva lo sguardo verso i suoi compagni, si accorse che alcuni di loro non ne potevano più di stare immobili ad aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Si muovevano nervosi, camminando a piccoli passi su e giù; alcuni giocavano annoiati con le loro spade, altri sbadigliavano affamati e stanchi per la lunga attesa.

Dopotutto, non poteva certo biasimarli. Il sole di mezzogiorno picchiava alto nel cielo privo di nubi e la fame cominciava a insorgere fra i suoi uomini: erano solo dei principianti, non erano ancora pronti a sopportare lunghe ore di vedetta.

Provando compassione per quegli uomini, li richiamò all’ordine, avvisandoli che potevano abbandonare il loro posto per rifocillarsi. Lei sarebbe andata a chiamare l’altra pattuglia per dare il cambio.

Sguardi pieni di gratitudine la osservarono per pochi attimi, prima di dileguarsi dietro le case e correre al più presto alla taverna più vicina. Rimase da sola, decisa ad aspettare ancora un poco prima di dare il cambio, e intanto pensò a quanto fossero ancora deboli e inesperti i novizi che le erano stati affidati.

Mentre era immersa in questi pensieri, un soldato salì una scaletta e, vedendola, si avvicinò con passo austero verso di lei.

 

Fadwa, puoi abbandonare la tua postazione. Raggiungi i tuoi compagni a terra, qui ti do io il cambio” disse con tono imperioso, deciso a non farsi sottomettere da una donna.

 

Fadwa non gli rivolse neppure uno sguardo. Si alzò dal suo posto, ignorando il tono presuntuoso con il quale le aveva parlato, e saltò dal tetto, decisa a non usare le scale come aveva fatto il suo compagno per dimostrargli la differenza abissale fra loro due. Atterrò sulle gambe, sentendo una lieve fitta ai muscoli ormai abituati, e camminò come se niente fosse in mezzo alla gente che era intenta a osservarla interdetta e stranita.

Per la strada incontrò più volte donne che le chiedevano l’elemosina insistentemente, mercanti che tentavano di venderle una vecchia lampada ad olio con poteri mistici, uomini anziani addormentati in mezzo alla strada, mezzi morti per la fame e avvolti in sudici stracci. La miseria era visibile ovunque in quelle strade e i Templari, che avevano il compito di proteggere e aiutare quelle persone, non facevano nulla.

E lei si comportava proprio come loro. Non che non le importasse davvero delle sorti di quegli sciagurati, ma non poteva fare altrimenti: la maschera di freddezza che si era costruita in questi dieci anni le serviva appunto per passare impassibile fra di loro. Ogni sofferenza altrui la ignorava: le bastava già la sua ad appesantirle l’animo e non voleva farsi carico di quella degli altri.

Eppure, anche se pensava così, un moto di disprezzo verso i suoi abiti e di pietà verso quelle persone le scuoteva l’animo, inducendola a mordersi le labbra per calmarsi, fino a sentire il sapore acre del sangue.

Odiava la sua indifferenza. Odiava gli abiti che sfoggiava in strada. Odiava che tutti la guardassero con timore, come anche lei aveva fatto tempo addietro.

Ma più di ogni altra cosa, odiava gli Assassini.

Quei cani infedeli le avevano strappato via suo padre, la sua infanzia e la sua stessa anima, costringendola a mostrarsi strisciante di fronte ai Templari e a chiedere il loro aiuto, la loro protezione.

E l’aveva avuta, ma a che scopo?

 

 

“Ma guarda, tu non sei la figlia di Issam? Asiya, se non sbaglio…”

 

La bambina non gli rispose, ma si ostinava a tenere lo sguardo a terra, piegata e sottomessa. Roberto de Sable sogghignò soddisfatto, avvicinandosi a grandi passi verso quel minuscolo esserino che portava un enorme peso sulle spalle. Le sfiorò con una mano inguantata la guancia pallida e sporca di sangue, senza però essere respinto.

Non osava ribellarsi, pensò subito l’uomo. E allargò ancora di più il sorriso.

 

“Signore, mio padrone…” iniziò titubante Asiya.

 

Strinse a sé i panni macchiati di sangue che teneva fra le mani e li porse all’uomo, senza alzare gli occhi.

Roberto prese gli abiti da Templare di Issam, gettando uno sguardo distratto all’enorme chiazza rossa e concentrandosi piuttosto sulla bambina.

Sapeva cosa stava per dire.

 

“Signore, mio padre è morto…” singhiozzò Asiya, senza lasciar cadere alcuna lacrima.

 

“Sì, mi è giunta notizia. Mi dispiace molto” disse indifferente, come se lei gli avesse detto che le era morto il cane.

 

“Avrei un desiderio che forse voi mi potreste esaudire, nella vostra infinita clemenza…” continuò la bambina, stringendo qualcosa nel pugno.

 

“Sì?”

 

“Io…”

 

 

 “Per favore, qualcuno mi aiuti!”

 

La voce della donna le arrivò straziante alle orecchie dall’altra parte della strada: a separarle, solo un muro. Sicuramente aveva rubato di soppiatto a una bancarella, spinta dalla fame, e alcuni soldati di passaggio l’avevano colta nel fatto; oppure, la stavano solo violentando.

Le urla e le risate dei soldati le davano fastidio, così affrettò ancora di più il passo, decisa a non indugiare più davanti a niente. La donna strillava sempre più forte: terrore e dolore erano palpabili nella sua voce.

Si morse le labbra, strinse i pugni e pensò ad altro. Si estraniò dal mondo che la circondava, come aveva imparato a fare nei suoi anni di addestramento, non solo fisico, ma anche psicologico: niente poteva scuoterla.

Ad eccezione forse solo una.

 

“Buon Dio, cos’è successo qui?” gridò vicino a lei un passante spaventato.

 

Senza essersene accorta, Fadwa si era ritrovata nel luogo in cui era avvenuta l’ingiustizia, ma la scena che le si apriva davanti agli occhi era ben diversa da quella che si aspettava.

I cadaveri dei soldati giacevano inermi a terra in enormi pozze di sangue, sparpagliati per la strada; la donna stava fuggendo via e intorno ai corpi si era creato uno spazio vuoto. Tutti gli sguardi dei passanti si puntarono su di lei: aspettavano che facesse qualcosa.

Fadwa sospirò rassegnata, però scossa da una strana paura: chi aveva compiuto questo massacro? L’assassino doveva essere ancora in circolazione.

 

“D’accordo, tornate alle vostre occupazioni: qui non c’è niente da vedere! Andatevene!” ordinò con sguardo duro, come se parlasse ai suoi sottoposti.

 

La gente, spaventata perlopiù dal suo sguardo, eseguirono subito l’ordine e ritornarono come se niente fosse alle loro faccende: in pochi secondi, il vociare intenso si era zittito.

Fadwa si inginocchiò vicino a uno dei corpi, esaminando la ferita: un taglio profondo che trapassava il torace e arrivava fino alla gola. Chi lo aveva ucciso, doveva essere un maestro della spada, o forse solo un fortunato.

Poi un lampo improvviso le illuminò la mente, portando con sé l’istinto del predatore che si attivava solo in determinate occasioni. Qui a Damasco solo poche persone erano in grado di maneggiare la spada a quel modo: lei, Roberto de Sable – che però non veniva spesso qui – e un Assassino.

Scattò immediatamente in piedi come una molla e si guardò intorno con sguardo feroce. La preda doveva ancora essere nelle vicinanze.

In quel momento, arrivarono altri soldati che prima osservarono lo scempio, poi lei, come cercando risposte.

 

“C’è un Assassino in circolazione. Trovatelo e portatelo da me: voglio essere io a concedergli la pace eterna!” impartì l’ordine fredda, ma i suoi occhi tradivano una bramosia di sangue quasi animalesca.

 

Da tempo attendeva questo momento. Forse, se la fortuna era dalla sua parte, avrebbe incontrato lui: il vero assassino di suo padre. Sapeva che era ancora in vita. Ne era certa!

Uccidere tutti quegli Assassini che le erano capitati davanti le serviva solo per attirarlo da lei. E finalmente era venuto

Non le importava se quelle vittime erano forse innocenti. Per lei erano tutti colpevoli.

I soldati scattarono all’inseguimento di un nemico sconosciuto, smossi dal loro stupore grazie alle parole di Fadwa.

Lei si accinse a venire dietro a loro, quando un gruppo di eruditi le passò accanto, immersi in qualche preghiera.

All’inizio non ci fece molto caso, ma osservandoli con più attenzione si accorse che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa era fuori posto, lì, in mezzo a loro.

Il gruppo la superò, incurante dei cadaveri a terra.

Fadwa rimase a guardarli andare via, intontita; poi finalmente capì cosa c’era di strano. Era talmente ovvio che si diede della stupida.

 

Cosa ci fa un erudito con una spada e dei pugnali?

 

Si gettò al loro inseguimento, sicura delle sue idee e mossa da un furore antico. Il gruppo non era più distante e proseguiva con passo lento e tranquillo, perennemente in meditazione. Non le dispiacque di interrompere le loro preghiere.

 

“Assassino, fermati! Assassino!” gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

 

L’effetto di quelle parole fu immediato. Un erudito in mezzo al gruppo si staccò e corse verso una bancarella, saltandoci sopra e scomparendo fra i tetti. I passanti fecero ala, guardandosi intorno disorientati e spaventati.

Era quello con la spada. Aveva ragione.

Fadwa imitò le gesta del suo bersaglio e salì sulla stessa bancarella, ricevendo le imprecazioni adirate del mercante di anfore, con uno scatto felino si aggrappò al tetto e saltò su. Cominciò a correre come mai aveva fatto, sentendo a ogni falcata i polmoni sul punto di esploderle.

L’Assassino era distante, ma lei era decisa a raggiungerlo. Entrambi saltarono da un tetto all’altro con un’agilità sovrumana per lui che doveva essere impacciato dalla tunica, per lei che era una donna.

L’addestramento di dieci anni le era servito a qualcosa: sacrifici, dolori, lacrime represse… Tutto questo solo per giungere al suo obbiettivo.

 

 

Asiya aprì il pugno e gli mostrò una piuma sporca di sangue. Facendo ciò, alzò finalmente gli occhi e lo guardò con folle rabbia: gli occhi di un bellissimo color ambra erano vivi.

 

“Voglio vendicare mio padre. Voglio uccidere tutti gli Assassini. E non mi chiami Asiya: il mio nome è Fadwa

 

 

La folle corsa durò a lungo e nessuno dei due avversari diede segni di cedimento. La distanza fra i due si riduceva sempre di più: solo un braccio li separava.

Fadwa, spinta dall’euforia della vittoria vicina, estrasse la spada e l’alzò in aria, pronta a lasciar cadere il fendente. Si gettò sulla preda, pregustando il sangue che usciva a fiotti. Che però non vide.

Con una mossa imprevedibile, l’Assassino scartò a destra e salì sopra una torre cadente, intorno alla quale volava alta un’aquila. La spada si conficcò con violenza a terra, lasciando Fadwa un attimo incapace di agire. Guardò in alto e lo vide scalare l’altura.

Digrignò i denti, lasciò la spada dov’era e imitò anche lei il suo obbiettivo. Con qualche difficoltà dovuta alla sua goffaggine nel trovare punti di appoggio per le gambe, Fadwa scalò la torre e arrivò fino in cima.

Lì c’era uno spazio vuoto e una trave di legno sospesa nel vuoto. Su quella trave era inginocchiato l’Assassino che le dava le spalle.

Fadwa sentì la rabbia montare per l’indifferenza mostrata dal suo nemico, che faceva come se lei non ci fosse. Si sentiva umiliata.

 

“Ehi, Assassino!” gli urlò con disprezzo, prendendo uno dei pugnali dalla cintura.

 

L’uomo si riscosse all’improvviso e si voltò verso di lei. Il volto era celato da un cappuccio che copriva gli occhi, ma Fadwa riuscì ugualmente a intravedere le labbra sottili, prive di alcun sorriso, con un piccolo taglio. Gli occhi erano un mistero, ma poteva immaginare un debole baluginio dietro quell’oscurità. Forse di vittoria, chissà.

Fadwa ebbe un sussulto e il braccio con il pugnale tremò, senza lasciar andare il colpo.

L’Assassino se ne accorse e ne approfittò. Si alzò in piedi e, sorridendole crudelmente, si gettò all’indietro nel vuoto, allargando le braccia come se stesse per volare.

Come un’aquila che attraversava i cieli, in tutta la sua maestosità.

Fadwa si riprese subito e si affacciò sulla trave, sentendo una lieve vertigine impadronirsi di lei. L’Assassino uscì da un cumulo di fieno e, senza guardare in alto, fuggì dalla sua visuale.

La rabbia prese possesso della sua mente e urlò con tutto il fiato che le restava, lasciando andare mille sentimenti che aveva represso da anni. Rabbia, sconforto, paura, dolore. Tutto in quell’urlo.

Fadwa continuò a gridare a lungo, perché si era lasciata sfuggire la sua unica occasione di vendetta.

Perché, ne era certa, era lui l’assassino di suo padre.

Era lui che aveva perso la piuma insanguinata.

E sempre lui le era di nuovo fuggito davanti agli occhi, senza che potesse fare nulla per impedirlo.

Veloce, aggraziato, letale.

Come un’aquila che agguantava la preda e fuggiva vittoriosa.

 

 

 

 

 

 

 

Spazio dell’autrice:

in una sola notte ho scritto ininterrottamente questo capitolo, adesso pronto per essere postato: è un mio record! Spero però che sia venuto decentemente, visto che ero stata colpita dall’ispirazione…

In questo capitolo mi sono concentrata molto sugli occhi, perché li ritengo la parte più importante del nostro essere: gli occhi sono lo specchio dell’anima e delle nostre emozioni. Quindi, non fateci troppo caso se mi soffermerò molto spesso sugli sguardi ^^”.

Vi lascio con un quesito che mi tormenta: ma Altair, di che colore ce l’ha gli occhi? Marroni o neri? Ho provato a guardare con attenzione, ma non riesco a capire bene (dannato cappuccio!).

Ringrazio per la recensione: Princess_Slytherin.

E sempre a lei: mi dispiace, ma ancora non posso dire perché ha cambiato il nome… Abbia pazienza XD.

Al prossimo capitolo!

  
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