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Autore: Sandra Voirol    17/01/2012    8 recensioni
Buongiorno!!!!!
Vi ricordate di me....avete visto??? non vi ha abbandonati!!!
Sono tornata con una nuova One Shot
che spero vi piacerà quanto è piaciuta a me!!!!
E' stata difficilissima da scrivere...
forsa quella più difficile per me!!!!
Ma ci sono molto legata...
Quanto a Calore ed Assassino !!!!
Stare nella testa di Edward è stato molto molto pesante!!!
Sono ansiosa da sapere cosa ne pensate!!!!
Buona Lettura
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon
- Questa storia fa parte della serie 'L' Anima di Edward...ma non solo'
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Buongiorno!!!!

Avete visto???? Sono tornataaaa !!!!!

Spero che non vi siete scordati di me....

Oggi vi propongo una One Shot ....molto importante per me...

è stata molto difficile da scrivere ...ma ci sono legatissima...

Quanto lo sono a Calore ed Assassino....

Stare nella testa di Edward e cercare di non farmi sfuggire

nessun dettaglio...è stato davvero complicato !!!!!

Quindi...ovviamente è
POV. EDWARD !!!!!

E' molto lunga ma non l'ho voluta dividere....

secondo me va letta tutta d'un fiato!!!!

Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate!!!!!

Inoltre vi avviso che non posterò più le one shot a cadenza fissa....

ma ogni tanto vi farò una sorpresa!!!!!

BUONA LETTURA!!!!!















UCCIDERSI
 
 


Non-avevo-più-nessun-motivo-per-esistere.
Sentivo un dolore talmente forte da non riuscire a muovermi o semplicemente respirare o battere le palpebre. Mi sentivo paralizzato. Come se ogni più piccolo movimento fosse uno scempio, rispetto a ciò che era accaduto. Non riuscivo nemmeno a pensarlo, la mia mente per quanto forte e spaziosa, si rifiutava di prendere in considerazione la situazione. Non riusciva a formulare quel pensiero, quella parola.
Era…era impossibile, inaccettabile. Non era una cosa possibile. Lei…lei doveva esserci. Da qualche parte sul pianeta…doveva esserci. Doveva esistere per forza.
Se non fosse stato così, niente avrebbe avuto più senso per me.   
No! Rosalie si era sbagliata. Non poteva essere.
Finora ero riuscito a malapena a sopravvivere solo grazie al pensiero che lei esisteva. Che lei camminava sulle strade – ormai sicure – di Forks. Che lei continuava ad andare a scuola, ad occuparsi di suo padre e a passare il tempo con gli amici che per colpa mia aveva trascurato.
Non era possibile che questo non accadesse più. Era l’unica cosa che mi permetteva di sopravvivere a questa non-vita.
Erano sei mesi che lottavo disperatamente contro me stesso, per non tornare da lei.
Erano sei mesi che cercavo con ogni fibra del mio essere, di non cedere alla tentazione di andare a vedere come stesse - di nascosto, come un fantasma.
Erano sei mesi che di ora in ora, cercavo una scusa per eludere la mia promessa e supplicarla in ginocchio di perdonarmi, di riprendermi con sé.
Erano sei mesi che forzavo l’esigenza inarrestabile di stare con lei, a soccombere alla mia volontà di salvarla da me. Dalla mia razza.
Erano sei mesi che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, non vedevo che lei. I suoi occhi mi perseguitavano ovunque andassi. Il suo sguardo - quando le avevo detto che non la volevo più - mi dava la caccia, chiedendomi perché le avessi fatto una cosa tanto terribile. Erano come un velo che filtrava qualunque cosa guardassi.
E mi toglievano il respiro, le forze. E logoravano la mia volontà a resistere.
La mia scelta mi stava uccidendo lentamente, come un’agonia interminabile, ma avrei sopportato tutto per il suo bene. Perché la sua vita fosse normale. Umana. E soprattutto al sicuro.
Ma questo…questo non era sopportabile. Non era accettabile. Non potevo sopravviverle neanche un secondo. Non…non ne avrei mai avuto la forza. E, sopratutto, non avrebbe avuto alcun senso la mia esistenza se lei non ci fosse stata più.  
Ma non volevo crederci. No! Rosalie si era sbagliata. Bella non lo avrebbe mai fatto. Bella mi aveva fatto una promessa. Bella aveva Charlie a cui badare, non lo avrebbe mai ferito tanto.
Mi aggrappai disperatamente a questa certezza. A questa speranza. Ma dovevo…dovevo sapere. Non potevo continuare ad esistere senza avere la certezza che lei stesse bene e che tutto questo era solo un’assurda, stupida incomprensione. Che semplicemente, Rosalie aveva capito male.
Una parte di me riuscì a crederci e a provare il sollievo che mi permise di rimettermi in moto dalla mia immobilità.
Dovevo sapere. La cosa più semplice da fare era chiamare a casa sua. Ma non potevo presentarmi come me stesso. Io ero sparito, ero svanito per sempre dalle loro vite. Per nessun motivo al mondo dovevano riconoscermi. Dovevo mantenere la promessa che avevo fatto a Bella, se volevo avere uno straccio di speranza che lei avesse fatto altrettanto con la sua.
La cosa più semplice da fare mi sembrò quella d’imitare la voce di mio padre. Sarebbe stato più accettabile che fosse lui a chiamare. Aveva sentito la falsa notizia e voleva accertarsi che lei stesse bene. Una cosa normale, in fondo.
Charlie rispettava ed apprezzava molto mio padre, gli avrebbe risposto di sicuro, considerando una gentilezza la sua preoccupazione. Non avrebbe mai scoperto invece, di aver parlato con me.
Feci un sospiro profondo e ripescai il cellulare dalla tasca dei pantaloni, dove l’avevo riposto l’ultima volta che l’avevo usato. Quando Rose mi aveva chiamato e sotto shock, lo avevo infilato meccanicamente in tasca.
Mi girai – come avvolto in una nuvola d’intorpidimento – verso la portafinestra della mia camera d’albergo di terz’ordine di Rio. In lontananza era visibile il Cristo in Croce, simbolo della città ed anche dell’intero paese. Lo fissai senza vederlo davvero, ma ormai non vedevo davvero, da un pezzo. Da sei mesi, per la precisione.
Spinsi il tasto veloce che mi consentiva di chiamare direttamente a casa di Bella e con un sospiro – atto a farmi forza ad interpretare la parte – mi apprestai a calarmi nei panni di Carlisle, sperando con tutte le mie forze, che non fosse Bella a rispondere. Non so se sarei stato in grado di fingere in quel caso, anche se una parte di me sperava violentemente di sentire almeno la sua voce. Se fosse stata lei a rispondere però, i miei timori si sarebbero rivelati infondati e avrei potuto riattaccare senza parlare.
“Casa Swan”, sentii nell'altoparlante del mio telefono. Era la voce di Jacob. Sollievo e disperazione - che non era la voce di Bella - m’invasero in ugual misura. Cercai di non soffermarmi a pensare cosa diavolo ci facesse quel Quileute a casa sua. Non dovevo distrarmi.
Impostai la voce in modo che fosse perfettamente uguale a quella di mio padre. “Sono Carlisle Cullen. Vorrei parlare con Charlie per cortesia”, dissi nel tono sempre educato e gentile del mio genitore adottivo.
“In questo momento non c’è” rispose con voce intimidatoria, ostile. In un certo senso mi sorprese. Non era mai stato ostile nei nostri confronti. Guardingo casomai, ma mai minaccioso. Lui non sapeva chi fossimo. Forse un suo qualche istinto poteva renderlo prudente nei nostri confronti, ma niente più di questo. L’avevo già colto altre volte nel suo modo di guardarmi, oltre che nei suoi pensieri.
Mi ricomposi. Forse potevo trovare l’ispettore Swan alla stazione di polizia. Avrei chiamato lì. “Dove posso trovarlo? E’ al lavoro?”.
“E’ andato al funerale” rispose secco, arido, ostile, cattivo. La sua voce trasudava odio. Tu, tu, tu, tu, tu.
A-l…f-u-n-e-r-a-l-e …
Queste due semplici parole mi rimbombarono nella testa, al ritmo del tu-tu della linea telefonica interrotta, che avevo chiuso in faccia a Jacob.
Charlie era ad un funerale. L’unico, che inevitabilmente mi veniva in mente…era quello di… Bella.
Il pensiero mi distrusse in una frazione di secondo. Ogni più piccola speranza si sgretolò di fronte a quelle parole. E mi gelarono.
Bella non c’era più.
Bella era… non riuscivo a sillabare la parola nemmeno con la mente. Mi sforzai.
Bella era…Morta.
Bella si era Uccisa.
Bella stava talmente male da non sopportare di vivere.
Era colpa mia. Io… l’avevo uccisa.
Ogni secondo che il tempo scandiva, mi rendeva più consapevole di ciò che avevo appena sentito. Battiti di tempo e dolore inondarono la mia mente ed il mio corpo.
Straziandomi.
Torturandomi.
Lacerandomi.
Violentandomi.
Rendendomi impossibile esistere per un’altra frazione di secondo. Ero già morto. Morto dentro. Si trattava solo di annientare l’involucro vuoto che circondava la mia mente in agonia. La sofferenza era talmente violenta da impedirmi di pensare. Di pensare a cosa fare per raggiungere l’unico scopo possibile.
Morire.
Al più presto.
Per annientare me stesso e il dolore straziante che distruggeva ciò che ero stato fino a poco prima. Bruciando come benzina ogni frammento di me, di ciò che ero e del mio passato. Della mia intera esistenza. Sbriciolando tutti gli Edward che ero stato e rendendomi l’ombra del fantasma che sarebbe andato a morire. Il più in fretta possibile.
Il dolore era di una violenza insostenibile. Mille volte peggiore di quello della trasformazione. Non urlavo solo perché non avevo la forza per farlo. I miei sensi erano azzerati dall’impatto con la realtà.
Mi sentivo al centro esatto dell’inferno. Quell’inferno che avrei raggiunto il prima possibile e che non sarebbe mai, mai stato terrificante come quello che stavo vivendo adesso.
Mi sentivo attirato in un pozzo profondo, nero e senza fine. Un pozzo pieno di un dolore talmente straziante da non riuscire a reagire in nessun modo.
Attraversato e riattraversato da milioni di spade affilate e piene zeppe di veleno. Veleno torturatore.
Non …non vi erano parole per descrivere ciò che sentivo. Nemmeno a me stesso. La mente non riusciva a trovare i termini giusti. Era sconvolta dalla loro ferocia. Come se un animale mitologico ruminasse i miei organi interni e questi non si consumassero mai. E contemporaneamente – assurdamente - ero vuoto. Totalmente e assolutamente vuoto. Come un buco nero. Mi sentivo trascinare in esso, dove avrei trovato almeno l’oblio.
Ma io non volevo l’oblio, io volevo la morte.
Questo pensiero attraversò la mia mente sconvolta e mi diede la forza di lottare contro il nulla, per essere in grado di portare a termine l’ultima scena di Edward Cullen.  
Ora che la mia mente – oltre al dolore infinito – aveva un altro imput da seguire, uno scopo, cominciò a rimettersi in moto. Lucidità e sofferenza mi dilaniavano il petto e il cervello. Feci più di un respiro profondo per cercare di riprendere il controllo necessario, ignorando la gola che bruciava in un modo assurdo. Erano settimane che non andavo a caccia. Non ero più nemmeno riuscito a trovare la forza per nutrirmi, negli ultimi tempi. Stare lontano da lei mi aveva annientato, ma non sapevo ancora cosa avrei provato oggi. In questo momento, ciò che avevo vissuto negli ultimi sei mesi, mi sembrava niente in confronto a ciò che mi dilaniava ora.
Cercai con tutte le mie forze di puntare l’attenzione della mia mente su ciò che volevo fare. Su ciò che già sapevo da tempo avrei fatto in questa circostanza. Per fortuna, avevo già pianificato ciò che andava fatto dai tempi di James, in questo momento non avrei mai avuto la lucidità necessaria a pensare ad un piano. Ma, avendolo già definito nei particolari ed impresso nella memoria, dovevo solo applicarlo.
Di due cose soltanto avevo bisogno per attuarlo, la mia carta di credito ed il passaporto. Con nuova determinazione – sapevo che la fine del dolore sarebbe arrivata – andai ad aprire il cassetto del comodino di fianco al letto. Erano le uniche cose che mi ero portato dietro, quando ero fuggito da Forks.
Quando hai il denaro e i documenti - anche se quelli sono falsificabili con i soldi - tutto il resto è raggiungibile, a maggior ragione per un vampiro.
I miei gesti erano meccanici, come se fossi un automa. Cacciai la carta lucida e nera nella tasca posteriore e chiusa la porta della stanza - che aveva assistito alla mia sofferenza - andai a pagare il conto, per poi dirigermi all’aeroporto.
Destinazione: Italia.
La strada era già tracciata, dovevo solo seguirla.
Il tipo dietro il bancone della reception mi guardò scettico, quando gli porsi la carta di credito. Se tu hai questa, pensò: Che diavolo ci fai in questa topaia? Ma non fece un fiato. Fra la moltitudine di motivazioni, forse perché fra questi vicoli cupi e poco illuminati, la luce del sole si vede con il lanternino? Pensai acido. Non ero assolutamente in grado d’interagire con un umano in questo momento e la mia faccia – oltre che al mio essere parecchio trasandato - lo convinse a fare quello che andava fatto, senza fiatare. Quando me la restituì non dissi una parola e uscii da quella stamberga senza perdere altro tempo. La mia fine mi aspettava, avevo fretta. Il tempo per me, era solo battiti di dolore immenso e nient’altro.
Fuori da quel tugurio - in un vicolo poco raccomandabile a qualsiasi umano -  feci l’ultima telefonata che mi sarebbe servita. Chiamai un taxi. Poi, buttai il cellulare nella spazzatura in fondo al vicolo, non dovevo essere rintracciabile.
Ero consapevole che Alice mi aveva sicuramente visto prendere questa decisione, quindi dovevo fare in modo che non mi trovassero. Almeno, non in tempo per fermarmi. Sicuramente – Emmett e Jasper, senza contare Alice come minimo – avrebbero provato a fermarmi, ma io li avrei anticipati. Non potevano impormi questa tortura infinita. 
Loro avevano l’Alaska e il Canada da attraversare – visto che erano in visita a Denali - io no.
Mentre pensavo al modo per eludere il tentativo di salvataggio della mia famiglia - che sicuramente si sarebbe impegnata al massimo per fermarmi - attraversai Rio seduto prudentemente al centro del sedile posteriore di un taxi. Cercavo di concentrarmi su quei pensieri, per non farmi sopraffare dal dolore devastante che mi stava torturando.
Gli occhi di Bella, il suo sorriso, il rossore sul viso imbarazzato, continuavano a fare da filtro tra me e il mondo ed ogni immagine era una lama che mi trapassava. Non potevo accettare che lei non continuasse a guardare il mondo con i suoi meravigliosi occhi color cioccolato – così profondi e pieni di segreti - a sorridere e ad arrossire per ogni più piccola cosa. Non potevo tollerare che fosse fredda, immobile e senza vita; che fosse chiusa in una cassa e seppellita sottoterra.
Amore mio. No! Perché l’hai fatto?
Fui distratto dal conducente che mi avvisava che eravamo arrivati. Gli chiesi di condurmi fino al parcheggio sotterraneo, poi lo pagai e scesi dal taxi.
A passo deciso – cercando di sforzarmi di mantenere i movimenti umani – raggiunsi il terminal dell’aeroporto. Rimanere lucido era un’impresa difficilissima.
Fui invaso dall’odore di centinaia e centinaia d’umani e la gola ebbe un impennata di dolore – come un’esplosione interna. Avevo sete, molta sete. Ma tutto questo era niente rispetto all’altro dolore che sentivo, quindi ignorarlo fu estremamente facile. Facile come quando ero nel taxi.
Un dolore più grande, annulla un dolore più piccolo.
Questo semplice pensiero, mi fece tornare alla mente, quando - dopo aver salvato Bella nell’incidente – avevo sentito l’odore di sangue dalle ferite di Tyler. L’odore di Bella – sul lettino accanto – era talmente potente, da consentirmi d’ignorare il sangue esposto del ragazzo. Il ricordo mi perforò il petto in uno scatto di sofferenza sconfinata e il respiro mi rimase impigliato in gola per la sua violenza. Fui costretto a fermarmi in un angolo, per poter riprendere lucidità. Cercai – per quanto potevo – di svuotare la mente e fare respiri regolari. Dovevo fare in modo da passare inosservato e non avere atteggiamenti strani, già il mio abbigliamento non era il massimo, anche se non riuscivo a preoccuparmene. Dopo un paio di minuti, mi sentii in grado di raggiungere il check-in e trovare il primo biglietto disponibile per Roma.
Fui fortunato – se in queste circostanze la parola fortuna, era considerabile – c’era posto sul primo volo in partenza. Feci velocemente il check-in – stavano per chiudere il gate – ed espletate le formalità, salii sull’aereo.
Una volta seduto, iniziò il mio calvario.
Avevo tempo. Potevo pensare. Ero costretto ad essere fermo, inattivo. Per parecchie ore non avrei avuto altra possibilità se non quella di riflettere. E avrei dovuto anche controllarmi, visto che ero circondato da centinaia di persone. Mi sentii morire a quella prospettiva, vedendo l’oceano – e non solo in senso figurato – di dolore, aprirsi davanti a me. Prima di arrivare alla morte - al sollievo - dovevo attraversare quell’inferno. L’inferno della consapevolezza e della lucidità. L’inferno che sicuramente mi avrebbe fatto sviscerare ogni cosa, lacerandomi l’anima che non avevo.
Cercai di non concentrarmi su ciò che era successo, ma su cosa stavo per fare, studiando il piano nei minimi particolari. Certo, ero in volo per Roma e la parte del viaggio stava andando come doveva, ma…
Non era tutto qui. Mi aspettava altro una volta atterrato.
Arrivare a Volterra non sarebbe stata una cosa complicata. Avrei comprato una cartina prima di lasciare l’aeroporto di Fiumicino ed avrei noleggiato una macchina veloce. Dovevo essere il più rapido possibile, dovevo battere la mia famiglia sul tempo.
Ma il problema più grande sarebbe arrivato dopo. Convincere Aro.
La questione era sfaccettata. Non sarebbe stato semplice persuaderlo a darmi la morte. Supponevo che non fosse una cosa che avveniva spesso, che un vampiro volesse suicidarsi per mano loro. Ma la difficoltà più grande, sarebbe stata quella di non indurlo a cedere all’amicizia che aveva con mio padre. Per lui, forse si sarebbe fatto qualche scrupolo. Anche se non riuscivo a figurarmi i Volturi a farsi degli scrupoli. Io ci speravo, che non mi riservassero questa cortesia.
In caso contrario, sarei stato costretto a provocarli. Magari cacciando all’interno della città – sapevo che non era tollerato – oppure lanciando un’automobile in mezzo alla gente o attaccando le loro stesse guardie; per me in fondo, non faceva tutta questa differenza. L’importante era il risultato.
Ma come avanzare la mia richiesta? Perché avesse qualche possibilità di andare in porto, avrei dovuto formularla nel modo migliore. Mentire era fuori discussione. Sapevo da mio padre del potere di Aro, con un tocco avrebbe conosciuto ogni mio pensiero. Forse la chiave stava tutta lì. Se avesse conosciuto i miei pensieri, si sarebbe reso conto anche delle mie motivazioni. Dovevo sperare che fosse sufficiente ad ottenere ciò che volevo. Forse, se avesse sentito la mia sofferenza, avrebbe avuto pietà di me ed avrebbe alleviato le mie pene.
Continuai a fare ipotesi su ipotesi, tutto pur di tenere impegnata la mente. Pur di distrarla da ciò che la tormentava senza pietà.
Ma, inevitabilmente – ad un certo punto – mi persi nelle pieghe del dolore e dei tanti perché, che mi assillavano.
Amore mio. No! Perché l’hai fatto?
Certo, mi ero fatto promettere che non avrebbe fatto niente di stupido o insensato, con la sgradevole sensazione che invece avrebbe potuto. Ma ero certo che spingendola a pensare a Charlie, se ne sarebbe guardata. Ero convinto che avrebbe mantenuto la sua promessa, come tutte quelle che aveva rispettato nei mesi precedenti. Prima di tutte, quella di non tradire il mio segreto, quella di non dire ciò che avevo fatto salvandola dal furgone di Tyler. Quando ancora – per lei – non ero praticamente quasi nessuno. Altre ondate di dolore.
Sapevo che mi amava molto. Che il suo amore per me era abbastanza forte da consentirle di starmi vicino. Di stare con un vampiro. Ma ero convinto che sarebbe guarita, che le ferite che le avevo inferto – nella speranza che mi dimenticasse il prima possibile – si sarebbero rimarginate. La memoria umana è fragile, imperfetta, sarei diventato poco più di un labile ricordo. Mezzo sogno e mezzo incubo. Ero certo che avrebbe ripreso a vivere la sua vita. Che mi avrebbe dimenticato.
Invece no. Il nulla dentro di me lottava per inghiottirmi.
Bè, non potevo sapere le motivazioni precise che l’avevano spinta a fare un gesto tanto estremo, ma ero ragionevolmente sicuro che fosse per colpa mia. Altre pugnalate nel petto.
Possibile che stesse tanto male da non riuscire a vivere senza di me?
O che fosse tanto delusa, ferita dal mio comportamento, da fare una cosa tanto grave, tanto definitiva? Il senso di colpa mi tolse il fiato.
La mia mente si rifiutava di visualizzare quel momento. L’attimo in cui si era lasciata andare nel vuoto, sprofondando nell’oceano in tempesta, abbandonandosi alle onde. Lasciandosi …morire. Una stretta violenta stritolò il mio petto sofferente.
Cos’avevo fatto? Un oceano di disperazione stava per travolgermi senza scampo. Un altro battito di tempo e mi sarei arreso a quella sofferenza insopportabile.
Per cercare di salvare almeno le apparenze, chiusi gli occhi, poggiai la testa al sedile e cercai disperatamente di respirare in modo lento e regolare. Se dentro di me avevo il centro dell’inferno in eruzione, esternamente dovevo cercare di apparire addormentato.
Fissando quest’atteggiamento in una piccolissima parte del mio cervello - che si occupava dei riflessi incondizionati, come la gestione della sete normale – riuscii ad abbandonarmi al dolore.
Incapace di trattenerlo oltre.  
Incapace di contenerlo.
Incapace di gestire per un altro secondo, il mare immenso di sofferenza che mi dilaniava.
Ed in esso mi persi. Subendolo. Suicidandomi in esso, senza sapere se avrei mai avuto la forza di riemergerne. Solo contando sul fatto che avrei dato la priorità all’ultimo scopo della mia insignificante esistenza: uccidermi.
Furono ore lunghissime, che mi parvero anni se non secoli. Il battito del dolore dentro di me sembrava scorrere a rallentatore, rafforzando e prolungando l’agonia, tormentando nel modo peggiore ogni cellula del mio essere. Fui risucchiato da tutto quello che avevo cercato di contenere per mettere in atto il mio piano suicida.
Il dolore insostenibilmente violento della trasformazione, non era niente al confronto. Era come se il diavolo in persona mi stesse torturando l’anima che si era preso nel momento in cui ero diventato un vampiro. Come se scatenasse tutta la sua fantasia per farmi patire le pene più atroci e crudeli.
La morte. Volevo solo morire.
Ti supplico signore, fa che il tempo passi in fretta e riesca a mettere fine a questo supplizio insopportabile. Abbi pietà di me e consentimi di morire per porre fine a questo tormento infernale. Concedimi la pace, abbi misericordia di me. Ti supplico.
L’infinito momento di dolore subì una crepa solo nel momento in cui il mio cervello – stranamente in grado di percepire ancora gli eventi esterni – sentì l’avviso del pilota, che stava per atterrare.
Chissà quale parte di me – quella che voleva smettere di soffrire, quella che voleva  punirsi per aver consentito che accadesse una cosa tanto orribile alla donna che amava o quella che non avrebbe mai accettato di sopravviverle – reagì a quella notizia e con forza sorprendente, lottò contro l’apatia che la tortura aveva provocato e riprese il controllo dell’involucro vuoto che l’avvolgeva.
Mentre recuperavo lentamente il contatto consapevole con ciò che mi circondava e l’aereo s’impegnava a fare la sua discesa per atterrare, riuscii a tornare a galla dal pozzo senza fine e senza tempo nel quale ero sprofondato. Non capii neanch’io come feci, ma non mi ci soffermai più di tanto. La mia mente era già concentrata sul prossimo passo da compiere per ottenere ciò che più desideravo. Morire.
Eseguii meccanicamente tutti i passi da compiere per uscire dall’aeroporto e lo stesso feci per adempiere agli ordini che io stesso mi ero impartito, pianificando ciò che dovevo fare.
Presi a noleggio l’automobile più veloce del parco macchine. Una Jaguar. Sembrava veloce anche da ferma, ma il mio cervello non era in grado di coglierne la bellezza o il modello. Pagai in anticipo, per un tempo di molto superiore a quello che mi sarebbe effettivamente servita. Almeno così, avrebbero recuperato le spese per rintracciarla e riportarla indietro. Io non me ne sarei di certo curato, avevo altro da fare. Nel momento in cui l’avrebbero ritrovata - con ogni probabilità - Edward Cullen sarebbe stato solo un ricordo per i pochi che l’avevano conosciuto.
Alla guida del bolide, ignorai qualsiasi cosa il mio vecchio io avrebbe apprezzato di quella macchina e guizzai fra le autovetture ed i camion che intasavano il raccordo anulare della capitale.
Destinazione: Volterra.
Schizzavo alla velocità massima consentita dalla macchina e dal traffico, correndo incontro al mio destino. Una volta lasciato dietro di me il caos della capitale italiana, spinsi sull’acceleratore al massimo e puntai dritto verso la mia meta. Le multe sarebbero arrivate, quando non sarei più stato fra i vivi.
 Purtroppo, guidare non richiedeva molta attenzione da parte mia e questo consentì al dolore di riconquistare il centro della scena nella mia mente.
Amore mio. No! Perché l’hai fatto?
Sentii il bisogno irrazionale - masochistico ed auto-flagellante – di pensare a lei. Di rivisitare il suo viso, le sue espressioni e tutto ciò che avevo vissuto insieme lei.
Era il mio gesto d’addio.
Tra poco non sarei stato più niente e la mia memoria si sarebbe dissolta nel nulla. Tutto quello che avevamo vissuto sarebbe caduto nell’oblio, con la sua e la mia …morte.
Ignorando il dolore violento che ogni singolo fotogramma mi provocava, lasciai che la mia memoria scorresse ogni attimo trascorso con lei e – sorprendentemente - un sorriso beato mi si dipinse sul viso. Avevo trovato il modo di eludere l’inferno, perdendomi nell’illusione del mio paradiso perduto.
Ne riemersi solo quando le mura di Volterra mi apparvero all’orizzonte. La città si presentò in tutta la sua magnificenza storica e l’aura della stirpe reale dei vampiri che vi dimorava da millenni, era tangibile intorno ad essa. Non me ne curai.
Lasciai la Jaguar nel parcheggio adibito ai visitatori - fuori dalle mura - e mi avviai a passo umano, all’interno della città.
Avrei potuto ammirare tante cose bellissime, ma non ne ero in grado. Stavo per incontrare il mio boia, colui che avrebbe lenito le mie pene e per questo cercai di non concentrarmi sul dolore, ma sugli odori. Odore di vampiro. Sapevo da Carlisle, che i Volturi risiedevano in un palazzo antico attiguo al Palazzo dei Priori, quindi seguii quella direzione. Anche se le numerose scie di vampiro che avvertivo, andavano tutte nella mia stessa direzione, quindi non potevo sbagliare.
Una feroce determinazione s’impadronì di me, ero ad un passo dall’ottenere ciò che volevo, da ciò che mi avrebbe liberato dall’eterno tormento.
Mi ritrovai nei pressi di un edificio antico, medioevale. Le scie che avevo seguito portavano tutte ad un’entrata lussuosa, vi trovai una portineria. Il soggetto dietro il bancone era umano. Quindi…niente: “portami dal tuo signore”. D’altronde, supponevo che nessun vampiro si sarebbe azzardato a presentarsi alla corte dei Volturi - al cospetto di Aro - senza uno specifico invito. Quindi optai per una cosa più vaga. Indefinita. Confidai che il mio cognome potesse essere di qualche interesse, che potesse stuzzicare la curiosità di Aro.
“Sono Edward Cullen” mi presentai all’umano. La mia voce uscì piatta, senza vita. Il portinaio alzò la testa, sorpreso di vedermi – ero stato troppo silenzioso – e sgranò gli occhi. L’espressione del suo viso mi disse che stava guardando una cosa terribile, chissà che faccia avevo. Ma non riuscivo a modulare i muscoli facciali in modo da essere più presentabile. La sofferenza doveva aver scavato segni profondi sul mio volto o più di quanto pensassi possibile, rimanevo pur sempre un vampiro.
Si ricompose. “Ha un appuntamento?” mi chiese con voce professionale. A quanto pare era abituato all’andirivieni serale e notturno, le ore migliori per i vampiri.
“In effetti, no. Ma se vuole farmi la gentilezza di comunicare la mia presenza, sono certo che il suo datore di lavoro avrà piacere ad incontrarmi”, dissi con la voce più convincente che riuscii a formulare, quindi niente di particolarmente efficace, visto lo stato in cui ero.
Fece una smorfia. “Non so se sia il caso”, rispose titubante. A quanto pare era ben addestrato.
“Se vuole essere tanto gentile da comunicare semplicemente la mia presenza qui, sarà sufficiente. Non m’imporrò”. Dissi per cercare di rassicurarlo. Forse temeva di diventare il pasto, anche se di primo acchito non mi sembrava che conoscesse i vampiri.
Rifletté un attimo. Era indeciso, aveva ordini precisi – solo persone con un appuntamento - ma sentiva una sorta di pena nei miei confronti. Che gentile, pensai acido.
“Va bene” si decise. “Ora comunicherò il suo nome alla segretaria, se sono interessati ad incontrarla la faranno sicuramente chiamare”.
“Non chiedo altro”, risposi telegrafico.
Prese la cornetta del telefono e spinse un tasto. Aspettò, cercando di evitare di fissarmi. “Gianna…qui c’è una persona che dice di chiamarsi Edward…” e mi guardò in cerca d’aiuto.
“Cullen” risposi smorto.
“Edward Cullen” specificò. “Non ha un appuntamento, ma dice che i nostri superiori potrebbero avere piacere ad incontrarlo”.
“Come ti sembra?” chiese la segretaria.
“Un bel po’ sbattuto” rispose, poi mi guardò. “forse…forse ha davvero bisogno di quest’incontro” suggerì clemente.
“Me lo descrivi?” chiese Gianna.
“Bè, pallido, un po’ trasandato, capelli castano-ramati, occhi neri, alto e direi parecchio sofferente”. Ecco la sintesi del mio aspetto esteriore.
La segretaria dall’altra parte della cornetta sbuffò. “Ora vedo un attimo, ti faccio sapere”.
“Va benissimo”, si affrettò a confermare il portiere.
Rimise la cornetta al suo posto e si rivolse a me. “Aspetti, per favore”.
Feci un cenno d’assenso e andai ad appoggiarmi al muro di fronte. Avrei aspettato qualche minuto, in caso contrario avrei cercato un’altra strada per arrivare ad Aro. Non avevo tempo da perdere. Dovevo sempre tener conto che con ogni probabilità la cavalleria era già in viaggio.
Dopo sette minuti, sentii dei passi felpati in avvicinamento. Potevano solo appartenere ad un vampiro. Il suo profumo me lo confermò poi, vidi un ragazzino. Non aveva più di tredici anni, capelli castano chiaro e viso d’angelo. Occhi rossi, vestito grigio perla e mantella di una sfumatura più chiara del nero.
Ignorò il portinaio e mi venne vicino. “Edward Cullen?”, disse con voce quasi sprezzante.
“Sì” risposi senza tanti fronzoli.
“Seguimi”, mi ordinò. Nella sua mente stava ripensando all’ordine impartitogli da Aro. “Potrebbe essere uno dei vampiri trasformati da Carlisle; conducilo da me, Alec”.
Avevo ottenuto ciò che speravo.
Lo seguii due passi più indietro. Mi rendevo conto che stavo entrando nella tana dei vampiri più potenti della terra, ma non mi sentivo minimamente intimorito. La loro ferocia era mia alleata.
Prendemmo un ascensore, poi imboccammo un corridoio. Dopo pochi metri attraversammo un ufficio lussuoso, dove dietro una grande scrivania di mogano sedeva una segretaria. Gianna. Umana. Non riuscii a sprecare una parte del mio cervello a pensare a cosa diavolo ci facesse un’umana in mezzo ai vampiri. A quei vampiri.
Percorremmo altri corridoi ed anticamere e superammo anche un pannello a scomparsa dove finimmo in una piccola anticamera di pietra con l’acciottolato, mi fece pensare ai castelli medioevali. Dopo pochi passi mi ritrovai in un ambiente molto più ampio, sempre di stampo medioevale, con ogni probabilità era la torre. La torre del castello dei Volturi.
Non sprecai il mio tempo ad analizzare ciò che mi circondava, ogni pericolo era il benvenuto. Per qualsiasi mano la morte fosse arrivata, era benaccetta.
Il locale era privo di mobili, se si escludeva la presenza di qualche seggiola di legno; aveva tutta l’aria di essere la sala del trono dei Volturi. Infatti, tre di essi erano seduti maestosamente su quei troni. Non mi fu difficile riconoscerli. Marcus, Aro e Caius, esattamente uguali al quadro nello studio di mio padre.
Alec mi fece cenno di avvicinarmi, poi si diresse verso un’altra vampira. Si somigliavano, avrebbero potuto essere fratelli. Probabilmente lo erano, quindi dedussi che lei era Jane, la famigerata arma letale dei Volturi. Dopo aver sorriso a suo fratello si concentrò su di me, i suoi occhi rossi mi puntavano. Supponevo che fosse pronta a neutralizzarmi al minimo accenno di pericolo. La ignorai.
Avanzai a passo deciso, impaziente di farla finita. Mi fermai a pochi metri dai capi della mia razza, senza il minimo timore. Mi sentivo solo smorto, desideroso di compiere il mio destino.
Marcus e Caius sprecarono a malapena uno sguardo nella mia direzione, mentre Aro si alzò e con sguardo carico di curiosità, fece qualche passo verso di me.
“Avvicinati”, mi ordinò con voce leggera. I suoi occhi rosso cupo, ricoperti da uno strano velo trasparente, mi studiarono avidi di risposte; risposte a tutte le domande che gli vorticavano nella mente. Questo mi fece rendere conto che – con ogni probabilità - non me la sarei cavata in fretta. Sospirai internamente.
Feci come mi era stato chiesto, poi mi presentai: “Sono Edward Cullen” dissi senza tanti fronzoli, la voce sempre spenta. Non ero lì per adularli o pregarli o sottomettermi, ero lì per un motivo ben preciso: chiedere la morte.
Aro inclinò la testa lievemente di lato, ma non parlò. Non che per me fosse un problema. Non voleva darmi indicazioni, voleva capire se avevo davvero qualche legame con Carlisle, senza un suo suggerimento. Stava tastando la mia sincerità. Certo, gli sarebbe bastato prendere la mia mano, ma nei suoi pensieri era evidente il piacere che provava a giocare con la preda.
Nella fattispecie: Io.
Senza prendermi la pena di nascondere ciò che ero in grado di fare – tanto non aveva più molto senso, oltre al fatto che al primo contatto l’avrebbe comunque scoperto – risposi alla sua domanda mentale più urgente. “Carlisle Cullen è mio padre”, dissi con un accenno di vitalità e fierezza inconsapevole.
“Ahhh…il mio amico Carlisle”, esclamò con un velo di malinconia. “…e come sta?”.
“Bene” risposi sintetico. L’ultima cosa che mi sentivo di fare, era conversazione; volevo solo arrivare al punto.
Mi guardò lievemente sorpreso dal mio atteggiamento distaccato. Normalmente i vampiri al suo cospetto si comportavano in modo totalmente diverso: con deferenza, rispetto e timore. A suo parere, non rispecchiavo nessuno di questi canoni.
“A quale motivo dobbiamo il piacere della tua visita?”, nella sua mente stava già pianificando l’attimo in cui – attraverso il contatto della mano – avrebbe avuto tutte le risposte alle sue domande. Era leggermente irritato dalla mia mancanza di paura e sottomissione, anche se aveva voglia di giocare con me. Ma io non ero in grado di apprezzare il suo gioco, non ero nella condizione mentale ed emotiva per seguire la sua mente contorta. Quindi decisi di arrivare al dunque senza perdere altro tempo ed alzai la mano per offrigliela.
I suoi occhi rossi - meditabondi – passarono dal mio viso, alla mia mano. “Vedo che sei bene informato”, rifletté con voce leggermente seccata. Avevo stravolto le regole del suo gioco, se ne sentiva irritato. Stava decidendo se essere accondiscendente o farla finita con questa storia, pensava di averci sprecato già troppo tempo. I suoi occhi guizzarono per una frazione di secondo su di un vampiro dalla stazza impressionante – Felix - probabilmente una guardia personale; stava prendendo in seria considerazione la possibilità di togliermi di mezzo all’istante. Niente avrebbe potuto farmi più piacere. Un angolo della mia bocca si tirò nell’ombra cupa di un sorriso smorto. “Sono qui per questo”, sussurrai speranzoso.
Purtroppo, ottenni il risultato inverso. Avevo stuzzicato la sua innata curiosità, essendo diverso e fuori dagli schemi, oltre ad aver risposto ai suoi pensieri. Accidenti a me. Quella mia piccola, insignificante affermazione, lo aveva incuriosito e per questo, decise di saperne di più direttamente dalla fonte, prendendo la mia mano ancora a mezz’aria e stringendola delicatamente tra le sue.
L’impatto non fu per niente piacevole.
Lo sentii entrarmi in testa ed osservare tutta la mia vita, ogni mio pensiero e quelli delle persone che avevo ascoltato – sia con la mente che a voce. Lesse la mia mente in modo sistematico. A ritroso. Il peso di ogni fotogramma, di ogni riflessione mi schiacciò. L’impatto fu violentissimo.
La prima ondata di pensieri fu il dolore infinito che provavo e sommato allo stesso che già subivo, raddoppiò.
Sentii cedermi le ginocchia e crollai a terra, prostrato ai suoi piedi.  
Impietoso, continuò la sua lettura, come se stesse sfogliando un romanzo appena interessante, tenendomi legato a sé tramite le mani avvolte alla mia.  
Rimasi ai suoi piedi per una manciata di secondi – il tempo che passasse in rassegna la sofferenza sconfinata che avevo provato nell’ultimo giorno e negli ultimi sei mesi – poi, quando lo scenario cambiò ed arrivarono i ricordi legati al tempo con Bella, riuscii a riprendere lucidità e con un movimento fluido mi rimisi in piedi. Solo le spalle curve denotavano quanto mi costasse la rivisitazione di quella cascata imponente di pensieri e ricordi meravigliosi.
E via via indietro. Il legame con la mia famiglia. Carlisle. Lì si soffermò con maggiore interesse, come pure su Alice.
Quando giunse agli anni interminabili in cui ero esistito per forza d’inerzia, arrendendomi quasi passivamente a ciò che ero, il suo interesse scemò ed interruppe il contatto fra noi.
Si fregò dolcemente le mani, come in una carezza. “Interessante”, disse volgendo lo sguardo versi i suoi sodali.
L’aria rientrò di scatto nei miei polmoni fermi, non mi ero accorto di aver smesso di respirare. Ripresi un atteggiamento più distaccato e composto, raddrizzando le spalle curve che avevano ceduto alla sofferenza.
“Credo che ora tu abbia chiaro il motivo della mia visita” conclusi non dico sprezzante, ma quasi.
Riportò i suoi occhi ipnotici nei miei. “Attento!”, m’intimò infastidito dal mio tono di voce.
“Perché? Potresti uccidermi?” chiesi sarcastico. Sapeva bene che non volevo altro.
“La mia pazienza non è infinita, Edward. Ti può succedere di peggio che morire”, mi avvisò. “E il fatto che il mio amico Carlisle ti consideri come un figlio, non è necessariamente rilevante”.
M’irrigidii. Mi resi conto che era la pura verità e che stavo affrontando la cosa nel modo sbagliato. Sbagliato per i miei scopi. “Hai ragione”, gli concessi. “Ma spero che avrai compreso la mia richiesta e le mie motivazioni”, dissi più accomodante.
“E’ una richiesta?” mi stuzzicò.
“Sì” risposi senza l’ombra di un dubbio, anzi ansioso di ottenere ciò che volevo. “O una supplica, se preferisci” precisai quasi solenne.
Il suo volto cambiò impercettibilmente. “Devo dire che faccio fatica a comprenderti”, ammise seccato più da se stesso che da me. Pur avendo avuto un accesso privilegiato alla mia mente, non aveva compreso fino in fondo ciò che Bella era per me. Non riusciva a cogliere il senso del mio attaccamento viscerale ad una semplice ed insignificante umana.
“Anche se devo ammettere che la portata del tuo dolore è impressionante”, concluse. Si voltò e tornò a passo tranquillo al suo trono. Gli ingranaggi della sua mente erano in pieno fermento. Si sedette e tornò a perforarmi con lo sguardo. “Le cose da considerare sono molteplici e sfaccettate”, asserì. “Credo che dovrai concedermi un po’ di tempo per discuterne con i miei fratelli”, concluse in tono colloquiale, quasi gentile.
Non mi feci ingannare dalla sua cortesia e capii che se volevo sperare nella sua assistenza per morire, dovevo seguire le sue regole, almeno in questo frangente. Dovevo cercare di essere paziente ed aspettare. Aspettare e soffrire. E contenere la mia impazienza a raggiungere il nulla tanto agognato. “Certo” risposi conciliante.
Fece un cenno ad un altro vampiro nei pressi dei troni. “Demetri, accompagna il nostro ospite nella sala d’attesa”. Quello, con un gesto m’intimò di seguirlo e così feci, senza aggiungere altro.
Riattraversammo l’anticamera medioevale ed un corridoio poi, aprì una porta. “Aspetta qui”, ordinò prima di eclissarsi.
Ignorai le poltrone, come pure il divano e andai ad appoggiarmi al muro, scivolando con le spalle lungo la parete fino a trovarmi accovacciato a terra. Piegato su me stesso. Non che sentissi la stanchezza fisica, era una cosa che non mi riguardava. Ma ero spossato dalla violenza del dolore che avevo subito fino a quel momento e l’opera di Aro non aveva affatto migliorato la situazione. Ora stavo perfino peggio. Com’era possibile che esistesse un peggio?
Sentivo la strana necessità di stringermi in me stesso per non cadere a pezzi.
Mi chiesi se avevo fatto tutto il possibile per raggiungere lo scopo. Se avessi detto le parole giuste o se avrei potuto aggiungerne altre…più persuasive. Ma aveva letto ogni mio pensiero, cosa vi poteva essere di più convincente. Anche con il senno di poi – considerato lo stato mentale ed emotivo in cui versavo – non mi sembrò che qualsiasi altra parola avrebbe potuto essere più efficace; sempre considerando che non era nella mia indole strisciare o adulare, come probabilmente facevano tutti.
Sospirai. Sentivo la meta vicina eppure quasi irraggiungibile e il dolore sempre più violento ad ogni battito di tempo. Come se non vi fosse un picco massimo, ma la tortura si elevasse sempre di più, senza alcuna pietà.
Cercai con tutte le mie forze di mantenere un minimo di lucidità, che mi consentisse di percepire l’arrivo di Demetri o chiunque altro venisse ad avvisarmi che il mio destino era stato deciso. Come speravo disperatamente che fosse nella direzione che tanto agognavo.
Non so quanto tempo passò – il tormento alterava il mio senso del tempo, dilatandolo all’inverosimile - prima che passi felpati mi costringessero a ricompormi, alzandomi da quella posizione pur rimanendo appoggiato al muro.
Dalla porta si affacciò Alec e mi cercò con lo sguardo, non ero dove si aspettava che fossi. Quando i suoi occhi si posarono su di me, aggrottò le sopracciglia. Per essere un vampiro, ha una pessima cera, pensò sorpreso. “Vogliamo andare?”, mi chiese più cortese di quanto mi aspettassi. Forse gli suscitavo pietà. Speravo l’avessero avuta anche Aro e i suoi fratelli. Altrimenti…
Mi scostai dal muro che mi aveva sorretto e lo seguii senza dire una parola, non valeva il mio sforzo sovraumano per esprimermi. Tornammo nella sala del trono. Alec mi precedette raggiungendo sua sorella, mentre io procedevo a passo lento ma deciso, verso quelli che speravo fossero i miei ultimi minuti di strazio e tormento.
Almeno non sarei esistito più, esattamente come Bella. Certo, non avrei mai potuto raggiungerla, lei era sicuramente in paradiso. A me invece - senz’anima - spettava l’inferno, anche se ero certo che non sarebbe mai stato terribile quanto quello che avevo subito finora.
“Ahhh…eccoti qui…mio giovane amico”, trillò Aro dalla sua postazione di capo supremo dei Volturi.
Grugnii internamente, non preannunciava niente di buono o almeno, niente di buono per me.
“Avete deciso cosa rispondermi?”, chiesi senza perdermi in preamboli inutili.
Aro sospirò. Ed io contrassi i muscoli, pronto all’impatto. “Edward, Edward…hai troppa fretta figliolo”.  
“In che senso?” gli chiesi, perché i suoi pensieri mi fossero più chiari.
“Ci sono opzioni che non hai considerato”.
“Spiegati” gli suggerii, anche se quello che ora scorreva nella sua mente me ne dava un quadro abbastanza preciso. Con ogni probabilità, non avrei ottenuto ciò che volevo. Sentii una stretta violenta al petto, anche se non mi sarei fatto fermare per così poco. Avrei trovato un altro modo.
“Se la tua vita non ti rende sereno, perché non ti unisci a noi? Saremmo molto felici di avere fra noi un elemento tanto valido. Le tue capacità sarebbero le benvenute”.
“Sai che non è questo che voglio” gli risposi gelido.
“Ma potresti prenderlo in considerazione” mi suggerì benevolo, evitando di reagire al mio modo glaciale di rispondergli. Aveva gli occhi puntati sulla preda: un nuovo gioiello per la sua collezione.
“Puoi scordartelo, Aro”, dissi secco e definitivo. Senza alcuna cautela.
“Sprecare così le tue eccellenti capacità…” sospirò scuotendo la testa in segno di disapprovazione.
“Sei disposto a darmi ciò che ti ho chiesto?” replicai in un ultimo tentativo di ottenere ciò che volevo.
“No. Non distruggerò un elemento tanto valido”, rispose come se fossi una merce qualunque.
“Sai che succederà comunque”, lo avvertii. Poi - senza portargli il rispetto che sicuramente tutti gli riconoscevano, aspettando che mi desse il permesso di ritirarmi – girai le spalle e me ne andai.
Nessuno mi seguì. Bene.
Non voleva uccidermi perché aveva puntato gli occhi su di me? Sulle mie capacità?
Lo avrei costretto.
Avrei fatto qualcosa che lo avrebbe spinto a distruggermi, le possibilità non mi mancavano. Nella mia mente vorticavano decine di ipotesi atte scatenare l’ira dei Volturi.
Il dolore sordo che mi pulsava dentro, era il sottofondo alla mia determinazione a farla finita. Raggiunsi l’uscita e tenendomi nella zona in ombra, strisciai lungo le pareti antiche della città.
Era molto diversa da come l’avevo vista la sera precedente.
Le strade pullulavano di gente vestita di rosso. Mantelle dello stesso colore erano ovunque e alle finestre affacciate sui vicoli, facevano bella mostra di sé dei drappi rossi, spesso con ricami antichi. Sembrava proprio che la città fosse in festa. Bene, avrei potuto sfruttare la cosa a mio vantaggio. Per esempio, avrei potuto cacciare. Non credo che Aro avrebbe gradito molto la cosa. Era risaputo che la caccia entro le mura di Volterra era severamente vietata: pena la morte. Quindi, esattamente quello di cui avevo bisogno.
Proprio in quel momento, vidi una coppietta avvolta nelle mantelle rosse inoltrarsi in un vicolo isolato. Perfetto. Li seguii silenzioso e letale. La parte meno nobile di me, esultò al pensiero di sentire nuovamente il sangue umano scorrergli in gola. Pur non vivendo questa caccia come un modo per nutrirmi - ma solo per provocare Aro e quindi, la mia conseguente morte – avevo comunque l’acquolina in bocca. In gola sembrava vi fosse lo stesso inferno che mi bruciava nel petto.
Si fermarono a guardare una vetrina ed io fui sul punto di balzargli addosso, ma all’ultimo momento - quando i miei muscoli erano già contratti per saltargli alla gola - vidi un’immagine che mi gelò.
Il viso di mio padre, i suoi occhi delusi, la sua espressione volta al perdono - alla compassione – e questo mi paralizzò. Ero stato sul punto di deludere mio padre nel modo peggiore. Già stavo per infliggergli un grande dolore, che almeno lo facessi con onore, rispettando le regole della famiglia a cui appartenevo.
Dovevo uscire di scena con dignità e fierezza, degno figlio di mio padre. Desideravo che avesse di me un ricordo appropriato alla persona che era, dovevo essere meritevole dei ricordi della famiglia Cullen. Della mia Famiglia. Quindi dovevo escogitare un modo che - in un certo senso -  rendesse nobile il mio gesto.
Ci riflettei un momento, mentre la coppietta mi passava di fianco e – guardandomi perplessa – si allontanava.
Qual era la cosa maggiormente vietata? Qual era il succo di ogni legge dei Volturi? La risposta fu ovvia: Esposizione.
E quale migliore esposizione se non quella fisica?
C’era il sole.
Le strade erano affollate da centinaia se non migliaia di persone.
Come mai? Si chiese il mio cervello sconvolto.
Gente che festeggiava per le strade di Volterra vestita di rosso.
Ecco! Oggi era San Marco. Festeggiavano la cacciata dei vampiri. Che ironia! Festeggiavano Marcus, inconsapevolmente. Una risata sardonica mi sfuggì fra le labbra spente e tirate. Ero certo che Aro non avrebbe gradito che gli rovinassi la festa.
Questo pensiero, mi diede una soddisfazione in più rispetto a quello che stavo per fare e una motivazione per attuarla al meglio. Nel modo più plateale possibile. Trovata l’idea giusta, la mia mente divenne un po’ più lucida. Dovevo trovare un pubblico il più vasto possibile, le cose andavano fatte per bene. Mi guardai intorno e mi resi conto - che fuori dal vicolo in cui mi trovavo – le persone andavano tutte nella stessa direzione, quella dalla quale venivo io. Stavano andando in piazza.
Tenendomi nell’ombra e imboccando i vicoli più bui ed isolati, tornai sui miei passi. Dopo pochi minuti, fui nel vicolo adiacente al Palazzo dei Priori.
La piazza brulicava di persone avvolte nelle mantelle rosse ed un baldacchino si preparava ad una processione. Il sole splendeva impietoso e meraviglioso, quasi allo zenit. Decisi che visto che le cose andavano fatte come si deve, tanto valeva aspettare il punto massimo d’illuminazione, quindi mezzogiorno. In fondo non mancava poi molto.
Mi appoggiai al muro del vicolo e rimasi nell’ombra ad osservare la scena che mi si parava davanti. All’esterno sarei sembrato un tipo qualsiasi che osservava tutto quel movimento ed avrei insinuato qualche dubbio nei cani da guardia di Aro, che sentivo appostati poco lontano per controllarmi.
Avrei avuto giusto il tempo di agire, prima di essere preso di forza e punito definitivamente, ottenendo finalmente ciò che desideravo con ogni fibra del mio corpo straziato.
Proprio per questo, mi concessi di abbandonarmi ai ricordi. Volevo andarmene avendo lei e solo lei, nella testa. Andai a ripescare le cose più belle che avevamo vissuto insieme, le sue espressioni più buffe, i suoi baci più caldi, i suoi sorrisi più luminosi, il rossore che si scatenava sulle sue gote ogni volta che la guardavo o le sorridevo. Stavo vivendo il mio ultimo paradiso, prima di raggiungere l’inferno o più precisamente, un’imitazione di quello che avevo vissuto nelle ultime ore. Confidavo nell’oblio più totale, nel nulla.
Quando sentii il primo rintocco della torre campanaria - che annunciava mezzogiorno - ero completamente perso nella beatitudine dei miei ricordi più belli. E in loro rimasi, mentre una parte irrisoria della mia mente si occupò di farmi avanzare un passo alla volta verso la luce accecante del sole a picco, sbottonandomi la camicia.
Sentivo l’animo e il viso sereno – le mie labbra dipinte in un sorriso beato - mentre andavo incontro alla morte con lei a riempirmi la mente. Lasciai la camicia cadere a terra e mi preparai a fare gli ultimi passi che mi avrebbero esposto alla luce solare. Tenevo gli occhi chiusi e le braccia distese lungo i fianchi con le mani aperte, quasi a catturare quella luce intensa - quel calore tanto piacevole - per l’ultima volta. Un altro passo e sarei stato in piena luce.
Esposto.
E qualche frazione di secondo dopo – finalmente - sarei morto.
Mentre compivo l’ultimo gesto di Edward Cullen, oltre al viso di Bella impresso a fuoco nella mente, il mio olfatto rievocò il suo profumo infuocante e meraviglioso. Ed un attimo dopo sentii un corpo morbido e caldo, infrangersi contro il mio. Per reazione lo strinsi forte a me ed aprii lentamente gli occhi, confuso dalla certezza di avere Bella tra le braccia. Allora ero in paradiso?
“Meraviglioso”, sussurrai stupefatto. “Mio padre aveva ragione”. 
 
   
 
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