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Autore: Sylphs    17/01/2012    2 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Responsabilità

 
 
 
 
 
Erik aveva abbandonato la solitudine della Dimora sul Lago per dedicarsi all’antico piacere di girovagare non visto nei meandri del suo teatro dell’Opera, riappropriandosi, con il solo passaggio, di tutti quei corridoi, quelle sale, quei cunicoli, quei nascondigli che per troppo tempo aveva dimenticato e che adesso ritrovava con la commozione affettuosa di un padre che rivede i figli a seguito di un viaggio lungo e travagliato. Era stato lieto di scoprire che nulla era cambiato, e che ogni cosa era esattamente come la ricordava, ammantata da un velo di polvere che era l’unica testimonianza del tempo trascorso. Le sue dita avevano sfiorato i luoghi amati e gli era parso che con quel tocco gli stesse infondendo nuovamente la vita e che il teatro si ridestasse improvvisamente grazie alla sua presenza, che la sua struttura si raddrizzasse di colpo e venisse percorsa da un fremito di magia. Anche lui, d’altro canto, si sentiva pervadere da nuove energie e da nuovo entusiasmo via via che riacquistava il controllo sul suo regno, e questa specie di resurrezione reciproca gli dava la conferma che quello era il suo posto e che lui e l’Opera Populaire non potessero esistere senza l’altro.
Troppo a lungo erano stati lontani, troppo a lungo erano rimasti incompleti. Adesso, il teatro aveva di nuovo un’anima e lui era pronto a ricominciare, gettandosi il passato alle spalle. Molte di quelle sale gli parlavano di Christine, c’era da ammetterlo – era passato per il camerino in cui la giovane si era preparata a entrare in scena la sera del suo debutto, per i corridoi in cui l’aveva trascinata con forza la notte del Don Juan e si era concesso persino una visita al tetto, il posto maledetto in cui, non visto, aveva spiato la sua dolce conversazione con il Visconte e aveva assistito al bacio che i due si erano scambiati, una ferita che gli aveva fatto ancor più male di quelle ricevute nel corso della sua ingrata esistenza ma che adesso, per miracolo, non gli doleva più – eppure non un’emozione negativa lo molestava durante la sua passeggiata, non un pensiero sgradito si infilava nella sua mente fredda e lucida. La cantante era cosa vecchia e dimenticata, uno spettro che l’aveva perseguitato per mesi con il suo carico di ricordi ma che l’omicidio, l’odio e il furore avevano infine esorcizzato. Egli non era una creatura fatta per amare, né tantomeno per amare inutilmente.
Compiangeva quegli stupidi gentiluomini che, anche dopo esser stati rifiutati dalla donna amata, seguitavano a professarle eterna devozione e a struggersi per lei. Adesso che aveva infine dimenticato la sua antica musa, stava assai meglio di prima, anzi, non era mai stato più appagato di così, appagato, soddisfatto e pieno di nuovi progetti per il futuro. Stava macchinando di provocare un incidente mortale durante uno dei balletti di prova delle danzatrici, per eliminare la figlia di Madame Giry, l’unica, a parte la donna, a conoscere la sua identità mortale (alla madre, malgrado la decisione di troncare i rapporti, non sarebbe riuscito a far del male, poiché persino lui non aveva scordato d’esserle debitore della vita). Se tutto andava secondo i suoi piani, una trave sarebbe disgraziatamente caduta dall’alto mentre le giovani danzavano e avrebbe travolto soltanto Meg, lasciando incolumi le altre.
Non era uno sprovveduto, sapeva bene di non dover esagerare. Se la lista delle sue vittime si fosse ampliata troppo rapidamente, i direttori del teatro non avrebbero più potuto chiudere un occhio e sarebbero tornati a dargli noia. La cautela veniva prima di tutto. Non era da escludersi l’ipotesi che potesse tornare a ricattarli con lettere minatorie, ordinandogli di mettere in scena solo e soltanto le sue opere e di renderlo una sorta di padrone anonimo che agiva attraverso le loro mani.
Sì, gli si prospettava proprio un glorioso futuro come Fantasma dell’Opera. Nessuno l’avrebbe più umiliato, nessuno l’avrebbe più ridotto in uno stato pietoso. Il teatro dell’Opera per come quella gente lo conosceva era ormai scomparso per sempre…e se la notizia fosse giunta alle orecchie della Viscontessa de Chagny, tanto meglio. Si sarebbe resa conto che non bastava certo il rifiuto di una fanciulla superficiale a fiaccare nell’animo il Signore delle Botole!
Si fermò in uno di quegli stretti e angusti corridoi di cui solo lui conosceva l’accesso, un po’ affaticato dopo aver camminato per l’immenso teatro ormai da ore, e appoggiò la schiena alla parete in cerca di sollievo. I suoi pensieri, meravigliosamente chiari e limpidi dopo mesi in cui avevano sfiorato la follia, il suicidio e la disperazione, indugiarono pigramente sul ricordo della stolta ragazza che il giorno prima era penetrata incautamente nei suoi domini. Sciocca! Aveva forse creduto di poter mettere in atto una cosa simile senza che egli se ne accorgesse? Evidentemente non lo conosceva bene, e a ragione, dato che non l’aveva mai vista prima all’Opera. In ogni caso l’aveva subito edotta sulla sua ingenuità e le aveva dato una prova talmente netta di ciò che era capace di fare, che era sicuro che non sarebbe più tornata a dargli fastidio. Perché, poi? Cosa sperava di ottenere da sola? Le donne erano così curiose! E a lui non piacevano le donne curiose. Quella ragazzina avrebbe fatto bene a non ficcare più il naso nei suoi affari, se desiderava conservarlo!
Un grido acuto, non troppo lontano dal punto in cui sostava, lo strappò alle sue turbinose riflessioni e lo fece scattare in posizione d’attacco in un riflesso inutile, dal momento che intorno a lui tutto taceva e nessuno osava minacciarlo. Chi era stato a urlare, dunque?! Dal timbro, risultava evidente che si trattava di una donna, ma chi, a parte lui, avrebbe mai potuto aggredire una donna in un luogo tanto elegante e rinomato? L’idea che qualche membro della razza umana seminasse terrore nel SUO teatro dell’Opera senza che lui ne fosse a conoscenza, che gli stesse usurpando il suo unico diritto e che risuonasse un grido che non era stato lui a provocare gli sollecitò un autentico urto di fastidio. Lui solo poteva terrorizzare gli abitanti del teatro, lui solo collezionava strilli e gemiti di orrore, e non accettava neanche la più piccola concorrenza, soprattutto adesso.
Aveva programmato di fare ritorno alla Dimora sul Lago per curare meglio i dettagli della sua prossima malefatta, ma decise di concedersi un piccolo strappo alla regola e si avviò con eleganza mortuaria nella direzione da cui era provenuto il grido. La sua espressione era ancor più cupa di un temporale e il lungo mantello nero in cui era avvolto lo seguiva strisciando, rendendolo ombra tra le ombre. Era geloso dell’Opera Garnier così come un amante trascurato è geloso della sua dama, e si sentiva tradito da essa proprio quando si erano ritrovati dopo un periodo di insopportabile separazione. Come si permetteva di concedere ad un altro ciò che finora aveva concesso soltanto a lui? E quel famoso altro, quello sciocco, non lo sapeva che il teatro era suo? Come gli era venuto in mente di agirvi indisturbato, senza temere ritorsioni?
“È proprio vero che ormai il mondo è popolato da immensi imbecilli” rimuginò tetramente. Bene, avrebbe rimediato subito all’incresciosa questione. Non era dell’umore adatto per mostrare clemenza.
Giunto dinnanzi ad una biforcazione, fece per prendere il passaggio di destra, convinto che i rumori provenissero dalla sezione in cui erano collocati i camerini degli artisti, ma un secondo grido, più fievole e soffocato, arrivò a mostrargli l’errore quasi al momento giusto e gli fece sollevare un sopracciglio castano mentre si girava verso il cunicolo di sinistra. Possibile che l’aggressione stesse avendo luogo nella cappella dell’Angelo della Musica? In quella cappella in cui aveva conosciuto Christine, quando lei era una bambina povera e sconvolta dalla morte del padre e lui un ragazzino indurito dai soprusi e dalle percosse ricevute dagli zingari, e in cui per tanti anni l’aveva istruita sotto le mentite spoglie dello spirito benevolo inviatole dal defunto papà Daaé, forgiando il loro legame? Se era così, allora la cosa era ancor più grave di ciò che aveva pensato all’inizio! La cappella era sua quasi nello stesso modo in cui lo era la Dimora sul Lago e quel maledetto imbecille, quell’aggressore sconosciuto la stava dissacrando sotto al suo naso!
Non era furioso perché una scena di violenza si stava manifestando nel luogo in cui aveva conosciuto il suo perduto amore e in cui entrambi erano diventati adulti, vivendo di musica e di inganni, non era a causa dei ricordi legati a essa che si attaccava alla cappella, semplicemente la considerava un suo possesso indiscusso e nessuno, nessuno aveva il diritto di portargliela via. Affrettò notevolmente il passo, il mantello che gli fluttuava dietro le spalle come una cupa nube nera, e oltrepassò una porticina rimpiattata sotto un grande contrafforte come un nido di uccelli sotto un ramo aprendola con la semplice pressione delle dita. Il Signore delle Botole non ha bisogno né di chiavi né di leve, qualsiasi apertura era prona ai suoi ordini.
Fare ritorno nel nascondiglio nel muro dal quale aveva spiato e istruito Christine per tutti quegli anni gli provocò soltanto un vago malessere, che scacciò con fastidio. Quei tempi non gli appartenevano più, e dietro la grata che gli fungeva da finestrella non avrebbe visto la bambina spaurita e persa, e poi la giovane donna fiduciosa e dotata, che non era mai mancata a nessuno dei loro appuntamenti. Si era spogliato della sua identità di Angelo della Musica addirittura prima che lo rifiutasse, stanco del loro legame platonico, e non sarebbe mai rientrato in quel ruolo che gli era sempre andato stretto e che mai aveva sentito proprio.
Incollò il volto mascherato alla grata, gli occhi fiammeggianti, e il suo sguardo allenato notò subito che la vetrata dell’angelo era andata in frantumi e che il pavimento era disseminato dei suoi frammenti. Vestigia del passato che si rompevano, pensò con amarezza, passando alle candele spente e consumate e alla polvere che ricopriva ogni cosa. Senza dubbio, la cappella non era più come una volta…
Una serie di ansiti e di grugniti spostò bruscamente la sua attenzione sull’oggetto della sua rabbia ustionante. Un giovane impeccabilmente vestito, in maniche di camicia e con gli stivali che giacevano pochi passi più in là, era chino su una fanciulla di cui non riusciva a vedere il volto, stesa tra i luccicanti frammenti della vetrata con l’abito strappato a mostrarle il seno e la cascata di morbidi capelli che le cadeva sui lineamenti come una cortina, tramortita e palpitante, la quale si divincolava con forsennata inutilità nella sua stretta ardente. Il giovanotto, che doveva essere un nobile, possedeva quella bellezza arrogante, fiera e scultorea che avrebbe potuto avere anche lui, se solo la parte destra del suo viso non fosse stata contaminata dall’orrore delle piaghe, e contemplava la preda inerme e indifesa con lo stesso sguardo di uno sparviero che osserva il topolino dibattersi tra i suoi artigli, consapevole di avere in mano la situazione e godendo però nel contemplare i suoi sforzi.  Il suo orecchio destro, tuttavia, era stato defraudato del lobo e perdeva sangue scuro e denso che colava in gocce copiose sul seno ansante della fanciulla. Entrambi ansimavano, lei per il terrore, lui per il desiderio, e si esibivano in una danza oscena e brutale a cui Erik non era sconosciuto: nel campo degli zingari in cui era vissuto da piccolo, non era raro che si usasse violenza su una donna e a volte aveva assistito a scene come questa senza volerlo, constatando come sempre si ripetessero uguali.
Adesso, occultato dal suo nascondiglio nel muro, immobile come una statua, fissava i due giovani che lottavano sul pavimento con occhi vuoti e asciutti e un turbinio di emozioni contrastanti si agitava dentro di lui.
Da una parte, c’era qualcosa che lo attraeva in quel ributtante spettacolo, un richiamo carnale che sempre aveva percepito e che sempre era rimasto insoddisfatto. Per quanto lontano dall’idea dello stato sociale e ormai più spettro che vivente, era anche lui un uomo, fatto di carne e di sangue, e la sua spina dorsale non era cieca ai fremiti della lussuria e della brama sessuale. Aveva spesso fantasticato, durante lunghe notti di solitudine e oscurità, di far scorrere quelle sue mani fredde e forti sul corpo morbido di una donna, assaporando il profumo della sua pelle e il calore del suo seno, e non aveva mai potuto tramutare simili brame in realtà a causa della sua maledetta ed ingrata deformità, una spada di Damocle perennemente sospesa sopra al suo capo. L’unica creatura da lui amata, poi, non l’avrebbe mai sfiorata neppure con un dito contro la sua volontà, fintantoché lei non avesse acconsentito a diventare la sua sposa, e tutto ciò che aveva ottenuto dalla sua abnegazione era stato un bacio dato controvoglia al solo scopo di salvare la vita dell’odioso Visconte. Certo, avrebbe potuto ottenere ciò che voleva come stava facendo il giovanotto nella cappella, ma malgrado sostenesse spesso che la parola non avesse alcun significato per lui, aveva un innato senso dell’onore e gli sarebbe parsa una cosa disgustosa, umiliante e per nulla gratificante ricorrere a simili metodi per colmo di disperazione. Aveva preferito soffocare dentro di sé il desiderio e la voluttà piuttosto che sfogarli in quella maniera bestiale.  
Ma c’era una parte di lui, aliena a qualsiasi canone morale (non che fosse solito rispettarli) che avrebbe desiderato trovarsi al posto di quell’uomo avvenente, malgrado non conoscesse neppure il volto della ragazza da lui concupita.
D’altro canto, era anche profondamente indignato e indispettito dallo scempio che era stato fatto alla sua cappella (era chiaro, infatti, che erano stati loro a frantumare la vetrata dell’angelo) e tremava di sdegno e di furia nel vedere come quel luogo tanto importante per lui venisse dissacrato senza alcuna remora. Tutto questo, unito all’invidia cocente che lo divorava dall’interno e al desiderio di impedire che il giovane ottenesse quello che lui aveva solo potuto sognare nel SUO teatro, gli fece prendere la decisione di uscire allo scoperto e interrompere la violenza. Nella cappella c’era buio a sufficienza perché non potessero distinguerlo bene, e aveva allenato la voce a tal punto che poteva renderla a suo piacimento celestiale come quella di un angelo e roboante come quella di un demone. Si sarebbe presentato come Fantasma dell’Opera e a nessuno dei due sarebbe venuto il sospetto che l’apparizione funerea appartenesse invece ad un comune essere umano.
Ora che aveva preso una risoluzione, allontanò dalla mente ogni pensiero di lussuria e di dubbio come faceva sempre prima di mettere in atto uno dei suoi piani e si riempì di quella spietatezza da macchina che gli era divenuta ormai cara. La sua mano coperta dal guanto di pelle nera si appoggiò delicatamente sulla parete che lo nascondeva e premette in un punto segreto, facendo sì che si spostasse di lato, aprendosi un passaggio che mai, con Christine, si era permesso di oltrepassare. Il giovane, nel frattempo, aveva sollevato di appena qualche spanna il corpo palpitante della sua vittima e le aveva fatto sbattere la testa contro il duro pavimento di pietra, probabilmente perché non si stava dimostrando un ostaggio passivo e andava resa innocua.
Era spietato e brutale almeno quanto lui, con l’unica differenza che non ne aveva alcun motivo: era bello, era ricco e le donne non gli mancavano certo. Prima di trasformarsi del tutto nel fantasma, Erik aveva ucciso per difendere se stesso e per vendicarsi dei torti subiti, una cattiveria giustificata, di cui gli unici responsabili erano agenti esterni. Si avvicinò tanto silenziosamente che se anche il giovanotto non fosse stato preso dalla ragazza alla sua mercé, non si sarebbe mai accorto della sua presenza, gli occhi fissi sulla sua schiena magra curva sul corpo inerte della vittima e sulla sua testa bionda che depositava baci da vampiro sul seno nudo e abbronzato. Un’ira rovente gli crebbe in petto, un’ira di cui non si seppe spiegare bene la causa, e lasciò che l’istinto prendesse il sopravvento.
Afferrò il ragazzo per le spalle muscolose e lo sentì sussultare e irrigidirsi. Sollevandolo come se pesasse non più di una foglia, Erik lo allontanò dalla ragazza stesa sul pavimento e lo sbatté rudemente contro l’altare pieno di polvere, il volto gelido e impassibile dietro la mezza maschera bianca e le labbra serrate in una linea sottile. L’altro gridò, di sorpresa e paura, colto nel momento meno opportuno da quell’inaspettato intruso, la camicia semiaperta, i capelli arruffati e la cintura slacciata, e alzò sulla sua figura che lo sovrastava due occhi carichi di rabbia, esclamando, ancor prima di metterlo a fuoco: “Sangue di Dio! Chi siete?!”
Ammutolì all’istante non appena intravide nell’oscurità della cappella la sagoma che lo fissava. Erik lo vide impallidire, mentre cercava di indietreggiare e veniva fermato dalla solida superficie dell’altare, e sorrise sarcasticamente pensando a quanto più forte sarebbe stato il suo terrore se si fosse tolto la maschera. Gli si avvicinò di un passo, circondato del suo lungo mantello, e gli parlò con voce sepolcrale: “Strano che me lo chiediate, monsieur! Io sono il Fantasma dell’Opera!”
A quel nome, gli occhi azzurri del giovane si dilatarono e la mano corse sull’elsa del fioretto che portava alla cintura: “Il Fantasma dell’Opera” ripeté in un soffio: “Che cosa volete da me?”
“Nulla, a parte che te ne vada da qui per non fare più ritorno” sibilò Erik: “Questo è il mio teatro e nessuno può permettersi di farci ciò che gli piace senza il mio permesso. Perciò, se non vuoi accompagnarmi nell’abisso, vattene, chiunque tu sia!”
Il giovane, rianimato dal trasalimento che l’aveva lasciato senza parole per un attimo, scrutò da capo a piedi l’uomo mascherato in piedi davanti a lui e scoppiò in una risata isterica: “Voi non siete un fantasma!” gridò: “E io ho il diritto di fare quello che voglio, dovunque voglio!”
Lo sguardo di Erik divenne cupo: “Per il vostro bene, monsieur…”
“No!” gli si gettò contro in un impeto temerario e incauto, il fioretto levato e pronto a colpire, e mirò al ventre con tutte le sue forze, deciso ad infilzarlo.
Erik non si fece cogliere impreparato.
Intercettò il braccio armato dell’avversario afferrandolo saldamente per il gomito e fermò la lama del fioretto ad un soffio dalla propria carne, senza che la sua fisionomia mutasse nel minimo modo. Incredulo che avesse evitato il suo affondo così facilmente, il giovane cercò di vincere la sua stretta e di liberare il braccio dalle dita artiglianti, ma Erik glielo torse, con un movimento che parve manifestarsi nel tempo di un lampo (il grido lacerante del giovane risuonò per tutta la cappella) e gli strappò di mano l’arma, gettandola sul pavimento con un sonoro clangore metallico. A quel punto, vedendo che l’altro accennava la mossa di allontanarsi, lo afferrò per la collottola con forza terribile e lo sollevò da terra, inchiodando i suoi settantadue chili contro il muro e puntandogli addosso uno sguardo di gelida furia.
“Stammi bene a sentire, moccioso” ringhiò a voce bassa, stringendo la presa sul suo collo fino a colorare il suo volto cianotico di terrore di un viola paonazzo: “Forse non hai capito con chi hai a che fare. Rammenti la sera del Re degli Elfi? Bene, vedo che rammenti. Hai presente il lampadario, quello che è disgraziatamente caduto, spiaccicando la folla? Sono stato io a farlo cadere, io ho reciso la corda che lo teneva attaccato al soffitto e ho provocato il disastro. Nessuno è riuscito a vedermi, nessuno ha capito che c’ero io dietro a tutto quanto, perché sono capace di attraversare i muri e aprire serrature invalicabili con il solo tocco”.
Il giovane, boccheggiante, lo fissò emanando terrore puro, i piedi nudi che si dibattevano convulsi nell’aria e il volto angelico sconvolto in una smorfia, ed emise un rantolo patetico, impossibilitato di parlare.
“Se lo volessi, se mi venisse il capriccio di farlo, potrei ucciderti qui e ora e nessuno sarebbe capace di impedirmelo, tu per primo” proseguì Erik con implacabile calma: “Perciò, se hai a cuore la tua miserabile esistenza e se ti resta ancora un po’ di raziocinio in testa, sparisci dalla mia vista all’istante e non farti rivedere in questo teatro mai più. Metti piede qua dentro e ti giuro che sarà l’ultima cosa che farai!”
Si fissarono negli occhi per un lungo momento, quelli gelidi e impassibili di Erik che cercavano una conferma in quelli dilatati e lacrimanti del giovane, e quelli del giovane che supplicavano i suoi di lasciarlo respirare.
“Sono stato chiaro?” domandò infine. L’altro annuì con foga, tutto il suo orgoglio e la sua superbia svaniti in un lampo, pronto, per un attimo, ad ubbidire a qualsiasi comando pur di potersene andare di lì. Erik sciolse le dita dal suo collo e fece un passo indietro, studiandolo con disgusto mentre scivolava a terra e tossiva, le mani alla gola violacea e il corpo sussultante. Poi, ansioso di liberarsi dalla sua presenza: “Vattene”.
Il giovane riuscì, non si sa come, a tirarsi in piedi, e fuggì dalla cappella come se il diavolo lo inseguisse, senza voltarsi indietro neppure una volta. Solo a quel punto l’uomo mascherato si rilassò leggermente, passandosi una mano guantata sulla parte del viso che la maschera lasciava scoperta. Fortuna che era riuscito a liberarsi di quel moccioso arrogante senza essere costretto a ucciderlo! Da quello che supponeva d’aver capito, doveva trattarsi del viziato rampollo di una ricca famiglia aristocratica, e se fosse stato ritrovato il suo cadavere al teatro dell’Opera e si fosse sparsa la voce che il suo assassino altri non era che il misterioso fantasma, avrebbe avuto guai seri con i suoi illustri parenti. A volte perfino lui era costretto a tener conto di certi particolari.
La breve lotta, seppur gratificante, che aveva condotto contro il Marchesino Rappenau l’aveva stancato, e si volse quasi subito per tornare nella sua dimora e sedere sul divanetto Luigi Filippo con un buon bicchiere di scotch, avvertendo il forte bisogno di fare ritorno nei cupi e oscuri sotterranei…ma con la coda dell’occhio, mentre dava le spalle alla cappella, colse una sagoma esile rannicchiata accanto ai frammenti della vetrata e si ricordò improvvisamente della fanciulla che il nobile aveva cercato di violentare, una presenza alla quale aveva attribuito assai scarsa importanza. In fondo l’aveva salvata non certo per farle un favore, bensì per punire il suo aggressore d’essersi appropriato ingiustamente della cappella che gli apparteneva. Ma ora lei giaceva sul pavimento, probabilmente svenuta, ed Erik indugiava sulla soglia, indeciso sul da farsi. Doveva lasciarla lì? Fare in modo che qualcuno la trovasse? Prestarle aiuto? E perché mai, in fondo? Non era niente per lui.
“Potrebbe essere morta, o ferita” sussurrò una voce dentro di lui: “Quel moccioso le ha fatto sbattere la testa proprio forte, prima”.
In tal caso, doveva andare a controllare. Riconosceva di essere un assassino e di non far più parte del genere umano, ma non avrebbe gradito affatto di essere incolpato di quel delitto, che senza alcun dubbio avrebbero attribuito a lui. Profondamente attaccato alla sua immagine com’era, non intendeva guastarla facendo trovare il cadavere di una ragazza seminuda e coi vestiti strappati. Che non si dicesse mai che il Fantasma dell’Opera era capace di una simile nefandezza!
Infastidito dal contrattempo, tornò indietro fino alla finestra da cui entrava a fiotti l’argenteo chiarore lunare, evitando gli scintillanti pezzi di vetro sparsi sul pavimento di pietra, e si chinò in ginocchio accanto alla ragazza priva di sensi, distogliendo doverosamente lo sguardo dalle sue forme esposte. Non era certo un uomo simile a quel nobile, incapace di controllare i suoi bollenti spiriti e di resistere alla visione di una fanciulla ferita e semisvestita! Tuttavia conosceva bene la natura maschile e la tentazione di indugiare con lo sguardo su quel bel corpo giovane era quasi insostenibile, così si tolse il mantello e la coprì per smorzare parte di quelle brame inammissibili. Desiderava farsi fantasma fino in fondo, e ricadeva in simili debolezze umane?! A quanto pare si era sopravvalutato, un errore che, ahimè, aveva più volte commesso in passato.
La figura slanciata e flessuosa di quella ragazza in qualche modo gli era familiare. Quella massa di indomabili riccioli corvini (così diversi dalla ondulata e malleabile capigliatura di Christine), quell’incarnato olivastro…allungò una mano, incuriosito, e le scostò le ciocche dal volto per metterlo a nudo.
Un’esclamazione di stupore echeggiò per tutta la cappella.
Era la ragazza del giorno prima! Quella che si era introdotta furtivamente nei sotterranei e che lui aveva minacciato nella stanza dell’organo, tenendola in modo tale da non permetterle di scorgerlo in viso. La ragazza che sorprendentemente era riuscita a farsi strada nelle gelide acque del lago Averno fino alla sua dimora e che si era messa in testa la folle idea di appurare la verità sull’esistenza del Fantasma dell’Opera. A quanto pare, quella di attirare i guai doveva essere una sua caratteristica. Era sfuggita per miracolo ad un’uccisione da parte sua, e già nel giro di poche ore s’era cacciata in una situazione di analoga pericolosità, che sarebbe sconfinata nella violenza se lui non fosse intervenuto. Non pensava mai alle conseguenze delle sue azioni?
Osservò con attenzione quel naso diritto, quelle sopracciglia folte e quelle labbra rosso vivo, lievemente dischiuse nello svenimento. Il petto della ragazza si alzava e abbassava con irregolarità, assecondando il moto del respiro, e una piccola pozza di sangue si allargava intorno al cuoio capelluto. Doveva essersi tagliata picchiando la testa. Non era nulla di speciale, graziosa sì, ma coi lineamenti un po’ troppo duri e il naso un po’ troppo aquilino perché la sua potesse essere chiamata bellezza. Le labbra, certo, erano notevoli; un cuore scarlatto che invitava i baci e che aveva gli angoli piegati all’insù in una specie di sorriso. Ma, per il resto, era assolutamente comune, troppo comune, per quello che era stata in grado di fare il giorno prima.
Che cosa doveva farne di lei?
La cosa più saggia sarebbe stata portarla in un luogo più frequentato di quella cappella e lasciare che qualcuno la trovasse e le prestasse soccorso. Tuttavia il teatro era solito svuotarsi quasi del tutto a quell’ora di sera se non c’erano rappresentazioni in corso (e dopo il disastro dell’ultima i direttori si sarebbero astenuti dal proporne un’altra per lungo tempo) e sarebbero potute trascorrere diverse ore, prima che qualcuno notasse la ragazza. Forse addirittura una notte intera. Ma se l’avesse lasciata nell’atrio o in uno dei corridoi in cui i macchinisti si attardavano fino ad un’ora tarda, non l’avrebbe esposta ad un pubblico disonore? Avvolta nel suo mantello, pressoché nuda sotto, con il capo sanguinante e gli abiti strappati…chiunque si sarebbe accorto di cosa era successo. No, qualsiasi uomo al suo posto si sarebbe fatto carico della poveretta e l’avrebbe portata in casa sua e curata.
Ma lui era il Fantasma dell’Opera. E aveva giurato solennemente che mai, mai avrebbe agito per il bene di qualsiasi essere umano. Non sarebbe stato un chiaro indice dell’antica debolezza raccogliere quella sconosciuta che peraltro aveva violato i suoi domini e concederle di tornare nella Dimora sul Lago una seconda volta?
D’altro canto, non aveva in fondo già compiuto una buona azione nei suoi confronti salvandola dagli appetiti del giovane nobile? L’aveva fatto per motivi che non avevano nulla a che vedere con lei, questo era vero, ma il risultato restava uguale. E poi la ragazza aveva già visto la sua dimora e probabilmente si era fatta una vaga idea di com’era lui. Avrebbe potuto minacciarla di morte, se solo si fosse azzardata a parlare con qualcuno dell’accaduto…e cacciarla via non appena si fosse ripresa. In tal modo avrebbe concluso in bellezza la catena di eventi che l’avevano portato in quell’indesiderata situazione e sarebbe potuto tornare ai suoi progetti di morte.
Perché non doveva dimenticare che, anche se era il Figlio del Diavolo, il mostro e l’assassino, si era sempre considerato un perfetto gentiluomo. Non era a sua volta una caratteristica nota del Fantasma dell’Opera? Quella ragazza non era niente per lui, anzi, probabilmente avrebbe dovuto considerarla una nemica, ma soltanto un furfante della peggior specie l’avrebbe lasciata in quelle condizioni e se ne sarebbe andato per i fatti suoi.
Tenerla con sé finché non avesse riacquistato un certo controllo su se stessa sarebbe stata soltanto un’altra azione degna del suo ruolo, educato e bestiale allo stesso tempo.
Sorrise, sinceramente rassicurato dalla piega presa da quell’impiccio, e si chinò a sollevare tra le braccia il corpo inerte della fanciulla.

 
  
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