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Autore: Elfa    01/09/2006    1 recensioni
Ecco... è una breve favola, nata come racconto scolastico un pò di tempo fa... l'ho riscritta perchè mi è piaciuta, niente di più. Si tratta di un racconto modesto, una favoletta per bambini si può dire. Ma spero venga comunque apprezzato. Mi rimetto al vostro giudizio. :-)
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GwinShot 1:

Francesco alzò gli occhi sul grande tabellone che segnava l’arrivo e la partenza degli aerei. Perché il suo decollasse mancava ancora almeno mezz’ora, ma avrebbe dovuto lo stesso avviarsi per fare tutti i controlli e le varie formalità della partenza!

Sospirò: accidenti a lui e al suo maledetto vizio di non prendersi mai per tempo!

Il suo sguardo vagò ancora per un po’ tutt’intorno, sempre alla ricerca del viso di Gwin. Inutilmente.

Si alzò in piedi, preparandosi a raggiungere il punto d’imbarco o come diavolo si chiamava!, quando una voce alle sue spalle lo richiamò indietro. Francesco si voltò con un gran sorriso: conosceva quella voce!

E infatti, eccola lì, Gwin. La sua piccola Gwin. Sempre così distratta! Coi capelli neri scarmigliati dalla corsa, i fermagli di legno che s’impigliavano in ciocche di capelli sparsi, le guance pallide arrossate dalla corsa e dalla frenesia di non riuscire a salutare l’amico. Lo guardò, piegata in due, un sorriso a incresparle le labbra coralline. I suoi occhi verdi scintillarono di un lampo di gioia. Si rialzò e riprese fiato, una mano stretta al fianco. Gli sorrise.

“Uff… temevo di non fare in tempo a salutarti!” Lo sguardo della ragazza si velò di tristezza mentre il suo sguardo scivolava sul tabellone. Tornò a guardare Francesco. “Quindi parti… vai davvero in Inghilterra…” Si sforzò di sorridere. “Complimenti…” “Si…” Francesco nemmeno ci provò a sembrare allegro. “Ti scriverò spesso.” Promise. “E poi potrai venire a trovarmi ogni volta che vorrai! In fondo, anche tu sei di lì, no?” Chiese, cercando di ricucire lo strappo che minacciava di crearsi tra loro. Gwin chinò la testa da un lato, guardandolo dolcemente. “Io sono Irlandese.” Lo corresse. “Ma non importa. Verrò comunque molto volentieri.”

Lui stava per dirle qualcosa, quando dall’alto uno degli altoparlanti gracchiò l’ultima chiamata per il volo Venezia-Londra dell’Alitalia, delle 12.56. Francesco alzò gli occhi verso il cartellone.

“Devo andare…” Mormorò, quasi in tono di scusa. Prima che se ne rendesse conto, l’amica gli aveva già gettato le braccia al collo. Gwin singhiozzò appena. “Lo so…” Sospirò la giovane. “Scrivi. E vediamoci presto.”

Ricambiò l’abbraccio di lei e le strinse le mani, allontanandosi lentamente da lei. Tornò al carrello dei bagagli e lo spinse cigolante, dirigendosi all’imbarco.

L’ultima volta che vide Gwin, fu dal finestrino dell’aereo. Era immobile, sul terrazzo dell’aeroporto, con i capelli neri che si muovevano al vento come al rallentatore, che guardava verso di lui.

Ovviamente, da quella distanza non poteva avere la certezza che fosse davvero lei, ma gli piaceva l’idea che quella donna immobile e coi capelli al vento potesse essere la sua amica che lo guardava partire. Era una bella immagine. Un bel ricordo.

Già… un ricordo…

Da quanto tempo non ripensava al giorno della sua partenza? Un anno? Due? No, probabilmente erano già tre! Tre… eppure gli sembrava ieri!

Bevve lentamente il suo cappuccino. Non era un granché. Dura trovare un cappuccino all’italiana in un bar aeroportuale di Londra. Intendo dire, un VERO cappuccino all’italiana! Quella bevanda sembrava più acqua sporca! Avrebbe dovuto smettere di berla, ma che ci poteva fare? Faceva parte delle sue vecchie abitudini.

Anche se di solito, il cappuccino lo prendeva nel bar davanti a casa sua quando ancora stava in Italia, o lo schifoso surrogato che vendevano nei fast food di Londra, non certo nel bar dell’aeroporto!

Sorrise, finendo l’intruglio.

In fondo non era così male.

Non era male prendere il cappuccino e una ciambella (sostituta della brioche) mentre aspettava che il volo di Gwin atterrasse.

No, non era affatto male aspettarla, dopo tanto tempo che non la vedeva! Certo, si erano scritti e talvolta si chiamavano… ma non si può dire che sia la stessa cosa che parlarsi a quattr’occhi, davanti a una buona colazione o a una tazza gigante di cioccolata calda! Qualcosa di dolce, che tanto piaceva a lei!

Finì di ingollare la ciambella e alzò gli occhi, mentre una voce inglese, metallica e strascicata, annunciava che il volo che aspettava era arrivato. Si alzò. L’appuntamento era all’uscita sessantasei. C’era un po’ di strada da fare… avrebbe fatto meglio a prendere la macchina!

Gwin lo aspettava giusto lì, il trolley al suo fianco, i capelli sempre lunghi, tenuti ugualmente fermi da uno spillone di legno con un’immagine intagliata, simile a quello che aveva quando lui era partito.

Gli gettò le braccia al collo non appena se lo ritrovò di fronte, ridendo come una ragazzina. Non che lui si comportasse in maniera molto più matura… le schioccò un gran bacio sulla guancia, ben lieto di potersi slanciare con lei in quelle effusioni che tra loro erano normali, ma che laggiù, nella fredda Inghilterra, ti attiravano almeno qualche occhiata scandalizzata.

Ma in fondo, a chi importava? Finalmente era arrivata! Aveva accettato il suo invito ed eccola lì!

Si staccò da lui e lo guardò a lungo.

“Sono davvero felice di essere qui!” Ridacchiò la ragazza, sistemandosi meglio i capelli nella crocchia. “Mi sei mancato molto, in questi ultimi tempi.” Anche Francesco si liberò a un sorriso. “Anche tu…” Raccolse la sua valigia. “Ho la macchina qui fuori. Vieni, a casa parleremo meglio!”

La casa di Francesco si trovava in un piccolo paese fuori Londra dato che in città era impossibile trovare un appartamento. Meno che mai a prezzi decenti! E poi gli piaceva tornare a casa ed essere lontano dal traffico e dalla vita frenetica della metropoli. Era bello potersi immergere in quell’atmosfera d’altri tempi e dimenticare per un po’ il resto del mondo.

Si trattava di uno di quei cottage tipicamente inglesi, persi in un mare di verde e con ancora il riscaldamento a legna. Gwin ne fu entusiasta! Così come fu entusiasta del piccolo castello abbandonato che sorgeva sopra una collina, appena fuori dal paese, tanto che alcuni giorni dopo, a colazione, si azzardò persino a proporre un pic-nic da quelle parti!

Francesco non ebbe nulla da ridire: se lo aspettava e per questo aveva preso un paio di settimane di ferie dal lavoro, giusto per stare un po’ con la sua amica che, lui lo sapeva bene, era sempre un vulcano di idee e certamente avrebbe trovato il modo di riempirgliele abbondantemente, quelle due settimane!

Ripensò alla loro conversazione…

“Ho visto che c’è un vecchio castello, in cima a quella collina, fuori dal paese…” Aveva detto lei, spalmando una quantità di burro non indifferente sulla sua fetta di pane tostato. L’aveva guardata da sopra la tazza, annuendo. “Il vecchio castello dei Lancaster, sì… è abbandonato da tempo.” “E si può visitarlo?”

Francesco abbassò la tazza e si pulì la bocca, concedendosi un attimo di suspance. Sorrise. “Non c’è alcun guardiano. Anche perché sarebbe inutile: in realtà non è che una cerchia di mura con qualche rudere qua e là! Per il governo non varrebbe nemmeno la pena di farne un’attrazione turistica, così è completamente abbandonato!” Con quelle parole, non cercava certo di farla desistere, dato che quel genere di luoghi suscitava in Gwin un’irresistibile attrazione, ma gli sembrava corretto dire le cose come stavano.

Come previsto, all’amica non sembrò nemmeno vero di poter visitare del tutto gratuitamente un posto così antico e dall’aria così magica! A Francesco non era restato che simulare un sospiro esasperato e uscire a fare la spesa per il cestino da pic-nic che avrebbero dovuto riempire.

E così, eccolo là a controllare il pranzo per l’ennesima volta: the, sandwich, una torta tagliata a fette e avvolta nello scottex, alcune bottigliette d’acqua di quelle piccole e, per finire, l’immancabile termos con dentro un buon caffè.

La giornata prescelta per il pic-nic si rivelò luminosa e piacevolmente tiepida; La pioggia che era scesa impietosa fino al giorno prima, aveva lasciato il posto a un cielo a pecorelle, spazzato dal vento.

Gwin corse avanti, ridendo come una ragazzina, per nulla affaticata dalla salita che portava al castello (o come diceva Francesco, alle quattro pietre messe in croce.); Francesco la seguiva sbuffando e arrancando: non gli era mai piaciuta la montagna, questo è poco ma è sicuro! Alzò la testa, cercando di capire quanto mancasse alla meta e scoprì con orrore che Gwin era scomparsa dal sentiero. Sentì il cuore balzare in gola e corse avanti, in ansia, cominciando a chiamarla a gran voce.

Per fortuna, eccola apparire in cima alla salita, sorridente ed eccitata. Gli fece dei gran gesti con le mani, facendogli segno di raggiungerlo.

Con un sospiro a metà tra il rassegnato e l’esasperato, Francesco consumò l’ultimo tratto di strada che portava alla cima. Dopo la salita si apriva un tratto pianeggiante su cui un tempo si innalzava una cinta di mura.

Dell’antico maso non restava che un rettangolo di pietre che un tempo erano state le fondamenta. Qua e là, i ruderi delle grandi mura che una volta dovevano alzarsi imponenti.

Quel posto metteva addosso una strana malinconia, come tutti i luoghi che un tempo erano stati il centro di grande attività e che ora erano abbandonati all’incuria del tempo. L’erba era bagnata dalla recente pioggia e odorava di terra e di fresco. Qua e là sbocciava qualche timida margherita, annunciante l’imminente primavera.

Stesero la coperta sull’erba fresca e sistemarono da mangiare. “Sembra un pic-nic da cartone animato!” Pensò Gwin. E chi avrebbe potuto darle torto, con quella coperta a scacchi bianchi e rossi e il cestino di vimini! Sorrise, servendosi di pollo freddo e torta salata. Anche Francesco si era avventato con entusiasmo sul pranzo: probabilmente, non era un granché doversi arrangiare e pranzare con dei panini fatti in casa o il cibo sospetto che ti servono al McDonald o chi per lui!

La ragazza alzò gli occhi al cielo e si lasciò cadere all’indietro, ammirando le nuvole dalle mille forme che si muovevano e cambiavano velocemente forma e dimensione. Sospirò, felice, mentre l’amico serviva da mangiare.

Francesco la guardò con uno strano sorriso sornione sulle labbra e lei si voltò su un fianco ad osservarlo di rimando, curiosa. “Cosa c’è?” chiese, e lui rispose, con un identico sorriso “Niente… è solo che mi mancava quel tuo sorriso…” Le passò un piatto.

Quanto tempo era passato da quando era stata così bene? Secoli. Forse millenni. Non era così serena da quando, quel giorno lontano, aveva lasciato la sua casa, nel cuore dell’Irlanda. Certo, stare con Francesco le dava una certa sensazione di benessere, era sempre stato così, fin da quando l’aveva conosciuto, ma ora… ora sembrava che ci fosse qualcosa di più… forse la vicinanza con la sua terra… certo quel posto era…

“Magico…”Mormorò al vento. Francesco, già mezzo assopito dal pranzo e dall’arietta piacevolmente tiepida di quella giornata si alzò appena, guardandola con le palpebre socchiuse “Hai detto qualcosa?” chiese a mezza voce. Gwin si voltò, sorpresa. Sorrise. “No… nulla.” Guardò altrove. “O almeno, nulla di importante.” Aggiunse poi, come per un ripensamento. Voltò di nuovo gli occhi su di lui; si era già riaddormentato.

La giovane continuò a fissare l’orizzonte senza in realtà vederlo e, quasi meccanicamente, cavò di tasca qualcosa e cominciò a giocherellarci. Forse era lui… possibile… probabile persino… certo, per il suo cuore. Si chinò accanto a lui e gli infilò in tasca la pietra verde che teneva in mano.

Francesco non si accorse di nulla.

A quel punto Gwin si alzò e stette per un attimo immobile, come in ascolto, guardando giù dal colle, verso la macchia di alberi che si allargava poco distante. Sospirò e si voltò un attimo a guardare Francesco un’altra volta, forse l’ultima, e un sorriso triste le si allargò sul volto, mentre cominciava a scendere la salita e si inoltrava tra gli alberi sempre più fitti che sembravano chiudersi alle sue spalle, come a nascondere il suo passaggio.

Gwin continuò a camminare nel folto, con gli alberi che sembravano farsi da parte per lasciarla passare e poi si richiudevano subito dopo, dietro di lei.

La giovane raggiunse una piccola radura dove,lungo i bordi, l’erba cresceva più alta e verde smeraldo, come la pietra che giaceva ora nelle mani di Francesco. Gwin si chinò, posando una mano sull’erba che fu percorsa da un fremito e si piegò come se soffiasse il vento. I rami degli alberi si allungarono e si intrecciarono, formando un soffitto verde e oro, illuminato dall’alto dai raggi del sole. E poi, la radura si popolò…

Piccole creature simili a libellule, dalla pelle scura e simile a corteccia, gnomi vestiti di verde o rosso, delicate ninfe dalla pelle azzurra e i capelli candidi e ondeggianti, creature piccole e grandi, luminose ed eteree come piccole luci pallide nel sole e fanciulle bellissime ma dall’aspetto selvatico, con fiori intrecciati nei capelli neri, gli occhi verdi e la pelle color della terra bruciata dal sole.

Si radunarono tutte intorno a Gwin, in attesa silenziosa. Lei sospirò, le ali venate di verde e azzurro che scintillavano. Sospirò e riuscì a sorridere a tutti loro. “Sì…” Mormorò la giovane fata. “L’ho trovato, il custode. Il nostro regno non svanirà dalla memoria per altri mille anni…” Urla di giubilo si levarono dalla folla magica.

Un trono di legno chiaro sorse dal terreno e Gwin vi si sedette, silenziosa, ma incapace di essere infelice. Qualche satiro e dei folletti corsero a prendere gli strumenti: liuti, flauti e un’arpa, persino, suonata da una giovane ninfa delle acque. Appena le prime note si alzarono verso il cielo, il popolo magico aprì le danze.

Una luce sanguigna e dorata illuminò la collina, allungando le ombre delle pietre e di tutti gli oggetti. Francesco si alzò a sedere di scatto, guardandosi attorno: dov’era Gwin? Si alzò veloce in piedi, chiamandola a gran voce. Nulla. Possibile che se ne fosse andata senza dirgli una parola? E poi che ore erano? Già il tramonto… va bene assopirsi, ma quanto aveva dormito?

Va bene, pochi scherzi! Doveva trovarla! Assolutamente! Chissà dove si era cacciata poi… corse giù per la collina, inoltrandosi nel boschetto.

Inciampò per un paio di volte nelle radici degli alberi.

Ma il sentiero… dove era il sentiero? Possibile che fosse sparito? Che cosa succedeva? E perché il bosco era così fitto? Continuò a correre, pur rendendosi conto di essersi perso. Chiamò Gwin a gran voce. Ancora. E ancora. E ancora, fino a che non inciampò per l’ennesima volta in una radice. Cadde in avanti, sbucciandosi le ginocchia e i palmi delle mani. Imprecò piano, tirandosi a sedere e alzando gli occhi su una radura. E per un attimo non credette ai suoi occhi: Gwin era lì, seduta su un trono di legno, intagliato in una forma sinuosa, con due grandi ali scintillanti verdi e azzurre sulle spalle, circondata da tanti esseri strani, dalla forma umanoide ma con caratteristiche molto diverse tra loro e con gli uomini, che danzavano in maniera forsennata attorno a lei. Per quanto assurda, un’idea cominciò a prendere forma nella sua mente…

“Il piccolo popolo…” Mormorò, quasi impercettibilmente. Gwin si girò come se lo avesse sentito. Gli sorrise dolcemente e scese dal suo trono, andandogli incontro.

Francesco notò che non poggiava i piedi per terra. Avanzava verso di lui librandosi nell’aria. Gli sorrise.

“Sei sorpreso?” chiese dolcemente, posandosi davanti a lui. Francesco era rimasto senza fiato per la sorpresa e non rispose subito. Riuscì solo ad annuire. Gwin gli rivolse un sorriso ancora più largo e si chinò su di li, prendendogli il viso tra le mani. “So che ti sembra incredibile… hai sempre detto di non credere in queste cose… eppure siamo reali. Puoi vedermi, toccarmi… dovresti esserne contento, puoi dirti un essere umano eletto…” Gli disse. Lui la guardò senza capire.

“Ma chi… cosa…?” Riuscì solo a dire, confuso. Gwin si alzò in piedi e lo guardò, facendo un segno come ad abbracciare la radura e tutti i suoi occupanti. “È il mio popolo questo che vedi.” Lo guardò un momento. “C’è una pietra nella tua tasca. Se la tieni con te, potrai vederci. E attraversare, se lo vorrai, le porte del nostro mondo.”

Francesco rimase a guardarla, spostando poi l’attenzione su quella strana gente. Rimase per un attimo in silenzio. “Perché mi dici questo? Perché mi fai questo dono?” Chiese. Gwin guardò lontano. “Perché il legame che unisce i nostri mondi non si spezzi. Perché qualcuno racconti ancora la nostra storia. Perché gli uomini non perdano la capacità di sognare.” Lo baciò dolcemente sulle labbra e, alla luce della luna che ormai era salita nel cielo, disparve, portando con sé i danzatori e lasciandogli nelle orecchie le note fatate della musica.

Non rividi più Gwin da quel giorno. Avevo ancora la sua pietra ma non la usai che poche volte, e mai per attraversare.

Ho fatto ricerche sul piccolo popolo, da quel giorno, mi sono informato sulla gente di Gwin. E ho imparato che un mortale sarebbe molto sciocco a cercare spontaneamente di entrare in contatto con il piccolo popolo. Perchè questa gente non è composta solo da folletti dispettosi e spiriti benigni. Ci sono anche degli esseri da cui sarebbe meglio stare alla larga.

Creature malvagie, che finora ho avuto la fortuna di non incontrare mai.

È passato del tempo da allora e io mi sono tenuto dentro tutto ciò che mi era successo.

Fio a che, un giorno, non mi sono messo davanti al computer e ho cominciato a scrivere la storia di Gwin.

L’ho fatto così, senza pensarci troppo, lasciando che le parole scorressero.

Non sono uno scrittore.

Le parole mi sono venute naturali, quindi forse vi sembrerà un racconto sciocco o infantile… o forse, il delirio di un pazzo. Io, l’ho temuto molte volte.

In ogni caso, questo racconto ora è qui, nero su bianco.

Ho mantenuto l’impegno che avevo preso con Gwin.

Ho raccontato la sua storia.

Ho portato la mia… testimonianza, se così si può dire…

Sperando davvero che qualcuno legga questo racconto, un giorno.

E che la fantasia degli uomini non svanisca, avvizzendo tra le sabbie del mondo e del tempo…

Il Custode

  
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