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Autore: Alkimia    18/01/2012    3 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo primo
Il diario


~ Parigi, 18 aprile 1892 ~

Il facchino che gli aveva aperto la porta stava per lasciarsi scappare di mano la custodia del suo Stradivari. Non era affatto un buon inizio.
«Per quanto tempo monsieur gradisce rimanere nostro ospite?».
La voce dell'albergatore suonava più leziosa che gentile. Il ragazzo fece un garbato sorriso mentre tentava di reprimere il moto di stizza nel vedere il facchino armeggiare in maniera maldestra con i suoi bagagli.
«Per una settimana» rispose.
Rumori ovattati riempivano l'aria dell'ampio ingesso pavimentato in marmo verde. Facchini e inservienti in giacca scura si muovevano lungo le scale, sui sofà damascati alcuni signori erano seduti a fumare o a leggere il giornale. L'albergo era più appariscente che elegante, ma glielo aveva consigliato un amico da poco rientrato da un viaggio in Francia, era in una zona centrale della città e Louis non era particolarmente schizzinoso né aveva altre idee riguardo al posto in cui alloggiare. Per quel pomeriggio gli bastava solo che il facchino non gli rovesciasse le valige lungo le scale.
Fuori, una leggera foschia cominciava a serpeggiare su Parigi. Louis aveva notato che man mano che si avvicinava alla destinazione del suo viaggio la primavera sembrava un po' più sfuggente, il clima era meno mite città dopo città.
L'albergatore gli consegnò la chiave della sua camera e si congedò con un largo sorriso, un cameriere gli fece strada lungo le scale e lo accompagnò fino alla porta.
La stanza aveva un'aria confortevole e anonima, con carta da parati chiara e tende scure. I vecchi mobili di noce dalle forme squadrate avevano un che di tetro, come pure il quadro in cima al letto, un mediocre dipinto di una Madonna vestita di azzurro.
A Louis non piacevano gli alberghi. Guardò i suoi due bauli da viaggio posati su un tavolino rotondo e di colpo si sentì svuotato. La stanchezza accumulata durante il viaggio si andava mescolando a uno strano senso di smarrimento. Il giovane si ritrovò a pensare che sarebbe tornato immediatamente indietro, se avesse potuto. Era una sciocchezza, certo, molti suoi amici gli avevano invidiato quel viaggio ed erano mesi che progettava di andare a Parigi, gli era parsa una cosa importante, ma adesso che era lì cominciava a chiedersi se non si era lasciato condizionare un po' troppo da sua madre. Era stata lei a regalargli il biglietto del treno per il suo ventesimo compleanno e gli aveva detto, con la scarsa convinzione che hanno le madri quando devono fare certe affermazioni, che era adulto e che era tempo che lui affrontasse certe cose, poi gli aveva dato il quaderno rilegato in pelle rossa che ora era sistemato dentro la custodia del suo violino.
Louis sapeva cos'era quel quaderno e sapeva perché sua madre glielo aveva dato. Quello che non capiva era come mai lei riteneva importante che lui andasse fino a Parigi per poterlo leggere, perché, dopo aver passato tutto quel tempo a proteggerlo da certi segreti, ora voleva che li affrontasse da solo, lontano da casa.
La camera era provvista di un'angusta stanza da bagno, Louis aprì il rubinetto del lavandino e la tubature emisero un lungo sibilo rauco prima che l'acqua cominciasse a scorrere. Il ragazzo si sciacquò il viso e osservò la sua immagine nello specchio chiazzato di umidità. Gli occhi scuri erano arrossati e stanchi, cerchiati da un accenno di occhiaie livide.
Odiava doverlo ammettere, ma l'idea di essere così lontano da casa gli metteva malinconia e nel silenzio della camera si sentì solo come non gli era mai accaduto prima di allora.
Il viaggio, fatto quasi tutto in treno, era stato noioso e lungo ma il ragazzo non aveva voluto concedersi troppe pause tra una stazione e l'altra, anche se spesso si ritrovava a guardare dal finestrino paesaggi che trovava incantevoli, scorci di cittadine e monumenti che avrebbe voluto visitare. Tuttavia aveva preferito non perdere tempo e continuare verso Parigi.
Nelle interminabili ore segnate dal dondolio del vagone e dal chiacchiericcio degli altri passeggeri, il suo sguardo si era posato spesso sulla custodia del violino, ma non l'aveva mai toccato e il quaderno era ancora lì, come il suo personale vaso di Pandora.
Non aveva toccato quel diario nemmeno durante le soste nelle locande dove passava la notte, nell'attesa della coincidenza che lo avrebbe portato qualche chilometro più vicino alla sua meta. In quelle serate preferiva mettersi a suonare. Suonava per se stesso, ma non gli dispiaceva lasciarsi ascoltare e così se ne restava un paio di ore nella sala comune di qualche piccola pensione in qualche cittadina sconosciuta, a suonare e ad accontentare le richieste che qualche locandiere o qualche viaggiatore di passaggio gli facevano. Quando gli andava bene, riusciva a far innamorare di sé una ragazza, almeno per il tempo di una sera e si ritrovava ad amoreggiare con qualche giovinetta graziosa sul retro della locanda, guardando il cielo e chiacchierando del posto da cui veniva o fantasticando del luogo verso cui era diretto.
Gli piacevano le ragazze. Sua madre avrebbe preferito che si trattasse di una ragazza, una qualsiasi, con un nome, dei modi gentili e il dono del sorriso. Lui per adesso preferiva le ragazze, senza nomi che occorresse ricordare.
Louis si lasciò cadere sul letto e affondò il viso tra i cuscini. Le lenzuola odoravano di pulito, ma il materasso era un po' troppo morbido e la rete cigolava. Tentò di dormire almeno un'ora, prima di cena, ma non ci riuscì affatto. C'era un silenzio terribile tra quelle quattro pareti, un silenzio che sembrava assordante come il peggiore dei rumori e che gli stava facendo venire un cerchio alla testa.
Il ragazzo si alzò, avvicinò una sedia alla finestra e continuò a leggere il romanzo che aveva comprato durante una sosta a Nizza, una vecchia copia rilegata in tela di un romanzo inglese. L'inglese non era la lingua che gli era più congeniale, ma impegnarsi in quella lettura aveva fatto trascorrere molto più velocemente le ore di viaggio e l'attesa in stazione prima che arrivasse il diretto per Parigi.
L'idea di aprire la custodia del violino e prendere il quaderno non lo sfiorò nemmeno. Forse domani, si disse. Forse mai.
«E se non fossi affatto pronto, madre?» mormorò al vuoto.
Sua madre non era il tipo di donna da sbagliarsi su certe cose, lo conosceva bene e di certo non si era mai sbagliata su di lui. Ma c'è sempre una prima volta.
Si era assopito sulla sedia, in una scomoda posizione, con il libro che gli era scivolato di mano. Stava anche cominciando a sognare quando fu risvegliato da uno schiamazzo di risate proveniente dalla strada. Scostò la tenda alla finestra, guardò fuori e scorse un crocchio di ragazzi e giovinette che passeggiava nella strada laterale all'albergo, parlavano rumorosamente e ridevano. Allora Louis si ricordò che era a Parigi, che quello era il viaggio che ogni ragazzo della sua età aveva sognato almeno una volta nella vita, che poteva essere, tutto sommato, un viaggio di piacere, il regalo per i suoi vent'anni da poco compiuti.
Mise da parte la stanchezza e la malinconia, si cambiò i vestiti, pettinò i capelli scuri e lisci – che aveva deciso di lasciar crescere ma che per ora arrivavano solo fino alla nuca – e uscì dalla stanza fischiettando tra sé e sé il motivetto di un'aria lirica.
«Monsieur non cena con noi?» domandò cortesemente l'albergatore vedendo che era diretto verso il portone.
«Non stasera, grazie» rispose il giovane con un rapido sorriso, prima di uscire e andare incontro a un tramonto leggermente velato da una sottile nebbiolina e a un labirinto di strade e luoghi sconosciuti e affascinanti.

La serata era umida malgrado fosse già aprile inoltrato, Louis si chiese come faceva la gente a vivere in un posto con un clima tanto impietoso.
Si infilò in un bar con un'insegna tarlata che recava la scritta Messidor. Era un posto del tutto ordinario e anonimo, ma c'era un bel tepore e il vecchio che suonava la fisarmonica in un angolo stava eseguendo un motivetto allegro.
Il ragazzo ordinò un bicchiere di cognac e lo sorseggiò lentamente, guardandosi attorno e origliando i discorsi degli altri avventori per mettere alla prova il suo francese, una lingua che conosceva molto bene ma nella quale non si esercitava da un bel po'.
Dopo diverso tempo, decise che per uscire da quel bar e affrontare l'aria fredda di quella serata gli serviva un altro goccio di liquore e considerò che non gli importava se aveva bevuto già il goccio di troppo, dopo il quale i pensieri cominciano a mettere le ali.
Louis ingollò il cognac che gli avevano appena servito e restò a fissare il bicchiere vuoto con sguardo vacuo.
«Bevete come uno che è triste. Siete triste, monsieur?» domandò la cameriera, riponendo alcuni boccali puliti su una mensola.
«Ottima domanda, ragazza».
Cielo, la cameriera doveva avere un paio di anni meno di lui, perché lo chiamava monsieur? Aveva davvero l'aria da giovane signore per bene? Forse sì, era sempre stato un po' vanitoso e, visti gli ambienti che frequentava in Italia e l'educazione ricevuta, aveva preso l'abitudine a mantenere un contegno distinto un po' in tutte le circostanze.
Louis uscì dal bar qualche minuto dopo e trovò comunque molto piacevole camminare senza meta per le strade sconosciute della capitale francese. La città sembrava non conoscere la differenza tra il giorno e la notte. Anche il posto da dove proveniva lui era trafficato ad ogni ora, ma lì il confine tra la notte il giorno era ben chiaro, anche se non gli aveva mai fatto particolarmente paura, lui conosceva le ombre della sua città e sapeva come attraversarle senza esserne danneggiato, quando cresci in certi luoghi diventa naturale.
Parigi però vibrava di vita attorno a lui, nelle luci dei lampioni che facevano concorrenza alle stelle riflettendosi sulla superficie della Senna, nel viavai di passanti. Le voci della città erano una sinfonia di accenti diversi, turisti e gente del luogo riempivano le vie o sostavano all'ombra di palazzi maestosi e imponenti come la storia che avevano visto passare sotto le loro finestre. A qualche incrocio c'erano degli artisti di strada che raccoglievano piccole folle, Louis indugiò nel guardarli tutti per lunghi minuti ogni volta che ne scorgeva qualcuno, e di colpo si sentì dimentico della nostalgia, della stanchezza e dei fantasmi che erano ancora in attesa dietro la copertina del quaderno.

Quando il ragazzo fece ritorno in albergo, l'euforia provocatagli dall'alcol e da quella sensazione di entusiasmo che accompagna sempre le cose nuove stava ormai scemando, restituendogli amplificato tutto il senso di spossatezza e quella gelida sensazione di solitudine e smarrimento che aveva provato solo poche ore prima.
Salutò svogliatamente l'albergatore all'ingresso e andò a chiudersi in camera, dove si spogliò tra uno sbadiglio e l'altro.
Spense le luci, dalla finestra entrava un leggero alone dello scintillio di Parigi che disegnava un'incerta linea di luce attraverso uno spiraglio tra le tende chiuse. Nel semibuio della stanza, fece per raggiungere il letto, ma urtò i bauli sul tavolino e la custodia dello Stradivari che vi era poggiata sopra cadde a terra, aprendosi e facendo rovinare sul pavimento il suo contenuto.
«Maledizione!». Il ragazzo si chinò a raccogliere il violino, assicurandosi che non si fosse danneggiato. Sospirò di sollievo quando vide che la superficie lucida di abete rosso non aveva nemmeno un graffio. La fascia laterale dello strumento recava intarsi di madreperla disposti a creare una sobria decorazione geometrica, sulla parte destra la decorazione si interrompeva per lasciare il posto a una minuscola scritta in lettere dorate: Pour Louis.
Il ragazzo ripose il violino nella custodia che posò su una sedia. Il quaderno era rimasto a terra, accanto ai piedi del tavolo. Louis scorse la sagoma rettangolare nella penombra, la copertina di pelle rosa era lisa dal tempo e le decorazioni dorate negli angoli ormai erano quasi del tutto invisibili.
Avvicinò cautamente la mano all'oggetto che era riverso sul pavimento, come se temesse di scottarsi toccandolo, lo sollevò e fece scorrere le pagine di spessa carta ingiallita contro il polpastrello del pollice.
Era certo colpa della stanchezza, di quel bicchiere di troppo e delle emozioni della serata appena trascorsa, ma il fruscio dei fogli sembrò simile a un sussurro che soffiava impercettibile il suo nome.      
«Va bene...» mormorò Louis, accendendo la lampada sul comodino. Posò il quaderno sotto il cono di luce giallastra e sollevò la copertina. Le vecchie pagine avevano un odore appena percettibile, una fragranza dolciastra come di fiori appassiti. Prima di iniziare a leggere allungò una mano per cercare a tentoni il suo cappotto, c'era un portasigarette di argento nella tasca interna. Non era un gran fumatore, molto tempo prima suo padre gli aveva detto che il fumo rovina la voce. Non che la cosa fosse rilevante, Louis non aveva una voce particolarmente bella e non aveva mai avuto attitudine per il canto, solo per la musica. Ad ogni modo, fumare lo aiutava a distendersi quando era nervoso e in quel momento sentiva una strana ansia che gli attanagliava lo stomaco e un senso di irritazione per una circostanza che aveva cominciato a trovare del tutto inconcepibile.

Ho sempre saputo... tanto, ho sempre saputo...

Si ripeté che aveva sempre saputo che c'era qualcosa di drammatico che riguardava la sua famiglia, qualcosa che lui prima o poi avrebbe dovuto conoscere. Fin da quando lo aveva capito non aveva fatto altro che aspettare il momento della verità ma ora che il momento era arrivato si accorse di avere paura.   

Tanto non cambia niente...

Pensò che era tutto inutile. Cosa sarebbe cambiato ormai? Conoscere o meno il contenuto di quelle pagine non avrebbe fatto alcuna differenza, non avrebbe aggiunto o sottratto un solo grammo di amore per la sua famiglia.
Fu tentato di chiudere il quaderno, riporlo in fondo a uno dei bauli e dimenticarsene fino al suo ritorno a casa. Ma non lo fece
Louis aspirò un lungo tiro dalla sua sigaretta poi soffiò dalle labbra schiuse una nuvola di soffice fumo bianco e cominciò a leggere.
La data sulla prima pagina era quella del 2 marzo 1871. Erano scritte poche righe, in francese, in un corsivo allungato, una calligrafia elegante ma troppo frettolosa:

Curioso che il primo dono che io abbia mai ricevuto sia questo diario.
Curioso che mi si inviti a scrivere quando non ho più parole da dire... ne ho avute mai?
Ciò che so è che non ho mai avuto un posto nel mondo, e allora mi chiedo come mai mi sento così in esilio, così distante da ciò che credevo mio al punto che ormai neanche tornare con i ricordi a quello che è stato riesce più a farmi male.
Non sento niente se non un vuoto nel quale riecheggiano rimpianti dei quali non parlerò affinché la loro voce possa zittire.
Non sento nemmeno un vero e proprio malessere dell'anima. Forse perché il dolore è per chi ha qualcosa da perdere e io ho già perso tutto (compresa la mia anima, evidentemente).
È stato per una donna, per...

Louis corrugò la fronte.
A quel punto della frase c'erano dei segni imprecisi, come se la mano di chi scriveva avesse improvvisamente avuto un tremito fortissimo, e su quelle lettere sformate c'erano diversi segni di cancellatura. Il proprietario del diario era andato a capo e aveva ripreso a scrivere.

Non scriverò quel nome, né mai lo pronuncerò. Quali e quanti che siano i giorni che ho da vivere saranno nuovamente solo miei.

Il ragazzo si morse le labbra a sangue. Non gli piacevano quelle parole, non solo per la tetra malinconia che trasmettevano, ma anche per i sottintesi che lasciavano intuire e per tutto quello che non lasciavano capire. Cosa era accaduto? Per quale donna? Perché?
Louis aveva atteso a lungo di conoscere la storia di suo padre e lui ora non c'era più, tutto ciò che restava della verità da cui lo avevano sempre voluto proteggere – così dicevano – era un diario in cui già dalla prima pagina non c'erano altro che omissioni.
Il ragazzo scagliò via il quaderno con rabbia, l'oggetto urtò il muro e cadde, alcune pagine si staccarono dalla rilegatura e volarono lontano.
Il giovane restò a fissare i fogli immobili sul pavimento e la copertina di pelle ora ammaccata in un angolo.
Aveva amato quell'uomo, aveva amato suo padre. Questo fu l'unico motivo che lo spinse ad alzarsi, raccogliere il diario e le pagine staccate e riporre tutto sul comodino prima di scivolare in un sonno profondo e senza sogni.  

*******

~ Napoli, 02 marzo 1871 ~

Una volta, aveva costruito il suo mondo dal silenzio e dal buio, riempiendolo della sua musica e dello sfavillio delle candele che riflettevano le loro fiamme negli specchi.
Una volta era bravo a combattere il nulla e a trarne piccole, personali magie, prodigio dopo prodigio, notte dopo notte, lacrima dopo lacrima. Poteva farlo, un tempo, con la forza di chi cela dentro di sé così tanto ingegno, così tanta immaginazione da far tremare le stelle.
Ora quel mondo che non era il suo, quella città straniera tentavano di invadere il nulla che aveva dentro, l'ultimo baluardo contro la pazzia che aveva minacciato di distruggere quel po' che restava di lui.
Come ogni mattina, furono i rumori della strada a svegliarlo. Erik aprì gli occhi su quella camera elegante, presa da assedio da un sole tiepido e smagliante come un sorriso finto. Da quando era giunto in quel posto aveva dovuto abituarsi a molte cose e quello di cambiare abitudini non era uno dei suoi talenti migliori. Il solo fatto di trovarsi in una casa dannatamente piena di luce e di gente, un palazzo nobiliare nel centro di Napoli, lo rendeva irrequieto.
Non che avesse mai incontrato quella gente, comunque: sia i domestici sia gli ospiti di Palazzo Giusso non mettevano piede in quelle stanze, su perentorie istruzioni del duca. Mariano Giusso era convinto che gli servisse tempo e glielo stava concedendo in gran quantità. I giorni passavano senza peso e senza volto, ed erano già quasi due settimane che era lì.
Come se fosse una questione di tempo!

«Avete mai visto uno specchio rotto ricomporsi?» aveva chiesto a bruciapelo al duca, in uno di quei pomeriggi in cui il nobiluomo veniva a fargli visita e trascorreva lunghe ore in silenzio, in attesa che lui parlasse.
«Avete mai visto miracoli avvenire senza la fede?» aveva replicato il suo ospite.
Erik non aveva risposto. La fede era una faccenda che non lo riguardava, era una dote che non possedeva ed era certo che, se anche ci fosse stato qualcuno in grado di compiere qualche miracolo, non sarebbe stato lui a beneficiarne.
L'istinto invece, quello sì che ne aveva. Era stato l'istinto a convincerlo a lasciare la Dimora sul Lago, un attimo prima che la folla inferocita che si era riversata nei sotterranei dell'Opera lo raggiungesse. Quando si era risvegliato in quella camera da letto, giorni dopo, aveva maledetto se stesso e ogni singolo passo che lo aveva condotto lontano da quella gente e dalla loro rabbia.
Non era stata una sua scelta quella di essere salvato ed essere portato via da Parigi. Del viaggio in nave non conservava quasi alcun ricordo, nelle poche ore in cui era stato vigile aveva sentito solo la sua pelle bruciare e la gola ardere, per tutto il tempo la febbre non gli aveva lasciato tregua. Poi si era semplicemente risvegliato, con la testa pesante e lo sguardo appannato, e aveva capito di essere lontano, lontanissimo da tutto ciò che aveva conosciuto. Questa consapevolezza gli aveva dato le vertigini, poi lentamente era affiorato il nulla, il ricordo che di quel suo mondo non era rimasto niente. Nemmeno il buio, forse, nemmeno il silenzio. Solo frammenti di illusione e pezzi di vetro sulla pietra nuda.
E a lui adesso non rimaneva nemmeno il dolore. Non si piange la perdita di qualcosa che non si è mai posseduto.
Dopo tutto ciò che aveva sempre sperato, con tutto ciò che aveva desiderato fino a smarrire la ragione, aveva ottenuto solo cose che non gli occorrevano. La salvezza e l'aiuto di un brav'uomo erano cose importanti ma a lui non servivano. Lui non...

Io non le merito.

Aveva passato alcuni giorni a letto, a riprendersi dagli strascichi della malattia. Poi semplicemente aveva preso atto della sua condanna: essere vivo.

Le lunghe visite del duca, durante le quali restava semplicemente seduto vicino a lui senza dire nulla, stavano cominciando a diventare fastidiose.
Dentro di sé, Erik sapeva che avrebbe dovuto essere grato a quell'uomo e non aveva intenzione di incolparlo della delusione che provava nel sentire il proprio cuore battere ancora.
La coscienza fa fare cose strane e assurde, come aiutare un folle assassino o lasciare andare la donna che si ama proprio in nome dell'amore.
Erik sapeva che prima o poi avrebbe dovuto trovare delle parole per il duca e, miracoli o meno, avrebbe anche dovuto prendere una decisione su cosa fare e su dove andare.

E poi c'erano le visite della ragazzina. La piccola Luisa compariva spesso nella sua stanza, con la caparbietà dei bambini che credono che tutto si possa risolvere, che vedono il mondo come una favola in cui a tutti spetta un lieto fine.
Il primo giorno in cui era venuta da lui, Luisa gli aveva chiesto, a suo modo, di cantare.
«Non oggi... e nemmeno domani. Mai più» le aveva risposto lui. E lo aveva detto con il tono di un giuramento, come se fossero parole incise su una lapide, eterne e definitive. L'Angelo della Musica era morto quando la fanciulla che lo aveva chiamato a sé anni prima se n'era andata lasciandolo solo con la sua disperazione e con la sua sconfitta.
Il giorno dopo Luisa era tornata e gli aveva chiesto di nuovo di cantare. Lui le aveva detto di no ancora una volta, senza nemmeno voltarsi a guardarla, continuando a fissare dalla finestra il cielo che si tendeva verso la primavera in arrivo.
Il terzo giorno la bambina si era presentata nella sua stanza con un violino, era vecchio e impolverato, forse apparteneva a qualche parente che non c'era più ed era rimasto a lungo chiuso da qualche parte.
Doveva volerlo a tutti i costi il suo lieto fine quella ragazzina caparbia.
«No» aveva detto lui lanciando un'occhiata torva allo strumento.
La piccola aveva annuito e aveva poggiato il violino sul piano di un mobile poi, come faceva ogni volta, si era seduta alla finestra, di fronte a lui, e si era messa a guardare la strada fino a quando qualcuno non l'aveva chiamata per dirle che era ora di cena.
Il quarto giorno, quando Luisa era tornata, Erik le aveva detto che il violino era scordato e che una delle corde era sul punto di spezzarsi. Lei aveva fatto un sorriso furbo e l'uomo le aveva rivolto un'occhiataccia.
Il quinto giorno Erik aveva suonato per lei. E aveva pianto.  

Quando quel pomeriggio Luisa tornò a fargli visita, Erik capì subito che aveva qualcosa nascosto dietro la schiena, ma finse di non accorgersene.
La ragazzina era ancora convinta di potergli regalare un lieto fine in qualche modo e Erik non aveva alcuna arma per persuaderla del contrario.
Dopo aver lanciato uno sguardo preoccupato al vassoio con il pranzo che non era stato toccato, la bambina saltellò fino alla sedia su cui era seduto e gli mostrò cosa aveva per lui. Era un oggetto rettangolare, avvolto in un paio di strati di carta velina.
«Ti ringrazio» mormorò Erik con aria non troppo convinta.
Il pacchetto conteneva un grosso quaderno rilegato in pelle rossa, con dei ghirigori dorati negli angoli della copertina. L'uomo lo guardò senza capire.
Luisa prese un foglio dallo scrittoio e tracciò una parola a matita.
«Diario?» fece Erik perplesso. «Io non scrivo diari. Non credi che sia sciocco?».
La bambina arricciò il naso in un'espressione crucciata e scosse energicamente la testa, poi si batté l'indice sul petto.
«Ne hai uno anche tu?» chiese Erik, lei annuì. «E non credi che io sia... troppo grande?».
Luisa sbuffò e prese un altro foglio e scrisse a grandi lettere, calcando il tratto con gesti stizziti:
SERVE PER PARLARE CON TE STESSO QUANDO NON SI PARLA CON GLI ALTRI
TU NON PARLI MAI CON GLI ALTRI

«Non ho bisogno di parlare con me stesso» protestò Erik.
La ragazzina lo guardò con occhi sottili e dondolò la testa coma a dire: sì, invece!
L'uomo sospirò. Un tempo, in quella primavera di due anni prima, gli era piaciuta la compagnia di quella bambina, gli piaceva ancora ma cominciava a rendersi conto che ciò che lo turbava di quella situazione era il fatto che Luisa e suo padre nutrivano delle speranze per lui e a Erik la speranza ormai sembrava solo una tortura.
Ah, se solo avessero potuto guardargli dentro, avrebbero scoperto che non aveva più un cuore né un anima. Non era cambiato nulla da quella notte a Parigi, restava soltanto...

… soltanto la musica.

Restava la musica – glielo aveva dimostrato quella piccola peste cocciuta. E un quaderno pieno di pagine bianche che lui non sapeva come riempire.
Non parlava con gli altri perché non aveva nulla da dire – e in ogni caso non era una cosa alla quale era avvezzo, non poteva parlare con se stesso perché non aveva più voce. Dopo tutti quegli anni in cui la sua anima aveva urlato e implorato per farsi ascoltare da un Dio assente, non gli rimaneva più fiato.  
Lo sguardo di Luisa si era fatto penetrante, colmo di attesa, e aveva ben poco di infantile. Quella ragazzina era cresciuta in fretta e non doveva essere stato facile crescere senza voce e senza madre. Di certo, quando si è costretti a stare in silenzio si impara ad avere la pazienza di comprendere e di ascoltare. Ma Erik non aveva nulla da dirle o da farle capire.
«D'accordo. Lo metto qua» concesse posando il quaderno sullo scrittoio. «Se mi verrà voglia di parlare con me stesso lo farò».
La ragazzina inclinò la testa di lato e sbatté le palpebre.
«Promesso» aggiunse l'uomo.

*

Era ormai sera inoltrata e Erik sentiva il sonno cominciare a bruciargli gli occhi. Non amava dormire, non gli piaceva l'idea trascorrere ore di inattività e quasi odiava il fatto di avere bisogno di riposo, come tutti gli altri.
Era abituato a non dormire molto, era quasi come un'abilità coltivata nei giorni in cui la sua vita era fatta di note su uno spartito, quei lunghi mesi dedicati alla stesura di un'opera, il Don Juan Trionfante, il suo stesso sangue fatto musica e poesia. Un componimento che parlava del trionfo del peccato, della vittoria dell'inferno sul paradiso e della passione su ogni altra istanza.
Poteva restare un giorno e una notte seduto al suo organo a scrivere, senza mangiare, senza preoccuparsi di niente, senza rammentarsi di nulla. Quando aveva completato la stesura di quell'opera era stato certo che non sarebbe mai più riuscito a comporre musica, anzi, era stato così sicuro che tutto il suo sangue fosse su quegli spartiti tanto da sentire il cuore saltare un battito dopo l'altro, e non gli era importato: aveva finito, poteva anche andarsene, poteva anche smettere di preoccuparsi del buio. Ma invece il suo cuore stava battendo, batteva per una fanciulla.
Il Figlio del Diavolo aveva osato posare lo sguardo su una delle migliori creature di Dio.
Come aveva potuto essere così sciocco da non capire che tutto ciò sarebbe stata la sua fine? Come aveva potuto concedersi di sperare?
La mente di Erik mise da parte quelle domande, non aveva senso tormentarsi oltre, non occorreva cercare risposte che non gli sarebbero state più di alcuna utilità.
L'aveva amata... l'amava, l'avrebbe sempre amata. Era una consapevolezza talmente potente e così ingombrante nella sua testa da non aver bisogno di altri pensieri, di non aver bisogno nemmeno del ricordo.
L'eloquenza di quell'amore riusciva a sopraffare persino le immagini di morte che popolavano i suoi incubi, era un canto che si innalzava al di sopra della sinfonia di distruzione che intonava la sua mente ogni volta che il Fantasma dell'Opera tentava di guardarsi alle spalle.
 
L'uomo chiuse gli occhi e si beò semplicemente della quiete che regnava attorno a lui. Durante il giorno c'era sempre rumore, ma ora c'era solo buio e silenzio, proprio come la volta precedente in cui aveva cominciato a lottare contro il suo destino.
Senza più curarsi del sonno e della stanchezza, Erik accese la lampada sullo scrittoio e guardò il quaderno che gli aveva regalato Luisa, accarezzò la copertina di pelle liscia e morbida al tatto e si lasciò sfuggire uno strano ghigno.
C'erano tante pagine bianche in quel diario, e regalarglielo non era stato un invito a scrivere il suo lieto fine, era stato come augurargli di avere una vita con cui riempirle, di prorogare il finale ancora molto a lungo. Erik si accorse di non volere davvero una vita, ma ancora una volta avrebbe strappato al mondo tutto il sole che poteva e avrebbe nutrito la sua personale notte senza fine. Se proprio doveva continuare a camminare sulla quella terra maledetta privo di anima, allora lo avrebbe fatto seguendo la sua strada.
Sollevò la copertina, intinse la penna nel calamaio e cominciò a scrivere.   

Curioso che il primo dono che io abbia mai ricevuto sia questo diario...


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Here, I have a note...

I Giusso erano una ricca famiglia nobiliare italiana di origini genovesi che si trasferì a Napoli agli inizi del 1800. Il loro palazzo, acquistato dal duca Luigi Giusso, è ancora lì ed è attualmente la sede dell'Università Orientale, uno degli atenei di Napoli. Nella seconda metà dell'800 il loro nome era parecchio influente a Napoli, infatti a partire dal 1878 Girolamo Giusso fu sindaco della città e poi ministro e senatore del Regno d'Italia. Il duca Mariano Giusso e sua figlia, nonostante siano collocati nel vero palazzo, sono comunque di mia invenzione (come tutti gli altri personaggi originali che compariranno nella storia).

La storia è molto avanti sul mio pc, per cui pensavo di postare regolarmente un capitolo a settimana. Ci si legge mercoledì prossimo!

I remain, gentlemen, your obidient servant.

   
 
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