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Autore: Sylphs    18/01/2012    3 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La musica oltre le ombre
 

 
 
 
CIAO! STO POSTANDO ASSAI IN FRETTA, CMQ X CHI AVESSE LETTO IL CAP DELLA CAPPELLA, QUESTO NON è QUELLO DOPO, MA QUELLO ANCORA DOPO! AU REVOIR ;)Vivian era immersa totalmente, completamente nell’oblio. Intorno a lei si stendeva un universo di ombre, fitto e denso, che la avvolgeva al modo di una coperta pastosa e quasi soffocante, e vaghi brandelli di ricordi, fugaci accenni di pensiero rischiaravano il buio solo alla lontana, subito inghiottiti dal suo peso immane. Le sembrava di non avere più un corpo, d’essere fatta solo e interamente di oscurità, e che il suo intero essere ne trasudasse da tutti i pori, dalla bocca, dal naso, dalle orecchie e dagli occhi. Non c’era nulla a cui potersi aggrappare, nulla che la aiutasse a risalire dall’abisso in cui era sprofondata. E forse non voleva neanche risalire. Aveva la sensazione che se avesse invitato la consapevolezza a tornare, ad aspettarla avrebbe trovato una verità che non desiderava apprendere, una verità che l’avrebbe segnata per sempre.
Ma c’era…una musica. Una musica…dissimile da tutte quelle che aveva udito finora, una musica troppo celestiale, intensa e terribile per poter essere definita con quello sciapo, anonimo aggettivo che è “bella”.  
Anche perché non era bella. Era…non trovava parole per descriverla. I suoi nervi, il suo sangue, le sue ossa, i suoi muscoli fremevano insieme alle note violente e terribili della melodia che la richiamava dall’oblio e ne era contaminata, così come sarebbe stata contaminata da un veleno che le entrava con lentezza studiata nell’intero sistema circolatorio. Mai, in tutta la sua vita, le era capitato di sentire qualcosa di così straziante ma allo stesso tempo di così sublime, un incredibile mix di angoscia e disperazione allo stato puro che si mescolavano, in una maniera che non avrebbe mai creduto possibile, a suoni talmente paradisiaci da riuscire a vincere la cappa di oscurità che incombeva sulla sua mente e a risvegliare la coscienza intorpidita e riluttante. Cieca alla luce come Euridice, prigioniera di un mondo di buio, ascoltava il canto di Orfeo che le giungeva da un luogo oltre le ombre (perché, insieme alla musica sublime, risuonava anche una voce d’uomo, una voce d’angelo, perfetta come se Dio stesso la stesse ispirando) e la seguiva brancolante e ammutolita, desiderosa di afferrarla, di farne parte, di fondersi con essa fino ad esserne invasa completamente. Una voce del genere, pensò, doveva essere capace di richiamare gli spiriti dal mondo dei morti e di sciogliere il cuore più crudele, e il fatto che lei, proprio lei, da sempre ostile nei confronti dell’arte canora, potesse goderne, la riempiva di vergogna e di disagio. Simili cose erano troppo perfette, troppo sublimi perché le orecchie umane potessero sopportarle, e forse sarebbe morta, il suo piccolo, debole cuore avrebbe ceduto a quell’utopia di suoni e di timbri strazianti.
Aprì gli occhi sulla consapevolezza che il canto aveva risvegliato e lo trovò ancora lì, poco lontano da lei. Non era stato un sogno, non era stato Dio a mandarle quella musica di paradiso per richiamarla dalle tenebre perpetue. Essa era reale, e proveniva da una persona reale.
Ma per un attimo parve offuscarsi, confondersi in una nebbia rossa come il sangue, allorché tornarono i ricordi, perle restituite ad una collana di cui avrebbe preferito non conoscere mai il contenuto: la vetrata dell’angelo che andava in frantumi spargendo ovunque frammenti scintillanti, il volto bestiale e lussurioso di Antoine che incombeva sopra di lei, le sue mani impudiche e brutali che le strappavano gli abiti con foga violenta e il colpo alla testa, il tremendo colpo che aveva provocato il suo svenimento.
Un terrore cieco, folle, opprimente montò dentro di lei con la potenza di un cocchio trainato da demoni e le mancò del tutto il respiro. L’aveva violentata?! Era riuscito nel suo disgustoso intento, mentre lei giaceva priva di sensi e pressoché impotente? Le era stato strappato il suo fiore prezioso dal colpo di falce di quella bestia, che contro la sua volontà l’aveva abbattuto e colto per poi distruggerlo e gettarlo via? Ma perché, in quel caso, non avvertiva alcun tipo di dolore o di cambiamento dentro di sé? Simili orrori devono per forza lasciare un segno, si diceva, non è possibile che capitino così, senza che quasi me ne renda conto! E dov’era allora il Marchesino?
La sua mano tremante si infilò sotto il morbido tessuto adagiato sul suo corpo (una coperta?!) e tastò freneticamente il punto in cui erano allacciati quei pochi brandelli di abiti rimastole, scoprendo, con suprema meraviglia, d’essere completamente avvolta in un ampio mantello nero come la notte, in cui s’era rannicchiata nell’incoscienza a causa del freddo. Di sicuro un simile indumento non apparteneva ad Antoine (quando aveva provato a usarle violenza indossava una giacca turchina, lo ricordava bene) e non era nemmeno suo, avendo una taglia visibilmente maschile. Ma allora chi…
Un grido soffocato le sfuggì dalle labbra quando vide dove si trovava.
Era sdraiata su di un baldacchino che dominava una stanza da letto assai singolare, illuminata soltanto dalla fiammella di una candela e dotata di un piccolo bagno con il necessario per provvedere ad un’attenta toletta diversi giorni. Le pareti erano di pietra, così come il soffitto e il pavimento, abbellite da drappi rosso porpora laceri e polverosi, e il letto sul quale giaceva era circondato da cortine di un nero impalpabile e provvisto della statua in legno di un cigno dalle ali spalancate. Una corrente gelida penetrava fino a lei attraverso una tenda che pareva costituire l’unico accesso all’esterno e da essa proveniva quella musica sublime, straziante e terribile che l’aveva richiamata alla veglia.
Conosceva quel posto. Era la Dimora sul Lago.
Ma non era assolutamente possibile che lei si trovasse lì, stesa su quel letto e avvolta in quel mantello! Chi ce l’aveva portata? Un solo nome le giungeva alla mente, tuttavia si rifiutava di credere ad un’eventualità tanto assurda e fantastica, all’idea che il Fantasma dell’Opera potesse averla…
D’altro canto, chi altri poteva essere stato? Nessuno a parte Madame Giry conosceva la strada per la Dimora sul Lago, e certo se la donna l’avesse trovata in quelle condizioni l’avrebbe condotta a casa propria, anziché in un luogo per lei tanto pericoloso. Il responsabile doveva essere per forza il Fantasma dell’Opera. Anzi, probabilmente l’aveva persino salvata da Antoine, dal momento che adesso sapeva, senza ombra di dubbio, di non essere stata posseduta da lui. Ma perché l’aveva fatto? Quale oscuro motivo l’aveva spinto a giungere in soccorso della stessa ragazza che il giorno prima aveva provato a ficcanasare nei suoi domini? Forse aveva cambiato idea sul fatto di risparmiarla? Si era pentito di averla lasciata andare, e l’aveva condotta lì per eseguire la sentenza? E se era così, che cosa era peggio, quella situazione di incertezza e di dubbio, o gli appetiti mostruosi di Antoine?
Le domande erano troppe, e la maggior parte di esse non aveva risposta, così Vivian si sforzò di fare chiarezza tra i pensieri e di decidere la prossima mossa con un po’ di senso pratico. Era stata portata nella Dimora sul Lago dal misterioso Fantasma dell’Opera, per una ragione che le era oscura, e collocata in quel letto dove adesso si era ripresa. Antoine l’aveva aggredita come un brigante, non curandosi del suo rifiuto, e se fosse uscita da lì si sarebbe trasformato in un problema davvero enorme, ma per il momento era meglio non pensarci. Si disse che, se voleva apprendere almeno i motivi per cui era stata condotta nei sotterranei, doveva alzarsi e cercare il “fantasma” che solo il giorno prima aveva minacciato di ucciderla. La cosa non la allettava affatto, ma non aveva altra scelta, e posticipare il momento della verità avrebbe soltanto accresciuto la sua angoscia e la sua incertezza.
Scostò le cortine nere che circondavano il letto e si mise in piedi con una certa fatica, il corpo dolorante per la lotta sostenuta contro il Marchesino. Aveva un sapore metallico in bocca, e quando vi passò la mano con disgusto, s’accorse che agli angoli era sporca di sangue rappreso. Si ricordò di aver staccato il lobo dell’orecchio di Antoine a morsi e rabbrividì per un misto di raccapriccio e di oscuro compiacimento. Almeno l’aveva marchiato e gli aveva impresso sul corpo un segno indelebile della sua resistenza. Guardandosi allo specchio l’orecchio martoriato, il giovane si sarebbe sempre ricordato di lei e dei suoi denti che gli affondavano con ferocia nella carne. E se lo sarebbe meritato.
Ma non voleva pensare ad Antoine o a quello che aveva tentato di farle. Era un’esperienza che avrebbe preferito con ogni forza cancellare, per quanto l’umiliazione e la vergogna le gravassero addosso come un macigno. Come si era permesso?! Solo perché lei era povera e senza protezione, si era sentito in diritto di fare ciò che più gli piaceva per dimostrarle di sapersi prendere quello che voleva, con o senza il suo consenso?
“Lo ucciderò” sussurrò a se stessa con gli occhi scuri luccicanti di una collera sanguinosa, felina, mortale: “La prossima volta che ci incontreremo, lo ucciderò”.
Si fece spazio spostando di lato la tenda che bloccava l’ingresso della camera da letto e sbucò nell’immensa sala sotterranea che costituiva il grosso della Dimora sul Lago, illuminata macabramente dalle fiammelle tremolanti delle candele e semisommersa da quelle acque scure, torbide e nebbiose. La ragazza si strinse nel mantello, colta da un brivido (aveva dimenticato quanto lugubre fosse quella visione) ma, suo malgrado, socchiuse gli occhi per il piacere nel sentire la voce angelica che cantava nell’oscurità e le note penetranti che accompagnavano i suoi mesti e intonati lamenti.
Quella musica era talmente intensa e trascinante da far sbiadire l’orribile rifugio sotterraneo  per trasformarlo in qualcosa di luminoso, splendente e puro. Quella musica squarciava i veli dell’apparenza e degli inganni e rivelava ciò che c’era oltre le ombre. Avrebbe potuto perdersi dentro di essa, annegare nelle note che addensavano l’aria di incanto e abbandonarsi in un’estasi delirante ai voleri della voce maschile che celebrava con quella passione la perfetta armonia dei suoni…
Ma all’improvviso tutto tacque, come se la sua presenza avesse spezzato una magia di cui quel luogo tracimava, e lei sbatté le palpebre, barcollando e sostenendosi alla tenda come se l’avessero schiaffeggiata, ritrovandosi in mezzo alle nebbie dell’incantamento. Possibile che una persona razionale come lei si facesse stordire da un po’ di musica?! Che bastasse questo a privarla di tutta la sua stabilità e il suo raziocinio e ad annebbiarle gli occhi di false illusioni di bellezza?
Certo, però, se quella era soltanto “un po’ di musica” allora…
“Vi siete svegliata, dunque”.
Trasalì a quella voce gelida e aspra, risuonata nell’improvviso silenzio come una sentenza di morte. Era la stessa che poco prima cantava la disperazione e la solitudine con quella deliziosa intensità, lo capiva, eppure i toni, gli accenti erano così diversi, così snaturati…come se si fosse imposta di relegare unicamente nel canto quel timbro angelico di cui la natura aveva voluto fornirla, per parlare con l’accento brusco e roco di un demone. Era la voce di un assassino e di un nemico, di un individuo che si era ripromessa di odiare finché avesse avuto respiro, tuttavia l’estasi indotta dalla musica di cui era l’artefice non l’aveva ancora abbandonata del tutto, e si volse nel punto da cui proveniva con una stupida espressione sognante. Fu sciocco da parte sua, ma si aspettava di trovare una creatura dalla bellezza ultraterrena, perché soltanto qualcuno dall’apparenza magnifica e pura poteva possedere una tale abilità nel canto…
Gli occhi le caddero sullo splendido organo che aveva ammirato durante la sua sciagurata visita precedente. Un uomo alto e muscoloso sedeva sullo sgabello foderato di velluto rosso, le dita guantate che indugiavano sui tasti immacolati, e la fissava con gelida impassibilità da dietro una curiosa mezza maschera bianca che gli copriva soltanto la parte destra del volto, lasciando esposta la sinistra. La sua età era indefinibile (gli diede tra i trentacinque e i quarant’anni) e vestiva completamente di nero, un abbigliamento che sembrava scelto appositamente per essere in sintonia con lo stile della dimora. Capelli folti, castano scuri, gli incorniciavano il viso fino alla nuca e le sue iridi erano di un azzurro scuro come il mare in inverno, due laghi che nascondevano un brulicare di emozioni sconosciute e selvagge.
Si fissarono per un lunghissimo istante, immobili nelle loro posizioni, illuminati dalla sola luce delle candele, Vivian accanto all’ingresso della camera da letto, i riccioli scarmigliati, lo sguardo impaurito e guardingo e le mani che si torcevano nervosamente sul mantello in cui era avvolta, e l’uomo seduto accanto all’organo, minaccioso e ambiguo soprattutto a causa di quella strana maschera. La giovane avrebbe voluto strappargliela, per avere un quadro completo della sua faccia che, almeno sulla parte sinistra, presentava tratti nobili e abbastanza regolari. Ma, sebbene non ne conoscesse il motivo, sentiva che quella era una cosa da non fare assolutamente.
Era dunque lui il famigerato Fantasma dell’Opera? Il demone che aveva riso sguaiatamente della loro disfatta la notte del “Re degli Elfi”, la presenza che l’aveva minacciata il giorno prima, l’individuo che l’aveva condotta in quel luogo chissà per quale motivo? Il proprietario della voce d’angelo? Quell’uomo cupo e taciturno dagli occhi ingannevolmente freddi e dall’espressione impassibile, troncato a metà da una patina di cuoio bianco?
“Vi siete svegliata” ripeté con quel tono curiosamente aspro, come se la sua presenza lo irritasse (eppure era stato lui a portarla lì!) e alzandosi dallo sgabello per volgere su di lei lo sguardo calmo e selvaggio di quegli incredibili occhi azzurro scuro. Vivian deglutì, rimproverandosi severamente per essere rimasta a corto di parole, e sostenne il suo esame ottico senza batter ciglio, tenendo la schiena dritta e la testa alta. Non gli aveva fatto alcun torto, quella volta, non si era introdotta lì di sua volontà, e non gli avrebbe permesso di condurre il gioco come nel loro precedente incontro, impugnando sempre il coltello dalla parte del manico. La vista del suo corpo umano e della maschera dietro cui si nascondeva avevano scacciato la magia della sua musica celestiale e in lei si erano riaccesi tutto l’odio e la sete di vendetta.
“Perché mi avete portata qui?” sibilò, inquisitoria, rafforzando la stretta sui lembi del mantello.
Un sorriso privo di allegria si disegnò sulle labbra del fantasma: “Siete alquanto sgarbata, mademoiselle” commentò con cortesia pericolosa: “In fin dei conti vi ho salvato la vita. Sareste finita davvero male, se non vi avessi tolto di dosso quell’immenso imbecille”.
Gli occhi di lei si strinsero minacciosamente: “Dunque è questo che avete fatto? Mi avete salvata?” intrise di una particolare enfasi l’ultima parola, lungi dall’idea di ringraziarlo. Una sola buona azione non lo redimeva certo da tutte quelle malvagie, e sospettava che non l’avesse compiuta affatto per prestarle aiuto, anzi.
Lui parve contrariato dal suo tono visibilmente ironico: “Lo credete così assurdo, mademoiselle?”
“Al contrario” ribatté lei, radunando il suo coraggio: “Lo troverei scontato, se si trattasse di qualsiasi altro essere umano…ma nel vostro caso, lasciate che ve lo dica, mi sembra ai limiti dell’impossibile”.
Una pausa di silenzio si dilatò nell’atmosfera tesa dei sotterranei, durante la quale risuonarono soltanto il mormorio del lago e lo zampettio di qualche topo solitario.
Alla fine, il Fantasma dell’Opera si decise a parlare: “Mostrate un bel coraggio rivolgendovi a me in questo modo. Ben pochi esseri umani oserebbero tanto. Confido che la mia fama sia giunta anche alle vostre orecchie…”
“Non la chiamerei certo fama!” Vivian alzò la voce, indignata da quella superbia, incapace di frenare le sue emozioni persino in quella pericolosa circostanza: “Ho assistito di persona ad una delle vostre gesta, monsieur Fantòme, e mi è bastato per capire quanta oscurità vi portiate dentro e quanto sia profonda la perdizione della vostra anima!”
Gli occhi chiari di lui la inchiodarono, con una tal forza da schiacciarla quasi contro il muro di pietra: “Voi non avete idea di cosa sia la perdizione, mademoiselle”.
Lei cercò di reprimere un brivido. Era consapevole della propria posizione di svantaggio e non avrebbe mai creduto di dover essere debitrice all’individuo che più detestava a parte Antoine, tuttavia non era il caso di sfidare troppo la sorte: “Perché mi avete portata qui?” ripeté, con tono più incalzante.
Lui sospirò – sospirò davvero! – e si avvicinò al punto in cui si era fermata con passi eleganti e silenziosi, lo sguardo che scivolava oltre il suo viso come se lo reputasse poco importante o troppo poco interessante per perdersi nei giochi delle ombre della Dimora sul Lago: “Vi ho portata qui perché non sono il genere di mostro che lascia una ragazza seminuda e priva di sensi alla mercé di chiunque. Forse siete convinta che non agisca in base ad alcun canone morale, e magari avete anche ragione, ma questo è il mio teatro e soltanto io posso decidere chi far soffrire e chi no”.
Vivian gli lanciò uno sguardo obliquo: “E immagino che tali decisioni siano spesso in balia dei vostri umori e dei vostri discutibili calcoli, monsieur”.
“Non devo dare motivazioni a nessuno, tantomeno a voi” il tono brutale con cui vennero pronunciate queste parole la invitava a chiudere l’argomento: “Vi ho sottratta a quel ragazzo malgrado la vostra intrusione di ieri, cosa di cui dovreste essermi grata, e mi aspetto almeno che non mi infastidiate con le vostre inutili domande”.
“Allora non mi conoscete bene. Voi non sarete anche il genere di mostro che usa violenza su una povera donna indifesa, ma io non sono il genere di ragazza che china la testa solo perché un assassino l’ha risparmiata da una sentenza di morte e l’ha salvata da un’aggressione. Avrete anche potuto difendere la mia vita, ma ne avete troncate molte di più in passato e questo, almeno ai miei occhi, vi rende indegno di qualsiasi forma di gratitudine”.
S’era aspettata una reazione furibonda, invece lui non parve dare troppo peso alle sue accuse. Dall’espressione che traspariva attraverso la mezza maschera, si sarebbe detto che simili parole non gli fossero affatto sconosciute, e che anzi, avesse fronteggiato innumerevoli volte la sua stessa posa di indignato terrore. Aveva un’aria stanca, disillusa, indurita, e la barriera che si era costruito intorno era ormai troppo dura perché il suo concitato discorso potesse penetrarla e giungere fino al fondo della sua anima nera.
Il suo tono pacato e atono rispecchiava la sua espressione: “Bene, non intendo dissuadervi dalle vostre convinzioni, mademoiselle. Ho progetti ben più importanti che mi reclamano, altrimenti, credetemi, avrei ascoltato con piacere la vostra saggia predica”.
La giovane si sentì punta nel vivo: “Progetti, monsieur?” disse, disgustata: “Posso immaginare alla perfezione di che progetti si tratti. A quando il prossimo incidente?”
Per un attimo Erik la studiò con interesse, soffermandosi sulla sua piccola figura che, nonostante la paura e il disorientamento di trovarsi in quel luogo isolato e sconosciuto, se ne stava ritta e fiera sul pavimento di pietra. Indugiò sulla massa di ribelli riccioli neri, ancor più indomabili a causa dell’aggressione subita, sui piccoli pugni stretti convulsamente sul mantello che le aveva prestato, sulla posa decisa e arrabbiata delle labbra accese e sullo sguardo ardente e orgoglioso degli occhi scuri. Quella ragazza era stata vittima di una tentata violenza sessuale appena qualche ora prima ed era stata condotta nella dimora sotterranea del temibile Fantasma dell’Opera, eppure non cedeva ai nervi come avrebbero fatto tante sue coetanee, non s’abbandonava all’isteria e al terrore. Il dolore, la paura, il senso di inferiorità fisica che, in quanto donna, doveva sicuramente provare, non l’avevano spezzata. E questo era notevole, dal momento che nemmeno Christine era riuscita a mantenersi salda di fronte ai pericoli.
L’insicurezza, i piagnistei, le suppliche lo avevano sempre infastidito. Era un sollievo vedere, dopo tanto tempo, un’anima coraggiosa e determinata che non cedeva facilmente alle avversità.
“Questi” proclamò infine, raggiungendola sul ballatoio sopraelevato dove erano collocate la sua stanza da letto e quella in cui aveva deposto Christine sei mesi prima: “Sono segreti noti a me solo, mademoiselle…?”
“Carré” sbottò lei: “Vivian Carré”.
“…mademoiselle Carré. Ma se posso darvi un consiglio, non tornate più al teatro dell’Opera, se ci tenete alla vita. Ho intenzione di rivoluzionare le cose, e in grande stile!”
“Perché?” la parola le venne fuori come un ringhio soffuso: “Che cosa vi abbiamo fatto, monsieur Fantòme? Per quale motivo ci perseguitate?”
Lui le rivolse quello sguardo torbido, dannato e fiammeggiante che già una volta aveva intravisto, nel corso del disastro del “Re degli Elfi”, quando aveva alzato lo sguardo sul palcoscenico in fiamme e aveva colto un’ombra furtiva che svaniva nel buio con un’ultima risata di demoniaco trionfo. Suo malgrado, un brivido freddo le percorse tutta la colonna vertebrale e allorché lui le venne incontro con passi misurati, arretrò fino a sbattere contro la parete, avvertendo lo stesso senso di cattività provato mentre Antoine l’aggrediva. Si era imposta disperatamente di mantenere un’espressione ferma e decisa, ma le tracce di ciò che era accaduto nella cappella erano ancora dentro di lei, e temeva l’uomo-fantasma così come aveva temuto il giovane nobile, perché sapeva che dietro quell’apparenza pacata e atona si nascondeva un essere folle e imprevedibile, disposto al supremo sacrificio e al più efferato omicidio.
Erik sorrise amaramente nel vedere una paura malcelata che cominciava a dominare il viso pallido della ragazza appiattita contro al muro, e riconobbe in lei i sintomi dell’ansia: le brillanti gocce di sudore che le cospargevano la fronte, gli occhi leggermente sgranati, il petto che si alzava e abbassava con ritmo frenetico, il tremito ininterrotto e la maniera in cui le sue dita sottili torturavano la stoffa del mantello. Le giunse talmente vicino da poter sentire l’odore della sua paura, un misto di sudore e di dolce frenesia, e appoggiò entrambe le mani contro la parete ai lati della sua testa, in modo da tagliarle ogni via di fuga.
Vivian ansimò forte. Appena pochi centimetri separavano il suo corpo da quello alto e muscoloso dell’uomo, i loro volti erano ad una spanna di distanza l’uno dall’altro e la vicinanza era tale che riusciva a cogliere il suo odore personale, una fragranza selvaggia come una foresta in pieno inverno, come un mare in tempesta, come un lupo selvatico. Non si era mai trovata in una posizione tanto intima con un uomo fino a quel momento, a parte con Antoine, ma allora era stata soltanto una lotta frenetica e brutale, dove c’era spazio solo per il terrore. Adesso si trattava d’una cosa totalmente diversa: il Fantasma dell’Opera non l’aggrediva, non la toccava, ma faceva in modo che il disagio e l’agitazione si impadronissero di lei poco a poco con mille astuti dettagli, probabilmente con lo scopo di sottometterla al suo volere e farla cadere in ginocchio ai suoi piedi in preda a singhiozzi isterici. Nessuna fanciulla con un minimo di senso del pudore avrebbe sopportato oltre un certo limite quell’indecente postura. E doveva ammettere che lei stessa fremeva, di terrore, sì, ma anche di qualcos’altro. Avrebbe dovuto spingerlo via…colpirlo… ma…se si fosse infuriato? Ed era davvero questo, ciò che la frenava?
Si impose di ritrovare una parvenza di controllo e sollevò arditamente gli occhi, incrociando quelli ardenti e bui del suo aguzzino. Era come gettarsi a capofitto in un oceano che nascondeva segreti e mostruosità di cui le sfuggiva il significato. Quelle iridi azzurro scuro erano profonde e illimitate come pozzi in cui lei precipitava a capofitto e conducevano nel mezzo di qualcosa di terribile ma, in un certo perverso senso, anche di fascinoso. Sì, la dannazione che emanava da esse la attraeva e la respingeva al tempo stesso, accrescendo, in una bizzarra contraddizione, l’orrore e l’interesse che gli portava, e se non avesse staccato subito lo sguardo l’avrebbero inghiottita per non lasciarla andare mai più, ipnotizzandola al pari della sua voce celestiale e facendole dimenticare l’intero, orribile retroscena.
Non gli avrebbe permesso di incantarla.
Mise a fuoco il volto che conteneva quegli occhi pericolosissimi, per quanto fosse un’impresa assai ardua, vista la strategica vicinanza, e gli chiese a voce bassa: “Perché portate quella maschera?”
L’espressione di lui si indurì all’istante. Guardandola con viso nuovamente inespressivo e duro, quasi la sua resistenza l’avesse sminuita ai suoi occhi, le si rivolse con tono ugualmente basso, scandendo ogni parola: “Questo non lo saprete mai, mademoiselle”.
Si allontanò di scatto da lei, privandola del suo odore, della sua presenza, della sua prossimità tanto fulmineamente da causarle una sorta di trauma, e le volse le spalle con un movimento brusco mentre lei vacillava appena, confusa e sconvolta, e cercava di riaversi in fretta. Mai, mai si sarebbe aspettata quel modo di fare insolente e pericoloso, la maniera in cui il Fantasma dell’Opera si serviva del linguaggio del corpo e dei toni della voce era la stessa di un attore consumato e quasi era riuscita a vincerla, a farle smarrire ogni ragione. Possibile che fosse così debole? Che le sue risorse fossero tanto misere?
Erik, da parte sua, si stava chiedendo con improvvisa irritazione perché mai avesse prolungato quell’inutile conversazione oltre i limiti che si era imposto. Non aveva forse concordato con se stesso, mentre la portava nei sotterranei, che ve l’avrebbe tenuta solo finché non si fosse ripresa? Adesso la ragazza era cosciente, stava bene, non aveva più bisogno di aiuto. Dunque, era necessario mandarla via e tornare ad occuparsi dell’unica cosa importante al mondo, i suoi progetti di fantasma. Si era negato il privilegio d’avere compagnia quando aveva scelto di tornare all’Opera, non sarebbe ricaduto negli stessi errori passati. Tutti gli esseri umani erano crudeli e meritevoli di morire, e anche lei, come gli altri, non era per lui altro che una nemica.
“Andatevene” proruppe con voce sorda, continuando a darle le spalle: “Prendete quella barca” le indicò la gondola che aveva costruito con le sue mani e che era attraccata su un piccolo molo, oscillante nelle acque del lago Averno: “E remate finché non arriverete in un corridoio che vi condurrà dritto in superficie. Dimenticate ciò che avete visto quaggiù, e dimenticatevi di me, se non volete costringermi a farvi del male”.
Passò una mano sul cuoio liscio e lucido della maschera, rassicurato dalla sua perpetua presenza, e attese di udire i passi lievi della ragazza che si avviavano a fare quanto le aveva ordinato, ben lieti di potersene andare da quel luogo maledetto.
Ma dietro di lui non si mosse nulla, malgrado il tono di superiore comando con cui aveva pronunciato l’esortazione. Stupito e nervoso per quell’inaspettato contrattempo, non poté fare a meno di girarsi verso la sua indesiderata ospite, e la trovò nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata quando si era allontanato da lei, con la medesima espressione determinata e il medesimo brillio nei grandi occhi scuri. Non era abituato ad essere disobbedito, specialmente da chi usufruiva dei suoi rarissimi e assai poco disinteressati favori, e ricordava benissimo che Christine, ai tempi, aveva chinato la testa ad ogni suo comando, finché ancora lo credeva il suo Angelo della Musica. Che questa ragazzina impicciona e supponente, questo niente, osasse ignorare un ordine venuto da lui, il Fantasma dell’Opera, era a dir poco assurdo! E per di più le aveva chiesto di andarsene, una cosa che lei doveva aver sperato con tutta se stessa!
“Cosa state aspettando?” mantenne la calma a stento, dicendosi che forse la giovane non era riuscita a credere che l’avrebbe lasciata andare e si stava ancora riprendendo dallo sconcerto: “Andatevene! Siete libera!”
Il volto di Vivian conservò la sua espressione serena, e la sua voce suonò decisa e tranquilla quando rispose: “Mi dispiace, monsieur, non posso farlo”.
Gli occhi di Erik si spalancarono: “Che cosa?”
“Dico sul serio” quella figuretta sembrava pervasa da una determinazione assoluta: “Non intendo andarmene da qui”.
Riuscì nell’impresa impossibile di lasciarlo a corto di parole per una buona manciata di secondi. Aveva vissuto, viaggiato e visto abbastanza da aver appreso alla perfezione tutti i fatti della vita e tutte le sfumature di cui gli esseri umani davano sfoggio, e di solito era in grado di prevedere quasi sempre cosa sarebbe accaduto e come qualcuno avrebbe reagito ad una minaccia o ad un favore, pregio che gli aveva permesso di mantenere un assoluto controllo sulla situazione e un lieve margine di vantaggio che lo favoriva a spese di coloro che volevano catturarlo. Ma questo, anche se fosse vissuto altri cent’anni, non l’avrebbe mai potuto prevedere. Era esterrefatto.
“Il punto è, mademoiselle” sussurrò dopo essersi leggermente ripreso: “Che non conta affatto ciò che volete o non volete fare. Vi ho condotta qui per lasciarvi il tempo di riprendervi, e adesso vi siete ripresa. Perciò tornate in superficie, dai vostri cari!”
“Cari non ne ho” replicò lei: “Non più. E quello che vi siete proposto di fare, monsieur, è una vigliaccata bella e buona”.
Fu impossibile per Erik dissimulare lo stupore e la collera che una simile presunzione aveva scatenato in lui: “Come sarebbe a dire?” la sua voce s’arrochì pericolosamente, prossima a deporre ogni forma di cortesia, ma Vivian non si lasciò turbare dalla sua rabbia stupefatta: “Non potete portarmi in casa vostra e poi abbandonarmi al mio destino senza alcuna remora”.
Lui fece scattare la mascella: “Mademoiselle Carré” mise insieme le parole a fatica: “Che cosa volete da me? Vi ho salvata da quel ragazzo. Vi ho offerto un rifugio in cui riprendervi senza che altri si accorgessero dell’onta che vi era stata fatta. Ho arrecato danno a molti, questo è vero, ma non devo renderne conto a voi come a nessuno. Adesso vi sto addirittura permettendo di tornare alla vostra vita. La mia pazienza con voi è stata prodigiosa, ma francamente non comprendo il vostro comportamento, e potrebbe esaurirsi presto, se non sparite dalla mia vista seduta stante”.
Nessun accenno di timore parve sfiorare la fanciulla, sebbene la sua fosse stata una chiara minaccia: “Monsieur Fantòme” gli fece eco, usando il medesimo tono: “Sono io a non comprendere voi. Sapete chi era il giovane da cui mi avete difesa nella cappella?”
“Mi vanto di non aver mai conosciuto gente di tale risma” rispose Erik con fastidio e scarso interesse. Lei aggrottò le sopracciglia, ma proseguì: “Era il Marchesino Rappenau, una delle figure più prestigiose a Parigi in questo periodo. Si è incapricciato di me e ha provato a farmi delle avances, ma le ho rifiutate. Arrogante e viziato com’è, non ha potuto sopportare che mi fossi negata a lui e ha deciso di prendermi con la forza, nel modo che avete potuto vedere anche voi”.
“La dinamica della vostra aggressione non mi interessa” la interruppe lui brutalmente: “Ho faccende di gran lunga più importanti che mi attendono e sono ben diverse dagli intrighi amorosi di due ragazzini”.
Questa volta fu Vivian a lanciargli un’occhiata carica di veleno. Oh, aveva compreso subito che non l’aveva salvata perché gli stava a cuore il suo benessere, ma trattarla in quella maniera, dopo quello che le era capitato… però cosa poteva aspettarsi di meglio dal Fantasma dell’Opera?
“Non era mia intenzione tediarvi” riprese, sarcastica: “Sono consapevole che le vostre trame assassine esercitino su di voi un fascino assai più potente, ma volevo semplicemente farvi capire la situazione. Io sono una ragazza povera, senza protezione, orfana di entrambi i genitori e sola in una città che quasi non conosco. Non avrei alcuna chance contro di lui, se decidesse di riprovarci, e sono certa che lo farà. So bene come sono fatti i giovanotti di quel tipo. Ho bisogno di un luogo in cui rimanere nascosta per un po’, finché non si sarà distolto da me e non avrà spostato altrove la sua attenzione. Se tentassi di denunciarlo alla giustizia, nessuno mi crederebbe, o penserebbero che l’ho sedotto io e che sto cercando di scrollarmi di dosso il disonore per accollarlo a lui. Purtroppo il mondo va in questo modo…” soggiunse amaramente.
Erik capì subito dove voleva andare a parare con quel discorso, e inarcò un sopracciglio castano a fronte di tanto coraggio e tanta presunzione: “Voi” disse lentamente: “Voi mi state chiedendo di ospitarvi nella mia dimora?”
Il tono con cui pronunciò questa domanda avrebbe fatto tremare uomini ben più forti e avvantaggiati di Vivian, ma la ragazza sostenne senza batter ciglio il suo fiammeggiante sguardo e rispose, con semplicità: “Esatto”.
Non era impazzita di punto in bianco, ovviamente. Non c’era nemmeno un briciolo di verità nel discorso che aveva sostenuto con fare tanto sicuro e accorato. Nessuna persona sana di mente si sarebbe rinchiusa in quella gelida tomba in compagnia del terribile Fantasma dell’Opera, solo per sfuggire alle mire di un aristocratico invaghito. Piuttosto preferiva barricarsi in casa di Madame Lefevre. La ragione per cui aveva preso quella drastica decisione, per cui si stava negando le lezioni di piano, gli incontri con Emma, la luce del sole e il lucore della neve era in realtà ben diversa da quella che aveva appena addotto, e le era balenata alla mente mentre il fantasma la invitava ad andarsene.
Quale modo migliore esisteva di metterlo nel sacco e scoprire il suo punto debole, aveva pensato, se non quello di vivere a contatto con lui per giorni, conoscendo a fondo i segreti della sua anima e i suoi progetti per il futuro? Di sicuro, se si fosse stabilita a tempo pieno nella Dimora sul Lago e se avesse agito in maniera tale da conquistarsi la sua fiducia, sarebbe venuta a conoscenza di fatti noti a lui solo e magari, prima o poi, gli avrebbe strappato un’informazione di troppo, un particolare che le avrebbe permesso di presentarsi alla giustizia con prove sufficienti a farlo arrestare. Sarebbe stato difficile, quasi impossibile penetrare la barriera di diffidenza e di astio di cui si circondava, e avrebbe dovuto tenere un occhio sempre aperto per evitare che si accorgesse dei suoi reali propositi (in quel caso non osava pensare alle conseguenze), ma il rischio non l’aveva mai spaventata più di tanto, e un’impresa del genere, per quanto folle e mortale, la affascinava. Sarebbe stato un modo perfetto di mettersi alla prova, di vedere quanto sarebbe riuscita a recitare e a carpire. E, in effetti, le avrebbe garantito anche di stare lontana da Antoine per un po’.
“Spero, mademoiselle” commentò Erik in tono caustico: “Che voi non crediate davvero di poter vivere qui!”
“E perché mai dovreste sperarlo?” lei non riuscì a nascondere l’irritazione. L’uomo sembrò stupito: “Prego?”
“Voi mi avete salvata. Forse non l’avete fatto per me, ma le cose non cambiano. Siete giunto in mio aiuto e vi siete arrogato il diritto di punire il responsabile e condurmi nella vostra dimora, facendovi carico del mio benessere. Scacciarmi adesso che ho un disperato bisogno di mercé vi rende il più ributtante e insensibile dei banditi…perché è in netto contrasto con la vostra precedente azione. Se la mia presenza vi infastidiva a tal punto, come mai siete intervenuto? Non potevate lasciarmi in balia di quel mostro?”
Lui sbatté le palpebre, disarmato dinnanzi al discorso logico della giovane: “Io…”
“Ma invece siete intervenuto” riprese lei, implacabile: “E adesso avete delle responsabilità nei miei confronti. Salvandomi dalle violenze del Marchesino, vi siete autonominato mio protettore, ed io vi sto chiedendo protezione. Cercare di negarlo o passarci sopra è soltanto un’offesa verso di me e una prova della vostra codardia”.
Erik digrignò i denti. Quella ragazza credeva davvero di poter vincere il suo rifiuto facendo appello al suo discutibile senso dell’onore e alla fredda logica del galateo? Non aveva mai rispettato un solo giuramento in vita sua, giudicandolo solo un modo di gabbare gli stolti, e l’unica creatura che aveva reputato degna della sua protezione, Christine, l’aveva buttata via con negligenza, calpestandola per cercare rifugio in quella ben più lieve e superficiale del Visconte. No, non si sarebbe fatto carico anche di Vivian, non avrebbe avuto quella zavorra che lo tratteneva nel mondo reale, quella presenza che senz’altro avrebbe interferito con i suoi piani e i suoi affari. Aveva chiuso con quel genere di cose, e non ci sarebbe entrato di nuovo, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Il problema era che lei sembrava ugualmente determinata a stabilirsi nella sua dimora. Avrebbe dovuto trascinarla in superficie con la forza? Farle del male per convincerla? Al momento non ne aveva il minimo desiderio, anzi, era ansioso di tornare nel suo studio e riprendere il lavoro interrotto.
Però…un momento! Forse esisteva la maniera di liberarsi di lei, senza esserne il responsabile, e di dimostrarle quanto folle fosse stata la sua idea di accostarsi a lui…un ghigno malefico si impresse sulle sue labbra pallide. Mademoiselle Carré sosteneva di voler restare a tutti i costi? Bene, le avrebbe proposto di fare qualcosa di impossibile, che ella avrebbe rifiutato con sgomento, o nella quale sarebbe morta, e a quel punto si sarebbe dimenticato di lei e di tutte quelle inutili complicazioni. Non sarebbe stato neanche colpevole di una sua eventuale morte, dal momento che se la sarebbe cercata da sola!
Sapeva perfettamente quale delle sue geniali camere era adatta a lei…
“Bene, dunque” osservò con un’inflessione giocosa, gli occhi azzurro scuro che emanavano uno scintillio inquietante: “Forse mademoiselle è disposta a giungere ad un compromesso? Forse mademoiselle se la sente di affrontare una prova?”

 
  
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