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Autore: Iryael    19/01/2012    3 recensioni
Aprile 5402-PF, pianeta Veldin.
Lilith Hardeyns, diciottenne di Kyzil Plateau, trascorre la sua vita tra una famiglia inesistente, un coetaneo che la mette in difficoltà ad ogni occasione e un maestro di spada che per la giovane è anche un padre e un amico.
Sono passati sei anni da quando la ragazza ha incontrato Sikşaka, il suo maestro di spada, e Lilith ha acquisito un’esperienza sufficiente per poter maneggiare tutte le armi presenti nella palestra. Tutte tranne una: Rakta, una scimitarra che perde il filo molto raramente.
Lilith sa che quell’arma, il cui nome stesso significa “sangue”, richiede un’esperienza che ancora non ha.
Non sa che quella scimitarra ha origini molto più antiche di quel che sembra, né conosce il potere di cui è intrisa.
Ignora che qualcuno vuole averla ad ogni costo.
E nemmeno immagina che Rakta sta per diventare parte integrante della sua vita.
============
[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Lilith Hardeyns, Queen, Sikşaka Talavara)]
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 05 ]
Frammenti di passato
Dieci anni prima. 15 novembre 5392-PF
Via Lattea, pianeta Xartha
 
La guerra infuriava da più di un anno. Da una parte la Flotta; dall’altra i fedeli del Patto Trirazziale: blarg, rilgarien e xarthar, coadiuvati dai mercenari che i Razziatori avevano messo a disposizione. Anther City era diventata uno spaventoso teatro di morte, un posto dove erano rimasti solo i cadaveri e i combattenti. I civili che non ne volevano sapere erano fuggiti, e quelli rimasti sostenevano per lo più i cosiddetti ribelli nella loro lotta contro le autorità.
Quel giorno il grosso della battaglia si era combattuto nei settori della periferia nord, tra le acciaierie e le medie industrie. Alcuni centri di stoccaggio del gas erano andati a fuoco e avevano trascinato la zona in un inferno. Quel giorno, in quei settori non si sarebbe formata la brina sull’asfalto divelto, né si sarebbe condensato il fiato uscito dalla bocca dei combattenti.
Queen Hakuro era lì in mezzo. Con la sua carnagione pallida e lo sguardo bramoso inciso negli occhi, la divisa sporca e le armi in pugno, mentre camminava in quell’inferno di fiamme, acciaio e cemento. Ma non c’erano solo lei e il suo drappello, impegnati a stanare i ribelli. In un magazzino risparmiato dalle fiamme, immersi nella semioscurità, c’erano i ribelli pronti ad uscire e dare battaglia. Uno di essi, uno xarthar volpe con una benda scura sull’occhio destro, stava disponendo gli ordini e mano a mano che gli uomini attorno a lui ricevevano le istruzioni, si allontanavano a passo svelto.
Rimasero infine soltanto due lombax. Lo xarthar li guardò con il suo cipiglio deciso, quasi li stesse studiando, e poi disse: «Dragan, Sikşaka, voi ci coprirete coi fucili da cecchino.»
«Ma Lithver!» protestò il giovane maestro di spada. «Siamo più utili in prima linea che nelle retrovie!»
Lo xarthar lo guardò con asprezza.
«So quello che faccio.» sentenziò, aspettandosi che quella frase mettesse a cuccia l’obiezione avanzata da Sikşaka. Ma non fu così. Il giovane maestro di spada si rifiutò di tacere con una spiegazione così vaga e secca, e replicò duramente: «Stai sbagliando.»
Lithver lo guardò come se volesse ucciderlo.
«Ricordati il tuo posto, soldato. Sei qui per stare agli ordini e basta.» lo redarguì. Poi alzò la sua pistola e la puntò al volto di Sikşaka. «Se non ti sta bene puoi anche voltarmi le spalle.»
Il lombax continuò a fissare lo xarthar con determinazione. Sentiva distintamente il peso di Rakta al suo fianco, ma sapeva che non avrebbe avuto il tempo di estrarla. Avvicinò lo stesso una mano all’impugnatura, e l’altro serrò la presa sulla pistola, pronto a tirare il grilletto.
Dragan s’intromise.
«Abbiamo capito, capo.» intervenne, secco e diretto. Prese Sikşaka per un braccio e lo costrinse a voltarsi. «Andiamo sui tetti.»
Lithver abbassò l’arma e grugnì qualcosa, prima di uscire dal caseggiato. Dragan affibbiò un pugno sulla spalla al collega, poi uscì da una porta antincendio verso l’edificio ad ovest. A Sikşaka non rimase che seguirlo, ma per dirigersi verso l’edificio ad est del capanno. Percorse il breve tragitto fino al capanno adiacente ed entrò da una porta d’emergenza con un vetro rotto. Salì le scale grugnendo contro tutta la situazione ed aprì la porta che dava sul tetto con uno spintone. A quel punto la radio sulla sua spalla gracchiò il suo nome con la voce di Dragan. Il lombax premette il pulsante di risposta.
«Ti ascolto.»
«Tu sei fuori come un balcone!» sibilò l’altro. L’arrabbiatura a scoppio ritardato era una sua caratteristica.
«Ho ragione, lo sai.» lo rimbeccò Sikşaka, raggiungendo a schiena china la sua postazione. «Con Rakta posso essere molto più utile.»
«Ti farebbero fuori in due secondi, idiota!»
La luce dell’incendio dava sfumature inquietanti al vello dei lombax, ma essendo molto in alto rispetto alla strada si confondevano bene con l’edificio. Approntarono i loro fucili di precisione e si prepararono. Sikşaka rodeva ancora, ma in fondo era grato a Dragan per averlo fermato.
«E allora grazie.» rispose, avvicinando l’occhio al mirino dell’arma. «Per avermi salvato da una morte da idiota.»
«Figurati. Per fortuna sai essere ragionevole.»
«Con una pistola sotto il mento lo saresti anche tu.»
«Non ci giurare. Ma ti prometto che cercherò di esserlo finché sarò il tuo dire...tto...»
Passò qualche secondo di silenzio teso. Il giovane maestro di spada rimase incollato al mirino, in silenzio, cercando di capire cos’avesse indotto l’altro razziatore a finire la frase con quella sospensione carica d’ansia. Non vide nulla.
«Ehi, cosa succede?» domandò, preoccupato. Il calore lo sferzava da tutte le parti, facendogli venire sete, ma non si azzardò a prendere la borraccetta alla cintura.
«Oh, merda.» mormorò l’altro lombax. «C’è la Regina.»
Siksaka alzò la testa quel tanto che bastava per guardare la strada. Vide un paio di figure in avvicinamento e per distinguerle meglio usò il mirino del fucile. Quando inquadrò l’umana nel mirino emise anch’egli un gemito strozzato.
«Dobbiamo impedirle di raggiungere Lithver.» asserì. Dragan, sull’altro tetto, deglutì a fatica.
«Già. Dobbiamo coprirli.» rispose meccanicamente.
Il maestro di spada fu il primo a reagire. La paura divenne bisogno di difendere il proprio territorio, e la sua determinazione aumentò notevolmente. Il senso del fare la cosa giusta prevalse sulla repulsione per l’arma da fuoco e centrò Queen Hakuro nel mirino.
«Occupati di quello con lei.»
«Ce l’ho.»
Fu allora che la donna alzò la testa e gli sorrise malevola, gelandogli il sangue nelle vene. Nel mentre in cui il proiettile sparato da Dragan trafiggeva un soldato della Flotta alla testa, Sikşaka avvertì che le parti si erano bruscamente invertite. Con un ghigno, sulle labbra della donna si formarono le parole “sei mio”. Lui, predatore fino a quel momento, era appena diventato una preda.
Proprio no! pensò con veemenza, mentre una scarica di adrenalina risaliva lungo la spina dorsale. Con l’occhio al mirino premette il grilletto, e accolse il rinculo dell’arma con sollievo. Ma durò pochi istanti, perché Queen continuò la sua avanzata come se nulla fosse successo. Sikşaka sgranò gli occhi, incredulo.
Le ho sparato! L’ho colpita!
Dragan sparò un secondo colpo, che colpì Queen tra le scapole. La donna cadde in avanti, prima in ginocchio e poi distesa a terra. Tuttavia l’inquietudine non abbandonò il lombax, che cominciò ad udire un fischio. La radio fissata alla spalla gracchiò con la voce di Dragan: «Sik, hai davvero una mira di merda.»
«Ma l’ho colpita!» protestò il mastro di spada.
«Nei tuoi sogni, forse.» lo prese in giro l’altro cecchino. «Me ne devi una, pivello.»
Sikşaka sentì nuovamente il calore degli incendi sulla pelle, e quella volta prese la borraccetta dalla cintura per bere qualche sorso d’acqua. Il fumo cominciava ad invadere anche quell’area, e anche se non aveva ancora intaccato la visuale, si poteva odorare la sua presenza.
Riportò l’occhio al mirino. Scrutò la strada, vide un paio di uomini in divisa e inquadrò il più possente. Si muovevano senza aspettarsi nulla di particolare, quindi il lombax pensò che non avessero prestato caso agli spari. Poggiò il dito sul grilletto.
Sono nemici.
Sparò. Una frazione di secondo dopo vide il soldato cadere a terra, e immaginò la sorpresa nei suoi occhi. Dopodiché fu lui a sgranare gli occhi per la sorpresa. Abbandonò il fucile e si premette le mani sulle orecchie: il fischio leggero era diventato un suono agghiacciante che gli stava perforando i timpani.
Gridò per il dolore, gridò con tutto se stesso. Il suo corpo fu scosso dai tremiti, ma non era lui a tremare. L’edificio gli trasmetteva le vibrazioni. Dapprima sembrava che la struttura avesse i brividi, ma con il passare dei secondi divennero veri e propri scossoni. Il telaio metallico finì col cedere e porzioni del tetto crollarono.
Poco a poco crollò tutto.
 
Quando le vibrazioni e il fischio cessarono, Sikşaka si scoprì disteso sopra un cumulo di macerie. Gli facevano male le orecchie e tutti i denti. L’aria era nettamente più calda di quello che ricordava, ma non c’era ancora traccia delle fiamme. A giudicare dal calore, però, non mancava molto perché il fuoco arrivasse a mangiare anche quel posto.
Chissà che ne è stato di Lithver e gli altri, si chiese. Qualsiasi cosa stessero facendo, di certo non erano più nel punto prefissato.
Voltò la testa giusto in tempo per vedere un’ombra stagliarsi dritta e fiera nel suo campo visivo.
«Hai qualcosa che mi appartiene, lombax.»
Il giovane maestro di spada rotolò giù dal cumulo e cercò di rimettersi in piedi. Gli facevano male tutte le giunture. Rakta era ancora al suo posto: con un arco rapido Sikşaka la sguainò. Non si rese conto che lo sguardo gli si assottigliò, e preso dall’abitudine non prestò caso nemmeno al particolare raffinamento dei sensi.
Queen Hakuro, davanti a lui, sembrò compiaciuta.
«Esatto, proprio quella.»
«Tu dovresti essere morta.» mentre parlava Sikşaka distese mentalmente i muscoli. Era come fare un profondo respiro rilassante, in grado di sciogliere la tensione muscolare e – almeno in parte – anche quella mentale. Era un modo per controllarsi, e il vecchio Gazda gli aveva insegnato che un guerriero dotato di autocontrollo era un guerriero vincente.
«Voglio svelarti un segreto.» rispose la donna, quasi ridendo. «Prima non hai sbagliato mira. Se fossi stata una semplice umana sarei morta già con il tuo proiettile. Al secondo ho dovuto fare un po’ di scena, o non sarei potuta arrivare a te.»
Sikşaka caricò. Pochi passi leggeri e fu addosso a Queen, che per evitare il suo fendente dovette muoversi all’indietro con l’agilità di un felino. Tra le sue mani si formò una lama di energia pura e con quella contrastò il fendente successivo, che arrivò fulmineo e simile al precedente.
«Ma come vedi, io non sono una creatura che conosci.»
Sikşaka indietreggiò di un paio di passi e si chiese che trucco avesse usato. Quella lama non rassomigliava a nessuna che conoscesse. Era lunga e sottile, aggraziata nelle forme. Crepitava come se fosse fatta di elettricità e sembrava composta da un flusso di plasma, ma era resistente come una roccia. Quando Rakta ne incontrava il filo, scaturiva una nota acuta che graffiava i timpani malconci.
Con un unico movimento innaturale la donna bruciò la distanza e cominciò a pressarlo con i fendenti: dall’alto, da destra, di sgualembro e di nuovo dall’alto. Dove lui doveva usare due mani, lei non dimostrava il bisogno di impiegarne più di una.
«Hai del talento, te lo concedo.» disse in una fase di stallo. «Perché non saliamo di livello?»
Lo scontro divenne molto più dinamico. Il peso cominciò a spostarsi da una gamba all’altra sempre più rapidamente, e il tintinnio delle lame venne ad intrecciarsi con calci, ginocchiate e colpi di gomito. Sikşaka non aveva mai combattuto con un avversario di quel calibro, nemmeno quando il suo maestro d’arte delle lame lo impegnava nei combattimenti più veloci e dolorosi.
Gamba contro gomito.
Lama contro lama.
Un calcio deviato.
Una ginocchiata a segno.
Un grido smorzato.
Le lame di nuovo a contatto, i volti vicini.
«Gazda Sherwick è stato davvero un bravo insegnante.» ammise Queen. «Un vero peccato che non sia più tra noi.»
I volti si allontanarono e le lame tintinnarono ancora, riempiendosi di riflessi rossastri. Non ci volle molto prima che i due tornassero in condizione di potersi scambiare una frase.
«Come sai di lui?»
La domanda era cupa, il tono volutamente basso.
«Ho buoni informato–»
La ginocchiata di Sikşaka colse la donna di sorpresa. Il maestro di spada ne approfittò per disimpegnare la lama con un gioco veloce; e prima che Queen riuscisse a contrattaccare il lombax la ferì alla spalla con un movimento dal basso verso l’alto. La lama non incontrò resistenza nel tagliare le carni; dando allo spadaccino l’impressione di avere a che fare con un avversario senz’ossa. Sangue scintillante tinse il filo della lama, mentre la donna smorzò un grido.
Fu allora che Dragan, attirato dal rumore, raggiunse le rovine del capanno. Sikşaka lo intravide con la coda dell’occhio e decise che dovevano scappare. Piantò la lama nel ventre della sua avversaria con ferocia e urgenza, e quando la estrasse lasciò che il corpo cadesse a peso morto all’indietro.
«Sik!»
La chiamata del suo compagno lo costrinse a distogliere lo sguardo dalla donna. Per la prima volta da quando si era ripreso sulle macerie, annusò l’odore acre del fumo che aleggiava nell’area. L’incendio stava arrivando. Sikşaka lo raggiunse camminando a passo svelto. Per qualche ragione, l’istinto gli diceva di non rinfoderare Rakta.
Era quasi di fronte a Dragan quando Queen cacciò un urlo. O meglio, sembrò un urlo per i primi istanti, ma poi divenne un ruggito che costrinse i due lombax in ginocchio, storditi da fitte lancinanti alle tempie. Il giovane maestro di spada, con le mani sulle orecchie sanguinanti, gridò a pieni polmoni, mentre il compagno dovette portarsi una mano alla bocca e soffocare un fiotto di sangue.
La donna si rimise in piedi a fatica. Un filo di fumo lattiginoso fuoriuscì dalla ferita, che non riusciva a rimarginare. Si avvicinò a grandi falcate a i due lombax, e quando fu loro vicina gli riversò addosso un altro di quei terrificanti ruggiti capaci di far scoppiare la testa e distruggere anche i pilastri più solidi. Dragan sentì tutte le ossa vibrare, e alla fine i suoi denti cedettero del tutto provocandogli un dolore straziante che sfociò in una richiesta disperata di fermarsi. Ma la Regina di Sangue in quel momento aveva occhi solo per il giovane maestro di spada. Teneva uno stivale piantato in mezzo alla schiena di Sikşaka e gli stava ruggendo contro parole incomprensibili. Parole che anche senza capirle grondavano odio e minacce in ogni loro sillaba.
Alla fine del suo discorso Queen si chinò e osservò con compiacimento l’espressione sconfitta e stordita del suo avversario.
«Questo, mortale, è quello che succede a chi si mette a giocare coi manufatti divini.»
Scostò con malagrazia la mano di Sikşaka dall’impugnatura incordata di Rakta e la sollevò. Riconobbe la fattura fine di Chaos nelle sottili decorazioni chiare, semplici ma eleganti, che ornavano il dorso. Percepì il quantitativo d’âsa gô-mjä che era stato usato per forgiare l’anima della lama – letale per qualunque creatura che non fosse affine alla dea Chaos. Dichiarò che il suo potere si era enormemente accresciuto, se riusciva ad impugnare un’arma nata apposta per nuocerle al solo tocco.
Le venne da ridere. Erano millenni che non vedeva quella lama, indubbiamente utile ai suoi piani. Poi il sorriso divenne una smorfia e un sottile filo di fumo cominciò a salire dalla mano che impugnava Rakta. Seguì uno sfrigolio di pelle bruciata e la donna dovette spostare la spada da una mano all’altra. Aprì il palmo e osservò imprecando la pelle piagata. Capì che, per quanto accresciuto fosse il suo potere, non era ancora in grado di tenere in mano il manufatto per più di una manciata di secondi.
«Dannazione!»
Presa da un colpo di rabbia violenta, scagliò la lama dritta nella spalla sinistra di Sikşaka, causandogli un ulteriore spasmo di dolore.
«Tieni questa spada, lombax.» ringhiò. «Trattala con il rispetto che merita finché non verrò a riprendermela. Ti do dieci anni. Se al mio arrivo scopro che l’hai venduta, ti ucciderò nel più atroce dei modi.»
Dopo aver sputato quella minaccia voltò le spalle ai due lombax e lasciò il deposito ormai distrutto a passo di carica. I due non si accorsero nemmeno del sospiro che lasciò le loro bocche. Dragan contò fino a venti prima di mettersi carponi e sputare un fiotto di sangue. Non aveva bisogno di uno specchio per sapere che non aveva più neanche un dente, e le gengive sanguinavano assieme ai timpani. Si avvicinò traballando al suo collega e mugolò.
«Togli Rakta...dobbiamo...muoverci...» ansimò Sikşaka. Dragan annuì, e prima di togliere la spada tastò la spalla. Poi, tenendo fermo il braccio leso, tolse la lama con un unico strattone, che costò quasi la coscienza al maestro di spada.
Ci vollero alcuni secondi prima che Sikşaka riuscisse a gestire mentalmente il dolore. Poi, fece alcuni respiri profondi e si sforzò di mettersi in ginocchio. A fatica mise un piede avanti e fece leva per rialzarsi. Il mondo gli girò attorno, ma si impose di arrivare almeno al rifugio più vicino.
«Ce la...fai?» domandò al suo compagno, guardandolo preoccupato. La risposta fu un mugolio con un accenno d’assenso.
 
La guerra era sparita in quel momento. Era passata totalmente sullo sfondo delle preoccupazioni dei lombax. In quel momento l’unica cosa che aveva la priorità era trovare un riparo. L’opzione più auspicabile era un ospedale da campo, ma sapevano entrambi che quello del 196esimo settore era stato distrutto dalla Flotta. Il più vicino era nel 194simo settore; lontano, ma non irraggiungibile. Dopo aver mosso i primi passi incerti, si diressero verso il loro ideale di salvezza.
* * * * * *
Una settimana più tardi, 22 Novembre 5392-PF
Anther City, ospedale da campo del 194esimo settore
(ex medie industrie a carattere energetico)
 
«Pazzesco...e poi come avete fatto?»
Un apprendista infermiere stava disfacendo il bendaggio della spalla di Sikşaka. Non era raro vedere dei quindicenni alle prese con garze e aghi da sutura: i medici non erano sempre disponibili e i feriti arrivavano in continuo. Quel giovane era volenteroso, e ascoltava i racconti di tutti con ammirazione. Si chiamava Sturgis ed era un rilgarien che tossiva in continuazione, ma aveva il dono di fare fasciature robuste. Sikşaka gli sorrise.
«Abbiamo camminato per un po’, ma per non farmi morire dissanguato il mio amico ha dovuto arroventare un ferro e cauterizzare la ferita. Ho delirato fino a stamattina, per cui, onestamente, non so dirti come abbiamo fatto ad arrivare qui. L’ultimo ricordo nitido che ho è quello di un magazzino del 196esimo settore.»
«Ho sentito il medico che ha detto che cose del genere funzionano una volta su tre.» commentò il ragazzo, spalancando leggermente gli occhi sottili prima di cedere all’ennesimo colpo di tosse. «Hai un bel po’ di fortuna. E anche quello che è arrivato qui con te ne ha parecchia. Insomma, gli hanno rimosso le radici dei denti e suturato tutte le gengive. Dev’essere stata una bomba sonica potente, oppure esplosa vicina alla faccia. Anche per quanto riguarda i timpani, avrete bisogno entrambi di una ricostruzione. Il medico ha detto che tu sei più fortunato da questo punto di vista, perché sarà un intervento meno pesante.»
Sikşaka non rispose. La storia della bomba sonica doveva essere venuta fuori da Dragan, e decise che l’avrebbe assecondata. D’altro canto non sarebbe riuscito a spiegare come Queen fosse sopravvissuta ai proiettili, avesse creato dal nulla quell’arma e fosse riuscita a produrre quel suono devastante. Optò per spostare la conversazione.
«Ma in generale come sta? È cosciente?»
«Credo di sì. Dovrei chiedere informazioni più precise a Shihite, però.»
Sturgis arrivò finalmente a scoprire la pelliccia di Sikşaka. Il lombax inspirò a denti stretti quando il ragazzo dovette tirare via le bende a contatto con la pelle, su cui il pus secco e gli strati superiori dell’epidermide formavano ancora una brutta crosta. Il giovane cominciò a ripulire la zona con bende nuove imbevute di qualcosa freddo e gelatinoso, dando al lombax una nuova sensazione di benessere. Ci fu un breve momento in cui si interruppe e diede sfogo ad altri piccoli colpi di tosse. «Qui non ci ricrescerà mai più il pelo, lo sai? Avrai una bella cicatrice di guerra.»
Lo disse con il solito tono ammirato, causando un improvviso incupimento nell’umore di Sikşaka.
«Aspiri a volerne una anche tu?» domandò.
«Scherzi? Significherebbe che non sono un inutile rammollito!»
Sikşaka annuì tristemente, prima di domandare: «Vuoi davvero ritrovarti in fretta in mezzo ad un fuoco incrociato?»
«Noi siamo superiori. Cioè, non in senso arrogante...voglio dire che siamo nel giusto.» la convinzione del ragazzo lasciò ancora più perplesso il lombax. «Il nostro modo di affrontare l’universo va ben al di là della visione miope del parlamento federale. Le nostre possibilità di successo sono alte e il fatto che resistiamo da più di un anno lo dimostra. Non ci abbatteranno mai.» Sturgis non lo sapeva, ma con quella risposta aveva scatenato un terremoto nella convinzione del maestro d’armi. «Comunque, io non avrò mai il permesso di andare in prima linea. Mi hanno trovato un tumore alla pleura, e non so nemmeno se arriverò al mio prossimo compleanno. Ma darò una mano qui finché potrò.» Ebbe di nuovo un colpo di tosse. «Vabbé, parliamo d’altro. Intanto ti rifaccio la fasciatura. Da dove vieni?»
Sikşaka soddisfò tutte le curiosità del ragazzo. Poi, quando se ne andò, il lombax si racchiuse in se stesso per riflettere. Il discorso sulla superiorità gli era sembrato altisonante ma assurdamente vuoto. Eppure lui si era messo con convinzione al servizio di quel discorso. Aveva rischiato la morte ed era in quel lettino per parole come quelle.
L’animo che il ragazzo aveva esternato pronunciandole gli aveva dato l’impressione che fosse qualcosa di tremendamente sbagliato. Il rifiuto di sé per il suo problema, l’ammirazione per la battaglia, l’aspirazione a procurarsi le cicatrici di colpi d’arma da fuoco gli erano parsi sentimenti tanto ingenui quanto falsi.
È tutto un errore.
Paragonò quel ragazzo al se stesso di otto anni prima, smanioso di fare qualcosa alla stessa maniera del giovane rilgarien.
 
Se è tutto un errore, però...perché sono qui?
* * * * * *
Un anno dopo, 18 Ottobre 5393-PF, ore 17:50 circa
Galassia Solana, pianeta Veldin
 
Kyzil Plateau era arroccata al margine estremo di un altopiano, e parte di essa era costruita sulle pianelle che scendevano il versante montuoso. In particolare c’era una cresta affilata e prominente su cui la cittadina si era ampliata, preferendo lasciare la pianura alle serre e ad altre attività. Sul versante volto a sud della cresta erano cresciuti i bassifondi, mentre il versante nord era diventato pian piano una sede di stoccaggio di alcune grandi società.
La zona di stoccaggio appartenente alla Gadgetron era stata abbandonata da anni, ed era troppo vasta perché l’amministrazione cittadina potesse riadattarla in qualche altro modo in breve tempo. Al momento di andarsene, i mezzi della grande compagnia avevano sgomberato le loro pianelle più elevate, ma avevano abbandonato i container più vecchi e malandati, che occupavano una grossa porzione di territorio alle quote più basse.
Proprio tra i container più bassi, dentro una specie di collage metallico, l’élite dei razziatori della città si era radunata per pianificare un colpo alla base militare che la Flotta aveva approntato a una ventina di chilometri da lì. Sikşaka, come al solito, aveva presenziato in veste di consulente di Dragan, ma aveva ascoltato a stento la conversazione. Lo sguardo era fisso sulla mappa al centro del tavolo, ma la mente era altrove.
La guerra tra la Flotta e i ribelli del Patto Trirazziale stava cominciando a declinare, secondo le ultime notizie. A Xartha non veniva dato più di un mese prima della caduta, mentre Rilgar e Orxxon avevano qualche chance in più. Su Veldin non c’era traccia della disputa, anche se una parte delle forze dei Razziatori era ancora sui campi di battaglia a sostenere i ribelli. Dragan e Sikşaka erano tornati nel dicembre dell’anno precedente, ed erano stati promossi entrambi. L’organizzazione aveva innalzato Dragan da capobanda a dirigente delle operazioni cittadine, e quest’ultimo aveva voluto il maestro di spada come consulente personale. Il loro effettivo insediamento si era svolto con l’arrivo dell’anno nuovo, dopo che gli arti lesi furono ricostruiti chirurgicamente. Dopo alcuni scontri iniziali contro bande che non avevano accettato la nomina di Dragan, i traffici avevano assunto un altro ritmo e si erano fatti più invisibili alle autorità. L’economia parallela di Kyzil Plateau aveva cominciato a rifiorire e tutto sembrava andare nel verso giusto.
Tutte le informazioni inerenti alle operazioni di Kyzil Plateau avevano cominciato a passare all’interno della palestra di Gazda Sherwick, che nel frattempo era stata ereditata da Sikşaka. La sera, spesso, arrivavano Dragan e un paio dei suoi uomini a discutere le operazioni sulla base delle ultime notizie.
Quel giorno era stata prefissata una riunione di tutti i capibanda. Quattordici persone avevano raggiunto il container e si erano accomodate attorno al tavolo circolare: i capibanda si erano seduti, mentre gli accompagnatori erano rimasti in piedi dietro i propri protetti, in silenzio, in attesa finché la riunione non fu sciolta. Come sempre, gli ultimi a rimanere nella saletta furono Dragan e Sikşaka.
Il primo fece per lasciare il container a sua volta, ma il maestro d’armi lo fermò con la frase: «Ti devo parlare.»
Dragan capì che era qualcosa di importante per via del tono greve con cui aveva pronunciato le parole, e lo invitò a sedersi.
«Ti ascolto.»
Il maestro di spada aggirò il tavolo e gli si sedette di fronte. Si mosse lentamente, come se ogni singolo passo gli costasse uno sforzo immane. Era pienamente consapevole che con quello che stava per dire andava ad appendersi una scure sulla testa. Tuttavia ci aveva pensato sopra per quasi un anno, e aveva deciso che non era più tempo di aspettare.
Raccolse il coraggio, guardò dritto il collega negli occhi e dichiarò: «Ho deciso di chiudere con te e i Razziatori.»
* * * * * *
Due giorni più tardi, 20 Ottobre 5393-PF, ore 22:30 circa
Ovest di Kyzil Plateau, ex area stoccaggio Gadgetron
 
Il luogo che avevano scelto era lo stesso in cui si erano riuniti due giorni prima. I sei capibanda, con due uomini ciascuno, stavano ascoltando le parole di Dragan, che stava spiegando il motivo di quella riunione.
Sikşaka osservò di sottecchi il suo collega. Due sere prima sembrava averlo convinto con le sue motivazioni, ma agli occhi degli altri capibanda il suo doveva apparire come un tradimento. E se anche due giorni prima Dragan aveva sostenuto che avrebbe fatto quanto in suo potere per risolvere al meglio la questione, non era detto che sarebbe filato tutto liscio. Tanto per cominciare era nell’angolo opposto all’uscita; per cui durante un eventuale scontro avrebbe dovuto attraversare tutto il container prima di guadagnare la porta. Compiere quei venti metri sotto il fuoco incrociato di almeno quattordici persone sarebbe stato impossibile.
Quindi o esco tutto intero o non esco affatto, rifletté.
Prese la parola Belvard, il capobanda della zona est dei bassifondi. Era un cazar abbastanza giovane, con una vistosa giacca di pelle e un’improbabile fila di piercing ad un orecchio. Guardò il maestro di spada con assoluta diffidenza e poi sentenziò: «Non mi interessa cosa ti ha giurato. Le sue promesse non contano niente per me. Voglio sentire da lui cos’ha da dire.» e indicò Sikşaka. Altri tre capibanda annuirono, e Dragan gli fece cenno di rispondere.
«Nell’85 sono entrato a far parte dei Razziatori perché vedevo il parlamento galattico di Solana come un organo iniquo. Pensavo che le azioni dei Razziatori potessero scuoterlo, e facendo parte della vostra organizzazione avrei dato pace al mio desiderio di combattere per ottenere qualcosa di migliore.» asserì con calma. «Ma avevo ventitre anni e mi mancava un po’ di esperienza. Comunque, ho continuato ad eseguire gli ordini credendo di fare qualcosa che alla fine si sarebbe rivelato utile ad un futuro migliore. Poi, un anno e mezzo fa sono andato su Xartha a combattere per i ribelli. Mi stava bene all’inizio, perché vedevo nel sollevamento del Patto Trirazziale il mio stesso astio nei confronti delle autorità galattiche. Ho affrontato molti membri della Flotta, e la maggior parte di essi l’ho passata al filo della mia spada. Ho avuto modo di affrontare tattiche e atteggiamenti diversi, approntati da ufficiali più o meno esperti e più o meno duri. Finché non mi sono scontrato con Queen Hakuro, a voi forse più nota con il nome di Regina di Sangue. Quel mostro mi ha spedito all’ospedale, e lì ho avuto modo di cominciare a riflettere.» osservò uno per uno tutti i capibanda, lasciando Dragan per ultimo. Era certo che anche lui avesse appena ricordato i fatti di quel giorno, o non avrebbe scorto la paura nei suoi occhi. «La mia conclusione è stata che entrare nei Razziatori è stato un errore. Gli obiettivi dell’organizzazione non coincidono con i miei, pertanto ho deciso di abbandonarla.»
«Come se ti fosse possibile.» replicò aspramente Nekai, l’unica donna presente in sala. La kerwaniana dominava sui quartieri benestanti, e come al solito indossava un elegante tailleur nero. «Nessuno con la tua posizione abbandona l’organizzazione per una motivazione tanto cretina.»
«Le mie idee non coincidono più con le vostre, per quale motivo dovrei rischiare ulteriormente la vita per difenderle?» replicò a sua volta Sikşaka.
«E per quale motivo, di grazia, le idee hanno smesso di coincidere dopo otto anni?» domandò Koliachek, il più anziano in sala. Era uno xarthar pantera dagli occhi sottili e penetranti, con la capacità di giudizio più lungimirante di tutti i presenti.
«Ho provato a guardare le operazioni da un punto di vista più asettico possibile. E l’unico messaggio che viene fuori dalla raffica di distruzione che portiamo è che dove passiamo non ci sarà un domani.»
«Esatto. Per il nemico non ci dev’essere un domani.»
«Ma chi è esattamente il nemico, per voi?» provocò il maestro di spada. «La Flotta come istituzione? Non direi. Qualche suo membro? Probabile, dopotutto nutriamo tutti dei sentimenti. Il Sindaco? A lui pensano i colleghi della capitale, e comunque non ha mai fatto nulla per ostacolarci. E che dire della Polizia? Sapete anche voi che non interviene. Quindi... contro chi ci stiamo scagliando?»
«Perfetto, abbiamo un pivello in crisi d’identità.» commentò sarcasticamente un altro dei capibanda. Era un lombax di mezz’età con il vello candido e gli occhi grigio acciaio, carichi di disprezzo.
«Io trovo invece che siano domande sensate, Albio.» affermò Koliachek, accarezzandosi il mento. Posò uno sguardo carico di aspettativa su Sikşaka e proseguì: «Dimmi ragazzo, hai trovato una risposta?»
«È proprio quella che mi fa desiderare di ritornare sui miei passi.»
Sostenne lo sguardo di Koliachek sillaba dopo sillaba, senza dimostrare turbamento. Lo xarthar soppesò la risposta e la unì alle considerazioni fatte durante le spiegazioni. Alla fine arricciò le labbra e annuì con fare abbastanza convinto.
«Ti ho inquadrato, Sikşaka Talavara. Sei uno di quelli che segue i propri princìpi fino alla fine.» e si volse verso Dragan. «Per me un accordo è possibile.»
Il lombax annuì, ma altri non presero bene le parole dell’anziano. Nekai si mostrò stupita e si fece pensierosa, mentre Belvard e Albio si indignarono della decisione e protestarono sonoramente. Gli altri due – Winsen, un kerwaniano tarchiato che dominava sull’area ai confini di quella di Nekai, e il successore di Dragan sull’area ovest dei bassifondi, un lombax biondo di nome Yanko – rimasero in silenzio. Winsen sembrava più che altro annoiato; mentre Yanko non mostrava alcuno stato d’animo. Dragan si chiese se non avessero già deciso in merito, per rimanere in un silenzio così riservato.
«E chi ci dice che una volta fuori dal giro non ci tradisca tutti?» osservò Belvard.
«Questo potresti farlo tu.» asserì tranquillamente Winsen. «Del resto la faccenda di Reisshin lo conferma.»
«Cos’hai detto?!»
«Sto dicendo che sono d’accordo con Koliachek.» spiegò il kerwaniano. «Conosco Talavara a sufficienza da poter dire che terrà la bocca chiusa.»
Dragan annuì e segnò mentalmente: tre a favore. Ne manca solo uno. Guardò istintivamente Yanko, sperando che lo supportasse.
Dopotutto anche lui lo conosce.
«Continuo a non essere d’accordo.» dichiarò Nekai.
«Non esiste possibilità.» le fece eco Albio.
«E tu non hai niente da dire, Yanko?» domandò Belvard con veemenza. Il lombax biondo alzò uno sguardo pigro sul coetaneo e asserì: «Se il capo ci ha chiamati per decidere, significa che lui per primo si fida. E io mi fido del suo giudizio.»
«Sei un cane leccaculo, l’ho sempre saputo.» borbottò Albio.
«Ma tu cosa ne pensi?» domandò ancora il cazar. Yanko sbuffò sonoramente.
«Penso che sia uno spreco di tempo stare qui a pensarci ancora. Siamo in quattro ad essere favorevoli e in tre ad essere contrari. Se nessuno si rimangia la parola possiamo anche procedere, per quel che mi riguarda.»
Dragan provò una specie di moto d’orgoglio per la risposta che il suo erede aveva servito al vicino, e sorrise sommessamente.
«Tre di voi più me a favore.» dichiarò. Si voltò a guardare Sikşaka e aggiunse: «Avrai l’onore di un Patto d’Uscita, ritieniti fortunato.»
Il maestro d’armi si limitò ad invertire l’incrocio delle braccia e a dire: «Non avrete di che pentirvi.»
 
Meno di un’ora dopo uscirono tutti dal container. Sikşaka fu fatto uscire per primo, davanti alle guardie del corpo. I capibanda sarebbero usciti per ultimi.
Il maestro di spada esalò un impercettibile sospiro di sollievo: se non altro, era uscito intero dal container. Poi ripensò alle condizioni: sarebbe stato tenuto costantemente d’occhio, non avrebbe dovuto traslocare né avere contatti di alcun tipo con le forze dell’ordine e non sarebbe dovuto uscire da Kyzil Plateau. Violare uno solo dei termini sarebbe equivalso all’eliminazione, ma la contropartita era una vita pacifica.
Quello che volevo, no? Ad ogni modo, almeno nel primo periodo mi conviene evitare le zone di Nekai, Belvard e Albio. Visto quanto gli piaccio mi farebbero sparare a vista.
Si incamminò verso l’ingresso della zona di stoccaggio, senza voltarsi o cambiare espressione quando le vetture dei vari capibanda lo sorpassarono.
Immaginò che ricominciare da dove aveva interrotto otto anni prima sarebbe stato difficile con quelle restrizioni: gran parte delle sue conoscenze si era trasferita altrove o si era arruolata. Tuttavia non gli sarebbe nemmeno dispiaciuto condurre una vita solitaria, almeno all’inizio. Avrebbe avuto modo di riavvicinarsi passo per passo ad una vita normale.
L’ultima vettura sfanalò e si fermò al suo fianco. Il finestrino calò e Sikşaka si trovò davanti lo sguardo intelligente di Dragan.
«Vorrei parlarti da pari un’ultima volta. Sali, ti riporto alla palestra.»
Il maestro di spada annuì e la portiera fu aperta. Una volta salito a bordo, il mezzo ripartì. I cumuli di terra e le sagome dei vecchi container bombati assomigliavano a strani mostri nella luce della luna, e il movimento veloce delle nuvole suggeriva che di lì a poco avrebbe cominciato a spirare la pithil. Dentro la vettura c’era il silenzio assoluto.
Oltrepassarono almeno tre lampioni prima che Dragan prendesse la parola.
«Non so dirti se ti ritengo un cretino o meno.» asserì quando esordì. «Però dammi retta ed evita i quartieri di quei tre.»
«Ci avevo già pensato, non temere.»
«Sul serio Sik, cosa c’è che non va?» volle sapere il lombax. «Sei voluto uscire dal giro e ti ho accontentato nel modo più legale che ho. Ma non capisco proprio.»
Il maestro d’armi si prese qualche secondo per decidere se era il caso di dirgli la verità o meno. Non aveva mentito nel raccontare tutta l’altra storia, nel container; tuttavia era considerabile una mezza verità. Si disse che di Dragan poteva ancora fidarsi, e si convinse a vuotare tutto il sacco.
«Mi ci ha fatto riflettere un ragazzo ad Anther City. Le sue convinzioni erano parole vuote, rese credibili solo dal suo affanno per renderle vere. Tra me e me l’ho rimproverato, poi mi sono reso conto che la mia vita era come quelle parole. E allora ho cominciato a pensare di girare pagina.»
«Continuo a non capirti, ma fa lo stesso. Cosa farai adesso?»
«Non ne ho idea. Ma suppongo che un lavoro come operaio mi andrebbe bene per i primi tempi. Poi potrei riaprire la palestra.»
«Col fisico che ti ritrovi vai a insegnare, no?» buttò lì Dragan. «Oltretutto, ora che la spalla è tornata completamente abile puoi farlo.»
«È un’altra possibilità.» e si massaggiò la spalla. Per un momento ripensò alla sensazione di dolore che aveva provato mentre l’altro la cauterizzava. Gli parve di sentire ancora quel bruciore lancinante e si decise ad andare avanti. «Comunque la palestra mi piacerebbe riaprirla, non sia mai che riesca a riacquistare e insegnare un po’ di valori, come alternativa allo sfacelo proposto da voi.»
«Quindi mi farai da rivale?» domandò scetticamente il razziatore.
«Ad essere obiettivi non credo proprio.» rispose Sikşaka, occhieggiando lo scenario cittadino al di fuori del vetro. «Prima devo riscattare me stesso. Poi, forse, un giorno...se riuscirò ad impedire anche a una sola persona di fare i miei errori potrò ritenermi soddisfatto.»
«Se sta bene a te...buona fortuna.»
Il maestro di spada lo squadrò. «Lo sai che non te l’augurerò, vero?»
«Otto anni che ti parlo e non l’hai mai fatto.» e si concesse una risata. «Comunque spero di non vederti mai più. Altrimenti...»
Sikşaka alzò la mano con un gesto deciso. E il tono con cui parlò successivamente fu tanto grave da mettere Dragan sul chi vive. «Io non infrangerò il Patto, lo sai. Ma mi terrò le spalle coperte: se sarete voi a romperlo, nessuno ne uscirà illeso.»
Gli lanciò un’ultima occhiata fredda e decisa, prima di ribadire: «Nessuno, ricordatelo bene.»

 

   
 
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